di Idan Landau,
+972 Magazine, 1 novembre 2024.
Il dibattito sui dettagli del ‘Piano dei Generali’ distrae dalla vera brutalità dell’ultima operazione di Israele, che ha abbandonato la facciata delle considerazioni umanitarie e sta gettando le basi per gli insediamenti.
Guardate le due foto seguenti, scattate entrambe il 21 ottobre 2024. A destra, vediamo una lunga fila di sfollati – o, più precisamente, di donne e bambini – nelle rovine del campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza. Gli uomini di età superiore ai 16 anni sono separati, sventolano una bandiera bianca e tengono in mano le loro carte d’identità. Stanno per uscire.
A sinistra, vediamo un campo costruito dall’organizzazione di coloni Nachala appena fuori Gaza, come parte di un evento che celebra la festa di Sukkot. All’evento hanno partecipato 21 ministri e membri di destra della Knesset e diverse centinaia di altri israeliani, tutti presenti per discutere i piani di costruzione di nuovi insediamenti ebraici a Gaza. Stanno per arrivare.
Queste foto raccontano una storia che si sta svolgendo così rapidamente che i suoi dettagli strazianti sono già sul punto di essere dimenticati. Eppure questa storia potrebbe iniziare da qualsiasi momento degli ultimi 76 anni: la Nakba del 1948, il “Piano Siyag” che l’ha seguita, la Naksa del 1967. Da una parte, i palestinesi sfollati con tutti gli effetti personali che possono portare con sé, affamati, feriti ed esausti; dall’altra, i coloni ebrei gioiosi, che santificano la nuova terra che l’esercito ha liberato per loro.
Ma la storia di ciò che sta accadendo in questo momento, da una parte e dall’altra della barriera di Gaza, ruota intorno a quello che è stato definito il ‘Piano dei Generali’ – e a ciò che nasconde.
Il Piano
Il “Piano dei Generali”, pubblicato all’inizio di settembre, ha un obiettivo molto semplice: svuotare la Striscia di Gaza settentrionale dalla sua popolazione palestinese. Il piano stesso stimava che circa 300.000 persone vivessero ancora a nord del Corridoio Netzarim – la zona occupata da Israele che divide in due Gaza – anche se l’ONU stimava il numero più vicino a 400.000.
Durante la prima fase del Piano, l’esercito israeliano dovrà informare tutte queste persone che hanno una settimana di tempo per evacuare verso sud attraverso due “corridoi umanitari”. Nella seconda fase, al termine della settimana, l’esercito dichiarerà l’intera area una zona militare chiusa. Chiunque sia rimasto verrà considerato un combattente nemico e sarà ucciso se non si arrende. Verrà imposto un assedio completo sul territorio, intensificando la fame e la crisi sanitaria – creando, come ha detto il Prof. Uzi Rabi, ricercatore senior dell’Università di Tel Aviv, “un processo o di fame o di sterminio”.
Secondo il Piano, fornire alla popolazione civile un preavviso per l’evacuazione garantisce il rispetto delle norme del diritto umanitario internazionale. Questa è una menzogna. Il primo protocollo delle Convenzioni di Ginevra afferma chiaramente che l’avviso ai civili di fuggire non cancella lo status di persone protette a coloro che rimangono, e quindi non consente alle forze militari di danneggiarli; e un assedio militare non cancella l’obbligo dell’esercito di permettere il passaggio degli aiuti umanitari ai civili.
Inoltre, l’ossequio a parole al diritto umanitario cade nel vuoto se si considera che l’uomo che guida il piano, il Maggior Gen. (ris.) Giora Eiland, ha trascorso l’ultimo anno a invocare la punizione collettiva contro l’intera popolazione di Gaza, a trattare l’enclave come se fosse la Germania nazista e a consentire la diffusione di malattie come passo che “avvicinerà la vittoria e ridurrà i danni ai soldati dell’IDF”. Dopo aver ripetuto queste cose per 10 mesi, il generale Eiland ha riconosciuto l ‘opportunità – in consultazione con una serie di consiglieri ombra, sui quali torneremo – di pilotare un piano di sterminio per il nord di Gaza. Lo ha consegnato diligentemente ai politici e ai media, dissimulato da una maschera di bugie sul rispetto del diritto internazionale.
I media e i politici hanno fatto quello che fanno sempre: hanno creato un diversivo. Mentre il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant si sono affrettati a negare, funzionari anonimi e soldati sul campo stavano già informando i media che il piano cominciava già ad essere attuato.
La realtà, tuttavia, è ancora più spaventosa. Quello che l’esercito sta attuando nel nord di Gaza dall’inizio di ottobre non è proprio il “Piano dei Generali”, ma una versione ancora più sinistra e brutale in un’area più ristretta. Si potrebbe anche dire che il piano stesso e l’intensa tempesta mediatica e diplomatica internazionale che ha creato hanno contribuito a tenere tutti all’oscuro di ciò che sta realmente accadendo, e a oscurare i due modi in cui il piano è già stato ridefinito.
La prima modifica, la più immediata, è l’abbandono delle disposizioni per ridurre i danni ai civili, ossia dare ai residenti del nord di Gaza una settimana per evacuare verso sud. Il secondo cambiamento riguarda il vero scopo dello svuotamento dell’area: mentre si dipingeva l’operazione militare come una necessità di sicurezza, essa era, in realtà, un’incarnazione dello spirito di pulizia etnica e di reinsediamento fin dal primo giorno.
Attenzione deviata
La catastrofe nel nord di Gaza cresce di minuto in minuto, e la confluenza di vari fattori significa che l’inimmaginabile – lo sterminio di migliaia di persone all’interno dell’area assediata – non è più al di là di qualunque possibilità.
L’attuale operazione militare è iniziata nelle prime ore del 6 ottobre 2024. Ai residenti di Beit Hanoun, Beit Lahiya e Jabalia – le tre località a nord di Gaza City – è stato ordinato di sfollare verso l’area di Al-Mawasi, nel sud della Striscia, attraverso due “corridoi umanitari”. Israele ha presentato l ‘attacco come un mezzo per smantellare le infrastrutture di Hamas dopo che il gruppo si era ristabilito nell’area, e per prepararsi alla possibilità che Israele assuma la responsabilità di acquisire, spostare e distribuire gli aiuti umanitari nella Striscia – in altre parole, per il ritorno dell’Amministrazione Civile Israeliana che governava Gaza fino al ‘disimpegno’ del 2005. La prima causa era vera solo in parte, e la seconda non era altro che una cortina di fumo.
Per i Palestinesi di quelle aree, le cose sembravano piuttosto diverse. L’esercito attaccava i residenti nelle loro case e nei rifugi con bombardamenti, artiglieria e droni, mentre i soldati si spostavano di strada in strada demolendo e incendiando interi edifici per impedire ai residenti di tornare. Nel giro di pochi giorni, Jabalia si è trasformata in una visione dell’Apocalisse.
In contrasto con l’immagine dipinta dall’esercito, che implicava che i residenti delle aree settentrionali erano liberi di spostarsi verso sud e di uscire dalla zona di pericolo, le testimonianze locali hanno presentato una realtà spaventosa: chiunque avesse anche solo messo piede fuori dalla propria casa rischiava di essere colpito dai cecchini israeliani o dai droni, compresi i bambini piccoli e coloro che portavano bandiere bianche. Anche le squadre di soccorso che cercavano di aiutare i feriti sono state attaccate, così come i giornalisti che cercavano di documentare gli eventi.
Un video particolarmente straziante, verificato dal Washington Post, mostra un bambino a terra che implora aiuto dopo essere stato ferito da un attacco aereo; quando una folla si raduna per aiutarlo, viene improvvisamente colpita da un altro attacco aereo, che uccide una persona e ne ferisce più di 20. Questa è la realtà in cui si trovano i soccorsi. Questa è la realtà in cui gli abitanti del nord di Gaza avrebbero dovuto incamminarsi, affamati ed esausti, verso la “zona umanitaria”.
Alla luce di questa brutalità, la macchina della propaganda israeliana si è attivata per offrire una serie di scuse sul motivo per cui i civili non stavano evacuando – affermando soprattutto che Hamas stava “picchiando con i bastoni” coloro che cercavano di andarsene. Se Hamas ha effettivamente impedito ai civili di evacuare, come può l’esercito affermare che coloro che hanno scelto di non evacuare sono terroristi condannati ad essere uccisi? Ma ascoltando gli stessi residenti, si è sentito ripetutamente lo stesso grido disperato: “Non possiamo evacuare perché l’esercito israeliano ci spara”.
Il 20 ottobre, l’esercito ha diffuso la foto di una lunga fila di palestinesi sfollati, con una didascalia formulata in modo banale e scialbo come una previsione del tempo: “Il movimento dei residenti palestinesi continua dall’area di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza. Finora, più di 5.000 palestinesi hanno evacuato l’area”.
Gli osservatori più attenti avranno notato che tutte le teste nella foto erano coperte: si tratta di una fila di donne e bambini, che non sono stati ‘evacuati’, ma sradicati con la forza. Dove sono gli uomini? Portati via in luoghi sconosciuti. Tra qualche mese forse sentiremo ancora sentire parlare di loro nei campi di detenzione israeliani, con tutte le torture e gli abusi che hanno ucciso almeno 60 prigionieri gazawi dal 7 ottobre.
A differenza di quanto dichiarato nel “Piano dei Generali”, ai civili non è stata concessa una settimana per l’evacuazione, come ha riconosciuto in seguito Eiland; fin dall’inizio, l’esercito ha trattato le aree settentrionali come una zona militare in cui qualsiasi movimento viene accolto con un fuoco mortale. Questo è il primo modo in cui il piano è stato usato come parafulmine per deviare l’attenzione e le critiche da una realtà molto più brutale di quella che propone.
Una politica di sterminio
Da quando l’esercito israeliano ha iniziato la sua operazione nel nord di Gaza, ha ucciso più di 1.000 palestinesi. L’aviazione israeliana di solito bombarda di notte, mentre le vittime dormono, massacrando intere famiglie nelle loro case e rendendo più difficile l’evacuazione dei feriti. Il 24 ottobre, i servizi di soccorso hanno annunciato che l’intensità dei bombardamenti non ha lasciato loro altra scelta se non quella di interrompere tutte le operazioni umanitarie nelle aree prese di mira.
Alcuni degli attacchi più significativi includono: il bombardamento di un’abitazione nell’area di Al-Fallujah, nel campo di Jabalia, il 14 ottobre, che ha ucciso una famiglia di 11 persone e il medico che era venuto a curarle; un attacco alla scuola Abu Hussein nel campo di Jabalia, il 17 ottobre, che ha ucciso 22 sfollati che vi si erano rifugiati; l’uccisione di 33 persone in tre case nel campo di Jabalia, tra cui 21 donne, il 19 ottobre; il bombardamento di diversi edifici residenziali a Beit Lahiya nello stesso giorno, con 87 morti; i bombardamenti aerei su cinque edifici residenziali a Beit Lahiya il 26 ottobre, che hanno ucciso 40 persone; e il massacro di 93 persone nel bombardamento di un edificio residenziale di cinque piani a Beit Lahiya il 29 ottobre.
L’operazione di sterminio attualmente in corso nel nord di Gaza non dovrebbe sorprendere chi ha prestato attenzione ai crimini di guerra di Israele nell’ultimo anno e agli innumerevoli rapporti investigativi che i media più rispettati del mondo hanno scritto al riguardo. Dal lancio di bombe da 2.000 libbre dove non c’erano obiettivi militari nelle vicinanze, all’uccisione regolare di bambini con colpi di cecchino alla testa, queste atrocità passate ci mostrano cosa continuerà a fare l’esercito israeliano se non verrà fermato.
Ci sono solo tre grandi strutture mediche all’interno dell’area accerchiata del nord di Gaza, alle quali sono state indirizzate le centinaia di vittime delle ultime settimane: l’Ospedale Indonesiano e l’Ospedale Kamal Adwan a Beit Lahiya, e l’Ospedale Al-Awda a Jabalia. Tuttavia, l’esercito israeliano ha sottoposto anche questi ospedali ad attacchi, rendendoli impossibilitati a curare i feriti. I rapporti di Medici Senza Frontiere e delle Nazioni Unite hanno definito la situazione come “un immediato pericolo per la vita della popolazione”.
All’inizio dell’operazione, l’esercito israeliano ha ordinato ai tre ospedali di evacuare entro 24 ore, minacciando di catturare o uccidere chiunque fosse stato trovato al loro interno: non proprio la “settimana di grazia” dichiarata nel “Piano dei Generali”. L’esercito ha bombardato Kamal Adwan e i suoi dintorni nelle prime fasi dell’operazione, prima di sottoporlo a un raid di tre giorni che l’ha privato completamente del funzionamento e ha portato alla detenzione della maggior parte dei medici.
L’esercito ha anche bombardato ripetutamente sia l’Ospedale Indonesiano che Al-Awda. Due pazienti del primo sono morti a causa della conseguente interruzione di corrente, prima che l’ospedale smettesse di funzionare del tutto. Questo è il motivo per cui anche le ferite lievi spesso finiscono con la morte – perché le équipe mediche semplicemente non hanno le risorse necessarie per curarle.
Israele, ovviamente, considera ogni casa e ogni vicolo di Gaza una potenziale minaccia e un obiettivo legittimo. E quale sarà la scusa per negare l’accesso a Gaza a sei gruppi di assistenza medica che lavorano con l’Organizzazione Mondiale della Sanità? Molto probabilmente, si tratta di una punizione per aver inviato nella Striscia medici occidentali che in seguito hanno pubblicato testimonianze sui cecchini israeliani che prendevano di mira i bambini. Un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato poco prima ha concluso che Israele sta portando avanti “una politica concertata per distruggere il sistema sanitario di Gaza” come parte del “crimine di sterminio contro l’umanità”.
Una politica di fame
Questi attacchi sono stati accompagnati da un assedio completo che ha bloccato tutte le forniture alimentari e mediche dall’entrare nel nord di Gaza, il che sembra essere una politica di fame intenzionale. Secondo il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, Israele ha iniziato a tagliare il cibo il 1° ottobre 2024 – cinque giorni prima dell’operazione militare.
Questo fatto ha ricevuto un riconoscimento ufficiale, anche se indiretto, sotto forma di un ultimatum degli Stati Uniti il 15 ottobre, in cui si chiedeva a Israele di consentire l’ingresso di aiuti nel nord della Striscia di Gaza entro 30 giorni, altrimenti si sarebbe rischiato di bloccare le forniture di armi degli Stati Uniti a Israele. Questo indica, come avevano avvertito i gruppi umanitari, che non era stato permesso l’ingresso di tali aiuti prima di allora. Il periodo di grazia di 30 giorni è ridicolo; come ha dichiarato il capo della politica estera dell’UE, nel giro di 30 giorni migliaia di persone potrebbero morire di fame.
Inoltre, un’inchiesta di Politico ha rafforzato la sensazione che, come le precedenti “minacce”, l’ultima richiesta di Washington sia solo un vuoto gesto cerimoniale per rassicurare le coscienze liberali. Già ad agosto, il più alto funzionario statunitense che si occupa della situazione umanitaria a Gaza aveva detto alle organizzazioni umanitarie in una riunione interna che gli Stati Uniti non avrebbero ritardato o interrotto le spedizioni di armi a Israele per fare pressione sugli aiuti umanitari. Per quanto riguarda la violazione del diritto umanitario internazionale, secondo uno dei partecipanti, il concetto espresso dal funzionario USA è stato che “le regole non si applicano a Israele”.
La politica di fame di Israele nel nord di Gaza non si è limitata a impedire l’ingresso di cibo. Il 10 ottobre, l’esercito ha bombardato l’unico negozio di farina della zona – un crimine di guerra molto chiaro, che costituisce una parte significativa del caso di genocidio contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia. Quattro giorni dopo, l’esercito ha bombardato un centro di distribuzione alimentare delle Nazioni Unite a Jabalia, uccidendo 10 persone.
Le agenzie umanitarie hanno lanciato avvertimenti urgenti su questa escalation del disastro, sostenendo di non poter adempiere alle loro funzioni di base nelle condizioni impossibili che Israele ha creato nel nord di Gaza. Un nuovo rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) sulla fame a Gaza prevede “esiti catastrofici” di una grave malnutrizione, soprattutto nel nord.
Il 16 ottobre, i media israeliani hanno riferito che, in seguito alle pressioni degli Stati Uniti, 100 camion di aiuti sono entrati nel nord di Gaza. Ma i giornalisti del nord si sono affrettati a correggere il dato: non è entrato assolutamente nulla nelle aree assediate. Il 20 ottobre, Israele ha rifiutato un’ulteriore richiesta da parte delle agenzie delle Nazioni Unite di portare cibo, carburante, sangue e medicinali. Tre giorni dopo, in risposta alla richiesta di un ordine provvisorio da parte del gruppo israeliano per i diritti umani Gisha, lo Stato ha ammesso all’Alta Corte che fino a quel momento non era stato permesso l’ingresso di alcun aiuto umanitario nel nord di Gaza. A questo punto, stiamo già parlando di un assedio alimentare di tre settimane.
Da allora, Israele sostiene di aver permesso l’ingresso di un piccolo rivolo di camion di aiuti nel nord di Gaza, ma senza prove fotografiche è molto difficile sapere quanti abbiano raggiunto la destinazione dichiarata.
Ammiccare alla destra, fingere giustificazioni di sicurezza alla sinistra
Fin dall’inizio, la logica militare per un’operazione così drastica è stata discutibile. Eiland ha parlato di “5.000 terroristi” nascosti nel nord, ma chiunque abbia seguito da vicino la situazione sul terreno ha potuto constatare che gli incontri con gli agenti di Hamas in queste aree erano pochi e molto distanti tra loro.
Infatti, come ha rivelato Yaniv Kubovich di Haaretz, “i comandanti sul campo… dicono che la decisione di iniziare a operare nel nord di Gaza è stata presa senza deliberazioni dettagliate, e sembra che fosse principalmente intesa a fare pressione sulla popolazione di Gaza”. Alle forze militari è stato detto di prepararsi per l’operazione, ha continuato il rapporto, “anche se non c’era alcuna intelligence che la giustificasse”.
Inoltre, non c’era unanimità tra gli alti funzionari della Difesa sulla necessità della manovra, e c’erano molti sia nell’esercito che nello Shin Bet che pensavano che la manovra potesse mettere in pericolo la vita degli ostaggi. Le fonti che hanno parlato con Haaretz hanno testimoniato che i soldati che sono entrati a Jabalia “non hanno incontrato i terroristi faccia a faccia”, anche se almeno 12 soldati sono stati uccisi nel nord di Gaza.
Qual è stata dunque la vera motivazione dell’operazione? Per rispondere a questa domanda, basta guardare l’evento di Sukkot organizzato dai coloni e dai loro sostenitori il 21 ottobre, intitolato “Prepararsi a colonizzare Gaza”. Lì, hanno esposto la loro visione per la costruzione di insediamenti ebraici in tutta la Striscia di Gaza, dopo aver ripulito l’enclave dai Palestinesi. Gaza City, ad esempio, diventerebbe “una città ebraica, tecnologica e verde che unirebbe tutte le parti della società israeliana”. E in questo, almeno, dicono la verità: gli israeliani si sono sempre uniti intorno allo spostamento e all’espropriazione dei palestinesi.
Quell’evento è stato solo l’ultimo a chiedere l’annessione e l’insediamento della Striscia, dopo l’estasiante conferenza di gennaio a Gerusalemme, alla quale hanno partecipato migliaia di persone, tra cui non meno di 26 membri della coalizione governativa. E mentre solo un quarto dell’opinione pubblica israeliana sostiene il reinsediamento di Gaza, la presenza significativa di ministri e sostenitori del partito Likud di Netanyahu dimostra che a livello politico, la questione sta diventando sempre più popolare.
Il movimento Nachala di Daniela Weiss ha già elaborato i piani: sei gruppi di insediamento, con 700 famiglie già in attesa. Tutto ciò di cui hanno bisogno è una finestra di opportunità – un momento in cui l’attenzione nazionale è distratta (in Libano, in Cisgiordania, in Iran), un momento di determinazione nello stile ‘decisivo’ di Bezalel Smotrich, e il paletto sarà piantato oltre la recinzione.
Lo chiameranno “avamposto militare” o “azienda agricola”, una strategia collaudata nel tempo per strizzare l’occhio alla destra e fingere giustificazioni di sicurezza alla sinistra. L’esercito non li abbandonerà mai: questi sono i nostri ‘ragazzi migliori’, l’esercito è la loro carne e il loro sangue. E così il ritorno avverrà.
I cervelli dietro il ‘Piano dei generali’
I più attenti tra noi potevano vedere come soffiava il vento fin dalla prima settimana di guerra. Mentre la maggior parte degli israeliani cercavano ancora di farsi un’idea sull’entità del disastro del 7 ottobre, i coloni stavano già disegnando mappe e mettendoci sopra gli spilli indicativi dei vari insediamenti.
La ferita del ‘disimpegno’, quando l’esercito sradicò 8.000 coloni dalla Striscia, fu lasciata deliberatamente aperta, senza mai guarire: un ‘trauma’ che è stato rivissuto e tramandato anno dopo anno, facendo colare il suo veleno nel famigerato Kohelet Policy Forum – un think tank di destra responsabile di gran parte dei piani regolatori dell’attuale Governo – e in un’intera schiera di politici di destra imbevuti di odio e di un insaziabile desiderio di vendetta.
È stata la reincarnazione di un vecchio tema fondamentale israeliano: le eterne vittime non possono mai peccare. È la mentalità che ha trasformato il trauma del 7 ottobre, secondo le parole di Naomi Klein, in “un’arma di guerra”, mescolando senza soluzione di continuità l’attacco di Hamas con immagini dell’Olocausto.
E naturalmente, la ministra di estrema destra Orit Strook lo sapeva prima di chiunque altro, prevedendo nel maggio 2023: “Riguardo al [reinsediamento] a Gaza, non credo che il popolo di Israele abbia il pensiero lì in questo momento, quindi non accadrà né oggi né domani mattina. A lungo termine, suppongo che non ci sarà altra scelta che farlo. Accadrà quando il popolo di Israele sarà pronto per questo, e purtroppo lo pagheremo con il sangue”. Quanto fosse davvero triste è difficile dirlo, dal momento che la stessa Orit Strook, nel bel mezzo della guerra, si rallegrava dell’aumento di nuovi insediamenti e avamposti in Cisgiordania e lo descriveva come “un periodo di miracoli”.
Qual è il legame tra questo calderone traboccante di messianismo e il “Piano dei Generali”? Questo è stato rivelato all’inizio di questo mese, quando Omri Maniv di Channel 12 ha scoperto che, sebbene i generali militari siano il volto del Piano, la mente dietro di esso è l’organizzazione di destra Tzav 9 – il gruppo responsabile dell’incendio dei camion degli aiuti umanitari prima che potessero entrare a Gaza, e che di conseguenza è stato sanzionato dagli Stati Uniti insieme al suo fondatore, Shlomo Sarid.
Secondo il rapporto di Maniv, è stato Sarid a mettere in contatto Eiland con il Forum dei Comandanti e Combattenti di Riserva, che ha pubblicato il Piano. Tra i fondatori del Forum c’è il Magg. Gen. (res.) Gabi Siboni dell’Istituto Misgav, che discende dall’ormai defunto Istituto di Strategia Sionista, un’organizzazione di facciata che rappresenta – sorpresa, sorpresa – Kohelet.
Nel corso degli anni, Kohelet ha perfezionato la sua capacità di influenzare in modo significativo l’agenda pubblica in Israele attraverso estensioni e sottosezioni che operano sotto nomi apparentemente innocui, con i suoi ricercatori che a volte negano persino qualsiasi relazione con l’organizzazione madre. Sarid ha praticamente citato il manuale operativo di Kohelet quando ha spiegato, in una riunione interna via Zoom dei membri di Tzav 9: “Abbiamo ideato una strategia intelligente: prendere una questione centrale controversa e poi, come organizzazioni civili, venire a offrire la soluzione al governo. Veniamo da tutte le parti. Abbiamo offerto soluzioni sia da destra che da sinistra”.
Eiland era a conoscenza del fatto che Sarid e i membri del Forum dei Comandanti e Combattenti di Riserva si stavano impegnando per ristabilire gli insediamenti a Gaza, ma ha negato che il suo piano fosse destinato a preparare il terreno per questo. Questa sembra una negazione fatta da un utile idiota.
Come ogni buon membro del Comando Centrale dell’IDF, che viene inviato a proteggere una cerimonia religiosa di coloni presso la Tomba di Giuseppe a Nablus, o a bloccare le uscite dai villaggi palestinesi di Kafr Qaddum e Beita, Eiland continuerà a sostenere che si limita a fornire soluzioni di ‘sicurezza’ che non hanno nulla a che fare con l’agenda dei coloni. “Non è una questione politica”, ci spiegano in continuazione, mentre i messianisti si rallegrano, versando ogni tanto una lacrima per ‘il prezzo di sangue da pagare’.
Ma Eiland è davvero un utile idiota? Questa settimana abbiamo appreso che la leadership politica israeliana sta facendo pressione sui militari perché impediscano ai residenti di Jabalia di tornare alle loro case, “nonostante il fatto che gli obiettivi dell’operazione… siano stati in gran parte raggiunti”. Eiland prevede ora che per i palestinesi, il nord di Gaza “si trasformerà lentamente in un sogno lontano. Come hanno dimenticato Ashkelon [Al-Majdal], dimenticheranno anche questa zona”. Questa non è più la voce di un tattico militare senza cervello, ma di un vero e proprio sostenitore della pulizia etnica.
E così abbiamo messo a nudo tutti gli inganni del ‘Piano dei Generali’: contrariamente a quanto dichiarato, il piano stesso è un crimine di guerra; l’esercito non ha previsto alcun periodo di grazia per l’evacuazione dei civili; la giustificazione militare è discutibile, e certamente non è proporzionata all’intensità della drastica operazione; e l’obiettivo finale del piano non è militare, ma politico: reinsediare Gaza.
La finestra di opportunità di Israele
In questo momento, circa 100.000 residenti rimangono assediati a Beit Lahiya, Beit Hanoun e Jabalia, affamati e assetati. Intere famiglie vengono massacrate e interi quartieri vengono rasi al suolo ogni giorno. La distruzione dell’infrastruttura sanitaria da parte di Israele e il blocco degli aiuti medici hanno reso gli ospedali inattivi, incapaci di curare i feriti. Nel frattempo, un parziale blackout delle comunicazioni e la quasi totale assenza di giornalisti nelle aree assediate ci tengono in gran parte all’oscuro.
È possibile prevedere cosa succederà? Alcuni guarderanno inevitabilmente agli Stati Uniti per avere delle risposte. Tra pochi giorni, gli americani si recheranno alle urne in quella che sarà sicuramente una gara serrata tra Donald Trump e Kamala Harris. Se Trump vincerà, la leadership israeliana potrà tirare un sospiro di sollievo. Lui non fermerà alcun piano israeliano, per quanto brutale – anche per il semplice motivo che non gli è chiaro quale sia la differenza tra Gaza e Israele.
Harris, da parte sua, non rischierà gli ultimi giorni della sua campagna facendo dichiarazioni forti. Di certo non metterà a rischio il voto ebraico ai Democratici lanciando un vero e proprio ultimatum a Israele – infatti lo ha già detto. E se dovesse vincere? Non c’è fretta. La nuova Presidente dovrà studiare la situazione. “Stiamo seguendo da vicino ciò che sta accadendo a Gaza e stiamo lavorando con i nostri alleati per trovare una soluzione a questa tragica situazione”, si assicurerà di dire.
L’Europa non ha alcuna leva di influenza su Israele nell’immediato futuro, e in ogni caso la differenza di opinioni interna all’UE – e, in primo luogo, il risoluto sostegno della Germania a Israele – impedisce qualsiasi drastico cambiamento di politica. All’Aia, i mulini della giustizia macinano lentamente.
La salvezza può venire solo da Washington, ma Washington è più impegnata ogni giorno che passa con l’ultima dichiarazione scandalosa di Trump. La macchina del veleno della destra americana, aiutata da Elon Musk, è già in piena attività nella produzione di disinformazione e fake news. Il risultato inevitabile sarà che, ancora una volta, nessuno si preoccuperà dei corpi palestinesi che si accumulano.
Tutto questo offre a Israele una finestra di opportunità di un mese o due, durante la quale può persino intensificare l’operazione di sterminio nel nord di Gaza. Per quanto posso vedere, nulla lo fermerà durante questo periodo, e probabilmente anche dopo. L’intensificazione della guerra in Libano e nel nord di Israele funziona anche da ulteriore cortina fumogena.
Quanti palestinesi Israele sterminerà nel nord di Gaza prima di allora? L’uccisione di oltre 1.000 persone nelle quattro settimane dall’inizio dell’attuale operazione può non sembrare molto rispetto ai numeri che abbiamo visto all’inizio della guerra, ma dobbiamo ricordare che l’area attualmente sotto assedio contiene meno di un quinto della popolazione di Gaza. In proporzione, quindi, questo equivale ai numeri record dei primi due mesi di guerra, quando l’esercito ha ucciso una media di 250 persone al giorno attraverso incessanti attacchi aerei. Non c’è quindi da stupirsi se i residenti del nord di Gaza affermano che le ultime settimane sono state le più difficili dall’inizio della guerra.
Costretti ad andarsene, per non tornare mai più?
A parte la possibilità di un annientamento di massa con mezzi non ancora noti, Israele sembra scegliere una via di mezzo tra lo sterminio e il trasferimento. Lo sterminio era inteso come una forma di terrore e di intimidazione, il modo usato dall’esercito per convincere i residenti del nord di Gaza ad evacuare “volontariamente”. Ma anche questo non è stato sufficiente. E così i soldati sono stati inviati negli alloggi di fortuna per radunare i rifugiati sotto la minaccia delle armi e mandarli a sud, dopo che gli uomini erano stati separati e portati per essere interrogati o arrestati.
Il 21 ottobre, l’emittente pubblica israeliana Kan ha pubblicato il filmato di un drone che riprendeva i Palestinesi radunati e costretti a dirigersi verso sud. Kan ha titolato “I gazawi lasciano Jabalia”. Stanno “lasciando” nello stesso modo in cui i residenti di Lyd, Al-Majdal e Manshiyya “lasciarono” nel 1948. Gli stessi residenti gazawi testimoniano: “Chi non esegue gli ordini viene fucilato”.
E così è: donne e bambini in una fila, separati dagli uomini di età superiore ai 16 anni con le loro carte d’identità in un’altra fila: uno sfollamento forzato ripreso dalle telecamere della stessa forza di sfollamento. Negli anni a venire, Israele scriverà nei libri di storia: se ne sono andati di loro spontanea volontà.
E proprio mentre la TV israeliana trasmetteva le immagini di questa “partenza tranquilla”, i giornalisti di Gaza hanno riferito di un altro bombardamento di un rifugio nello stesso campo profughi, in cui 10 persone sono state uccise e 30 ferite. La testimonianza di un paramedico che si trovava sul posto rivela l’orrore: un drone ha annunciato dall’alto che i residenti del complesso dovevano evacuare, e non più di 10 minuti dopo, prima che la maggior parte delle persone riuscisse ad uscire, il sito è stato fatto saltare in aria.
Il “Piano dei Generali”, quindi, non è solo un inganno, ma anche un flop operativo. La popolazione minacciata non era incline ad evacuare volontariamente sulla strada dei proiettili volanti e dei colpi di mortaio, preferendo gli orrori familiari a quelli sconosciuti, come è nella natura umana (d’altronde, chi nell’esercito israeliano è in grado di percepire i Palestinesi come umani?). Anche lo sterminio come strumento di terrore non è stato sufficiente a convincere i residenti del nord di Gaza ad evacuare “volontariamente”. E così le forze di fanteria sono state inviate nei rifugi per costringere gli sfollati, sotto la minaccia delle armi, a uscire e iniziare a marciare verso sud (dopo che gli uomini sono stati separati e presi per essere interrogati o arrestati).
Tutti i segnali indicano che Israele non ha intenzione di far tornare gli sfollati. In questo senso, la distruzione nel nord di Gaza è diversa da qualsiasi cosa abbiamo visto prima. L’esercito si assicura davvero di bruciare, distruggere e radere al suolo ogni edificio dopo che i Palestinesi se ne sono andati – e a volte mentre sono ancora all’interno. Anche gli americani e gli europei possono vedere le scritte sul muro questa volta.
Quanto tempo ci vorrà per ripulire totalmente il nord di Gaza dalla sua popolazione? È difficile da prevedere con esattezza, tra la resistenza dei residenti locali a rimanere, il numero massimo di morti giornaliere che l’esercito si concede in base alle proprie considerazioni e la reazione internazionale. Certamente, sembra che l’attuale assalto continuerà per le settimane a venire.
Nel frattempo, molti degli sfollati non si stanno stabilendo a sud del Corridoio di Netzarim, ma piuttosto alla periferia di Gaza City, temendo che se lasceranno completamente il nord, non potranno più tornare. Se l’esercito li espellerà anche da lì, sarà un’ulteriore prova che l’operazione di pulizia non è guidata da considerazioni operative.
Una lotta per la vita
E a noi cosa resta da fare? All’interno di Israele, siamo in pochi a vedere la realtà di fronte a noi con occhi chiari. Ma quel poco che possiamo fare, dobbiamo farlo.
Prima di tutto, dobbiamo mettere a tacere le voci che provengono dal loggione: da “Ma che ne dici dello statuto di Hamas?!” a “Ma l’Iran!” e “Ma sono dei barbari!”. Niente di tutto questo è rilevante di fronte al genocidio che il nostro esercito sta compiendo mentre leggete queste parole (e non scelgo questo termine in modo affrettato; ecco quattro storici israeliani che sono giunti a questa conclusione, più esperti di me). In che modo, esattamente, il massacro del 7 ottobre giustifica l’incendio di scuole e panetterie? Che cosa ha a che fare lo statuto di Hamas con il rifiuto di accesso alle attrezzature mediche di Gaza, che ha portato alla morte in massa dei feriti?
Dobbiamo anche ignorare quella caricatura che è “l’opposizione”. L’“alternativa” che il “centro-sinistra” israeliano offre si trova tra una “occupazione strategica” di più territori, da un lato, e una politica di “separazione”, dall’altro, che consente ancora all’esercito una completa libertà d’azione nei territori occupati o addirittura contempla una ripresa dell’“opzione giordana”.
L’incessante vaneggiamento di grandi accordi politici multilaterali ha un solo scopo: evadere dalla cruenta realtà. È un rifiuto di affrontare le nostre stesse azioni, un rifiuto di rivendicare la responsabilità della catastrofe – per la quale Hamas ha una notevole colpa, ma noi ne abbiamo molta di più. E infine, un rifiuto di vedere i Palestinesi come esseri umani, proprio come noi.
Ho trascorso non so più quante ore a leggere testimonianze da Gaza nel corso dell’ultimo anno, e un fenomeno che mi ha colpito in modo particolare, anche se non si traduce nei crimini più orribili, è il modo in cui i soldati israeliani trattano i palestinesi come se fossero pecore o capre, mandandoli da un luogo all’altro. Come un gregge di animali, i cecchini e i droni li mettono alle strette, sparando munizioni vere a chiunque si rifiuti di muoversi o ci metta troppo tempo. Aerei e droni consegnano avvisi di evacuazione e poi bombardano quasi immediatamente coloro che non sono ancora riusciti a fuggire. Una tale disumanizzazione non può non scatenare le nostre associazioni mentali con le scene che ritraggono i nazisti che caricano gli ebrei in carri bestiame.
La rete di crimini qui descritta non è così astratta: una vasta parte del pubblico israeliano vi prende parte. Centinaia, se non migliaia, hanno registrato se stessi in azione, mentre molti altri hanno invocato lo sterminio. La maggioranza, tuttavia, non è così esplicita o compiaciuta. La maggior parte si limita a servire nell’esercito per centinaia di giorni di servizio di riserva “perché dobbiamo proteggere il nostro paese”. Commettono crimini senza pensarci, o a metà, o solo con un pensiero silenzioso e subito calpestato.
Possono trovare una miriade di scuse, ma ognuna di esse si sgretola di fronte a più di 16.000 bambini morti – oltre 3.000 dei quali di età inferiore ai 5 anni – che sono stati tutti identificati con il loro nome e numero della carta d’identità. E si sgretolano di fronte alla distruzione di tutte le infrastrutture civili, che non hanno e non possono avere uno scopo puramente militare.
Quindi tutti noi portiamo il peso della responsabilità per questo, anche se alcuni più di altri. Il movimento di rifiuto del servizio militare è sorto troppo tardi e troppo lentamente, ma ha bisogno di tutto l’incoraggiamento e sostegno e di qualsiasi risonanza gli si possa dare. Il consenso sulla guerra di sterminio avvelena la società israeliana e annerisce il suo futuro in modo così profondo che anche piccole sacche di resistenza possono far proliferare la resistenza e la speranza di coloro che non sono ancora stati trascinati dalle correnti della follia.
In questa lotta, possiamo anche cercare dei partner all’estero, dove la maggiore leva di pressione è la fornitura di armi americane. Dal 7 ottobre, questa fornitura ha funzionato a un ritmo senza precedenti (ad oggi, 17,9 miliardi di dollari di armi spedite a Israele), facilitando una lunga lista di crimini di guerra. Ma anche un’altra cosa è stata senza precedenti: per la prima volta, questa fornitura è stata in qualche modo ostacolata, anche se solo temporaneamente, quando una consegna di bombe da 2.000 libbre è stata ritardata prima dell’invasione di Rafah.
Questa è solo una goccia nell’oceano, ma indica ciò che deve essere fatto. E non sarebbe successo senza la continua pressione che gli attivisti hanno esercitato sui loro rappresentanti nell’establishment democratico, che alla fine ha raggiunto la Casa Bianca. Petizioni, lettere ai membri del Congresso, pubblicazione di testimonianze – qualsiasi strumento utilizzato per influenzare l’opinione pubblica contro il sostegno automatico di Israele può essere utile.
La lotta per porre fine a questa intensificazione della guerra di sterminio e di sfollamento a Gaza, in particolare nel nord, è prima di tutto una lotta umana. È una lotta per la vita, sia a Gaza che in Israele: per la possibilità stessa che la vita possa continuare ad esistere in questa terra intrisa di sangue. Niente potrebbe essere più patriottico.
Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta in ebraico sul blog dell’autore. È stato tradotto in inglese per +972 da Gali Avatichi e Keren Hering.
https://www.972mag.com/exterminate-expel-resettle-israel-northern-gaza
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.