di Shay Fogelman,
Haaretz, 16 agosto 2024.
Mani e piedi incatenati. Occhi bendati. Non ci si può muovere. Non si parla. E, a volte, violente percosse. Giorni e giorni, settimane e settimane passano così nella struttura di Sde Teiman, sia per i terroristi di Hamas che per i civili palestinesi di Gaza. I militari che abbiamo qui intervistato lo sanno. Hanno prestato servizio proprio a Sde Teiman.
Nei giorni successivi all’attacco a sorpresa nel sud di Israele del 7 ottobre, un totale di circa 120 militanti di Hamas, membri dell’ala militare Nukhba del movimento e civili palestinesi della Striscia di Gaza sono stati presi in custodia in Israele. Sono stati inviati in una struttura di detenzione appositamente creata in una base della polizia militare nel campo di Sde Teiman, tra la città di Ofakim e Be’er Sheva, nel Negev. Nei mesi successivi, altri 4.500 abitanti della Striscia, tra cui terroristi di varie organizzazioni e civili, sono stati lì incarcerati.
Non molto tempo dopo l’entrata in funzione della struttura, i media israeliani e stranieri hanno pubblicato testimonianze secondo cui i detenuti venivano affamati, picchiati e torturati. È stato anche affermato che le condizioni di detenzione non erano conformi al diritto internazionale. Altre accuse sono state fatte riguardo al trattamento riservato ai detenuti nell’ospedale da campo allestito nelle vicinanze. Il personale ha testimoniato che i detenuti-pazienti venivano nutriti con una cannuccia, costretti a lavarsi con un pannolino e ammanettati così strettamente, per 24 ore al giorno, che ci sono stati diversi casi di amputazione di arti.
Due mesi fa si è appreso che le Forze di Difesa Israeliane stavano conducendo un’indagine penale contro i soldati presumibilmente coinvolti nella morte di 36 detenuti del campo. Il mese scorso, 10 riservisti sono stati arrestati per sospetto abuso sessuale brutale su un detenuto. I soldati regolari o riservisti assegnati a Sde Teiman sono subordinati alla polizia militare, che ha la responsabilità ultima su ciò che accade nel campo.
Sulla scia delle numerose testimonianze emerse, cinque organizzazioni per i diritti umani hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia, chiedendo la chiusura del sito. All’inizio di giugno, lo stato ha annunciato la sua intenzione di trasferire la maggior parte dei detenuti in strutture gestite dal Servizio Carcerario Israeliano e di riportare il campo alla sua missione originaria “come struttura per l’incarcerazione temporanea e di breve durata, solo a scopo di interrogatorio e classificazione”. In un’altra risposta all’Alta Corte di Giustizia, all’inizio di questo mese, lo stato ha dichiarato che ora ci sono solo 28 detenuti nella struttura.
Dallo scoppio della guerra, migliaia di soldati israeliani delle forze regolari e dei riservisti hanno prestato servizio a Sde Teiman. La maggior parte di loro è stata assegnata a Sde Teiman a seguito di una missione affidata alla propria unità. Altri vi hanno prestato servizio volontariamente per una serie di motivi. Negli ultimi mesi, alcuni soldati e medici professionisti hanno accettato di parlare con Haaretz del periodo trascorso a Sde Teiman. Riportiamo di seguito otto testimonianze, anonime e in ordine cronologico, dalla prima alla più recente.
N., uno studente del nord, riservista
“Sono stato mobilitato con l’intero battaglione il 7 ottobre. Siamo stati inviati a mettere in sicurezza le comunità del Negev occidentale e dopo due settimane ci siamo trasferiti a Be’er Sheva. Ero impegnato in attività non legate al battaglione quando ho visto sul gruppo WhatsApp della compagnia l’annuncio che avevamo un’altra missione, qualcosa di nuovo: il servizio di guardia a Sde Teiman. All’inizio non era così chiaro.
“Quando sono tornato nella mia compagnia la gente già mormorava di questo posto. Qualcuno mi ha chiesto se avevo sentito parlare di ciò che stava accadendo lì. Un altro ha detto: ‘Sai che devi picchiare la gente lì’, come se mi stesse prendendo in giro e volesse testare la mia reazione, se fossi di sinistra o qualcosa del genere. C’era anche un soldato della compagnia che si vantava di aver picchiato delle persone nella struttura. Ci disse che era andato con un ufficiale di turno della polizia militare e che avevano picchiato uno dei detenuti con delle mazze. Ero curioso del posto e le storie mi sembravano un po’ esagerate, così mi sono offerto volontario per andarci.
“A Sde Teiman facevamo la guardia alla cella dei detenuti. Facevamo turni di 12 ore durante il giorno o la notte. I medici del battaglione facevano turni di 24 ore all’ospedale da campo. Alla fine di ogni turno tornavamo a Be’er Sheva per dormire.
“I detenuti erano in un grande hangar con un tetto e pareti su tre lati. Invece di un quarto muro, di fronte ai detenuti, c’era una recinzione con un doppio cancello e due serrature, come nei parchi per cani. Un recinto di filo spinato circondava tutto. Le nostre postazioni erano vicine ai due angoli della recinzione, in una specie di diagonale, dietro a blocchi di cemento a forma di U. In ogni postazione c’è un soldato che controlla i detenuti e sorveglia il personale della polizia militare incaricato di gestire il posto. Facevamo turni di due ore di servizio e due di riposo. Se non eri di guardia potevi andare nell’area di riposo, una specie di tenda con bevande e snack.
“I detenuti erano seduti in otto file a terra, con circa otto persone in ogni fila. Un hangar conteneva 70 persone e il secondo circa 100. La polizia militare ci ha detto che dovevano stare seduti. Non potevano sbirciare dalla benda. Non potevano muoversi. Non potevano parlare. E che se… quello che ci hanno detto [la polizia militare] era che se avessero infranto le regole, era permesso punirli”.
Come venivano puniti?
“Per cose minori, si poteva costringere la persona a stare in piedi [per circa 30 minuti]. Se la persona continuava a creare problemi, o per violazioni più gravi, l’ufficiale di polizia militare poteva anche prenderlo da parte… e picchiarlo con una mazza”.
Ricordi un episodio del genere?
“Una volta qualcuno ha dato una sbirciatina a una soldatessa, almeno così ha dichiarato lei… Ha detto che lui l’ha sbirciata da sotto la benda e stava facendo qualcosa sotto la sua coperta. Il fatto è che era inverno e avevano “coperte per la scabbia”… come quelle dell’esercito [coperte ruvide, grossolane]. E loro si grattavano sempre sotto. Io ero nell’altra postazione e non guardavo in quella direzione. Poi lei ha chiamato l’ufficiale e glielo ha detto. Il detenuto era seduto in prima fila ed era tipo… beh, un tipo problematico. Dopo tutto, a loro non è permesso parlare. Mi è sembrato che col tempo alcuni di loro siano diventati nervosi… instabili. A volte iniziavano a piangere o a dare in escandescenze. Anche lui era uno di quelli che non sembravano molto stabili.
“Quando è arrivato l’ufficiale di polizia militare, lo shawish [termine dispregiativo con molte connotazioni in arabo, ma usato lì per descrivere un detenuto messo a capo di altri detenuti] ha cercato di spiegargli: ‘Ascolta, è dura. Lui è qui da 20 giorni. Non si cambia e non si fa quasi mai la doccia”. Cercava insomma di mediare per lui. Ma la soldatessa ha ribadito che lui l’aveva guardata. L’ufficiale ha detto allo shawish di portare il detenuto al doppio cancello e di farlo uscire. Nel frattempo [l’ufficiale] ha chiamato un altro soldato della sua compagnia, che si trovava nell’area di riposo, e che parlava sempre di come voleva picchiare i detenuti.
“Il soldato ha preso una mazza e hanno tolto il detenuto dal recinto e lo hanno portato in una specie di posto nascosto dietro i bagni chimici vicino alla nostra area di riposo. Io sono rimasto al mio posto, ma ho sentito dei rumori, come se qualcuno bussasse. È passato circa un minuto, un minuto e mezzo, e sono tornati con il ragazzo. Si vedevano segni rossi sulle sue braccia, intorno ai polsi. Quando lo hanno portato in cella ha gridato in arabo: “Giuro che non l’ho guardata”. Si è alzato la camicia e si vedevano i lividi e un po’ di sangue intorno alle costole.
“Ho fatto solo qualche altro turno lì, mi è bastato. E poi siamo stati congedati. Non era un compito molto richiesto nella compagnia; si potrebbe dire che era addirittura semi-volontario, a causa della sua complessità. C’era la consapevolezza tra i soldati che si trattava di un compito difficile… Lì dentro, in quei recinti, c’è puzza. C’è puzza, quindi la gente indossa maschere tutto il giorno, anche se non aiuta molto.
“Ma a volte c’era una sorta di atmosfera divertente. Soprattutto verso la fine, il compito è diventato una specie di scherzo, con persone che facevano battute, o video di detenuti, o raccontavano barzellette sugli shawish. Ordinavamo sempre un caffè all’Aroma [un bar] di Be’er Sheva e qualcuno diceva alla cassiera che il suo nome era ‘shawish’, e poi tutti ridevano a crepapelle quando lo chiamavano all’altoparlante [per ritirare l’ordine].
“Non lo trovavo divertente. Pensavo che la situazione degli shawish fosse straziante. C’erano volte in cui le guardie gridavano ‘Silenzio!’ perché i detenuti non potevano parlare. E poi l’ufficiale della polizia militare diceva allo shawish: “Ascolta, se non stanno zitti, ora li mettiamo tutti in piedi! Quindi dì a loro di stare zitti”. E allora lo shawish diceva: “Ehi, ascoltate, state zitti, altrimenti tutti saranno puniti”. Cercava di essere gentile, anche se la situazione era impossibile dal suo punto di vista. E quando il borbottio continuava, si arrabbiava e gridava di nuovo e non si capiva se fosse per preoccupazione – che fossero picchiati – o se si sentisse anche lui dall’altra parte, con le guardie.
“Le condizioni dello shawish erano abbastanza simili a quelle degli altri detenuti, ma non era ammanettato o bendato. Non doveva stare seduto eretto sul pavimento. Era abbastanza libero di muoversi, ma solo nella cella. Una volta l’ho visto, dopo che tutti avevano finito di mangiare, prendere un’altra fetta di pane che era avanzata, per sé. Non so cosa facesse a Gaza, ma con condizioni come queste… È chiaro che non era un Nukhba ossia un vero e proprio membro di Hamas.
“Quando ero lì, ho lottato con me stesso per decidere se rimanere e cercare di fare la cosa giusta, il meglio che potevo come persona morale, o se alzarmi e dichiarare che mi rifiutavo di partecipare. Il pensiero che il posto avrebbe continuato a funzionare anche dopo la mia partenza mi deprimeva, pensando che molti altri soldati sarebbero finiti a presidiare questo posto di cemento. Anche se sono rimasto lì per poco tempo, ne sono uscito con un pesante senso di colpa”.
Dr. L., medico in un ospedale pubblico
“Sono arrivato nella struttura medica di Sde Teiman durante l’inverno. In una tenda di degenza c’erano non più di 20 pazienti. Tutti avevano i quattro arti incatenati a vecchi letti d’acciaio, come quelli usati nei nostri ospedali anni fa. Tutti erano coscienti e tutti erano bendati per tutto il tempo.
“C’erano pazienti in condizioni diverse. Alcuni erano arrivati da pochissimo tempo dopo un intervento chirurgico importante. Molti avevano ferite da arma da fuoco. C’era uno che era stato colpito nella sua casa a Gaza solo poche ore prima. Ogni medico sa che una persona del genere ha bisogno di uno o due giorni di terapia intensiva e poi di essere trasferito in un reparto; solo lì inizierà il recupero. Ma la persona è stata mandata in un recinto a Sde Teiman due ore dopo l’intervento. In una tenda. All’ospedale avrebbero detto che poteva essere dimesso. Io lo metto in dubbio. Pazienti del genere negli ospedali sono in terapia intensiva. È assolutamente chiaro.
“C’era un altro paziente affetto da un’infezione sistemica, una sepsi. Era in condizioni critiche e, anche secondo il protocollo, non avrebbe dovuto essere lì. Solo i pazienti completamente stabili dovrebbero essere ricoverati a Sde Teiman. Ma lui era lì e hanno detto che non c’erano alternative.
“A parte il fatto che non c’era un chirurgo, cosa inconcepibile in un posto come quello, l’équipe medica era molto professionale. Tutti si sono davvero impegnati – se si ignora il fatto che, almeno ai miei occhi… tenere una persona senza farle muovere alcun arto, bendata, nuda, sotto trattamento, in mezzo al deserto… alla fine non è nient’altro che che una tortura. Ci sono modi per somministrare un trattamento anche scadente, o addirittura per torturare una persona, senza schiacciarle addosso le sigarette. E tenerli così, incapaci di vedere, muoversi o parlare, per una settimana, 10 giorni, un mese… non è meno di una tortura. Soprattutto quando è chiaro che non c’è alcuna ragione medica. Perché incatenare le gambe di una persona con una ferita allo stomaco di due giorni? Le mani non sono sufficienti?
“Il fatto è che quando ero lì, in qualche modo mi sembrava tutto normale, perché ci sono scuse [per mandarli all’ospedale del campo], e il lavoro medico si svolge in uno spazio normale, familiare. Ma alla fine, quello che succede è una disumanizzazione totale. Non ci si relaziona con loro come se fossero veri esseri umani. È facile dimenticarlo quando non si muovono e non si deve parlare con loro. Devi solo controllare che sia stata eseguita una procedura medica, e in questo modo elimini l’intera dimensione umana della medicina”.
Hai mai interagito con i pazienti?
“No, assolutamente no. Non possono parlare e gli interpreti sono lì solo per aiutare quando si tratta di argomenti strettamente medici. Loro [i pazienti] non sanno nemmeno chi sono io, se sono un soldato o… non mi hanno visto. Probabilmente hanno solo sentito e percepito che qualcuno era arrivato per visitarli, o qualcosa del genere.
“Mi frustrava terribilmente il fatto di non poterli guardare negli occhi. Non è così che ho imparato a trattare i pazienti, indipendentemente da ciò che hanno fatto. E la cosa più sconvolgente è che quando ero lì, devo ammetterlo, non ero nemmeno triste. Mi sembrava tutto così surreale, a un quarto d’ora di macchina da Be’er Sheva. Tutto quello che mi è stato insegnato, tutti gli anni all’università e negli ospedali, come trattare le persone – tutto questo esiste, ma non in un ambiente in cui 20 persone sono tenute nude in una tenda. È qualcosa che non si può immaginare. Capisco che se stessimo combattendo in Afghanistan, lì potrei in qualche modo comprendere [l’esistenza di] un ospedale da campo come quello. Ma qui?
“Guardando indietro, la cosa più difficile per me è ciò che ho provato, o in realtà ciò che non ho provato, quando ero lì. Mi disturba il fatto che non mi abbia dato fastidio, che in qualche modo io abbia guardato le cose ma non le abbia viste, o che in qualche modo… tutto mi sia parso a posto. Come ho potuto non chiedere qualche piccolo dettaglio? Perché devono stare sotto le coperte? Perché sono anonimi? Perché noi siamo anonimi? Come è possibile che facciano pipì e cacca in un pannolino usa e getta? Perché viene data loro una cannuccia per mangiare… perché?
“Credo che già lì mi fosse chiaro che quello che stava succedendo non era giusto, ma non capivo fino a che punto fosse ingiusto. Forse c’è un processo di assuefazione. Si è in mezzo a professionisti, si parla ebraico, e noi eravamo già abituati a vedere prigionieri ammanettati negli ospedali. Quindi in qualche modo… tutta la procedura si normalizza e a un certo punto smette di darti fastidio”.
T., 37 anni, riservista del nord
“Il mio battaglione è stato chiamato pochi giorni dopo il 7 ottobre e abbiamo fatto un mese di guardia nelle comunità vicino al confine con Gaza. Durante l’inverno siamo stati richiamati di nuovo per il servizio di riserva, ma all’improvviso ci hanno detto che avremmo svolto anche compiti di guardia a Sde Teiman. È stata una sorpresa totale.
“Sono rimasto lì per 20 giorni. Il posto era allora diviso in quattro recinti principali, con due hangar in ciascuno. Uno dei recinti aveva anche un altro piccolo hangar, per i minori. In tutto c’erano nove hangar e in ognuno c’erano tra i 50 e i 100 detenuti, tranne in quello con i minori, dove ce n’erano forse tra 10 e 20.
“In ogni hangar tutti avevano gli stessi vestiti, blu, e una specie di benda giallo-arancio. Indossavano infradito e ognuno aveva un tappetino da yoga, solo più sottile, dal quale non potevano muoversi. Durante il giorno non potevano sdraiarsi; di notte non potevano sedersi. Non era consentito stare in piedi senza autorizzazione. E non potevano parlare. Per la maggior parte del tempo stavano seduti con le braccia incatenate e bendati. In realtà, non la maggior parte del tempo: devono stare sempre così, giorno e notte”.
Incatenati da dietro o da davanti?
“Generalmente davanti. Vengono incatenati da dietro per punizione; alcuni avevano anche le gambe incatenate. C’era una scala di pericolosità, da 1 a 4. Quelli che erano classificati in alto, come il 4, si sedevano davanti, in modo da essere più vicini alle guardie. Ho visto un po’ le liste. Soprattutto i Nukhba erano classificati come 4. Non so se le liste dovessero essere aperte a tutti, ma erano in giro nell’ufficio della polizia militare e c’erano soldati che le vedevano. Ho capito che un grado 3 è un militante di Hamas che non è un Nukhba ma è un combattente. Due è qualcuno che è affiliato ad Hamas ma non è un combattente. E chi è classificato come 1 è qualcuno che non è affiliato a nessuna organizzazione. Circa il 20% era classificato nel gruppo 4, tutti seduti davanti e con le gambe incatenate. Non so perché.
“La sveglia è alle 5 del mattino circa, quando gli agenti della polizia militare arrivano per il loro turno. Usano i megafoni e fanno alzare tutti in piedi. Subito dopo si fa la conta dei presenti. L’ufficiale di servizio arriva e legge i nomi. Chiunque senta il proprio nome risponde “Sì, capitano” [in ebraico] e si siede. Poi si prega. Ognuno prega per sé, poi portano una cassa con il cibo che lo shawish distribuisce; di solito sono quattro o cinque fette di pane e qualcosa da spalmare sopra. Al mattino formaggio, a pranzo tonno e la sera marmellata o qualcosa di simile. E anche un frutto o una verdura”.
Chi spalma sul pane?
“Lo fanno da soli”.
Bendati?
“Sì. Possono farlo anche con una benda, che non è totalmente ermetica; probabilmente vedono ciò che è vicino e sotto di loro. Inoltre, camminano verso il bagno in questo modo e non vanno a sbattere contro i muri. Quindi presumo che vedano qualcosa”.
E hanno utensili usa e getta?
“Non credo di aver visto nulla del genere”.
Quindi spalmano il formaggio o il tonno con le dita?
“Sì”.
E dov’è il bagno?
“Nel recinto. Ci sono due o tre bagni chimici. Ma devono chiedere il permesso per andarci. Se vogliono bere acqua, alzano la mano e lo shawish va a prenderla. A volte l’ufficiale di polizia può concedere loro due minuti per alzarsi e fare stretching. Non ho capito bene le regole e quando succede. Poteva essere una volta al giorno, oppure tre volte alla settimana.
“Chiunque trasgredisca le istruzioni, sussurri o cerchi di spostare la benda riceve una punizione. La punizione più semplice era quella di [farli] alzare. La fase successiva era quella di farli stare in piedi con le braccia alzate. Poi venivano portati fuori dalla struttura e gli venivano dati circa quattro o cinque colpi con una mazza. Nella parte superiore del corpo, non in faccia”.
Dove avviene questo?
“Fuori dall’area di detenzione. La persona viene portata in un luogo più nascosto, o in un angolo dove non si vede [cosa sta succedendo]”.
Da chi devono nascondersi le persone che eseguono la punizione?
“Bella domanda… non lo so. Forse dalla sala di controllo [in un complesso chiuso del sito, off-limits per i soldati] che li osserva. Si diceva che lì qualcuno li osservava sempre, almeno in teoria”.
Chi si occupava di colpire?
“Di solito gli ufficiali della polizia militare”.
Perché dici “di solito”?
“Ci sono stati casi di soldati che avevano una gran voglia di colpire, quindi lo chiedevano… e loro [la polizia militare] a volte accettavano di lasciarli fare. Ma di solito erano gli ufficiali stessi”.
Allora perché a volte accettavano di lasciarlo fare ai soldati?
“Non so, credo che fosse una sorta di deviazione, ma non sono sicuro se fosse contro le regole o solo contro l’usanza. C’era un po’ la sensazione che non fosse davvero giusto permettere ai soldati di farlo”.
Come reagivano i detenuti?
“In genere, in quella fase erano piuttosto tranquilli. Perché a volte gridavano durante i colpi, ma poi, quando venivano riportati nelle celle, erano piuttosto sottomessi”.
Durante un turno medio, quante punizioni c’erano?
“Direi che… una volta ogni due ore c’era un caso di pestaggio. C’erano più punizioni in cui si era costretti a stare in piedi. La maggior parte delle volte c’era qualcuno che stava in piedi”.
Ci sono stati altri episodi di violenza?
“Sì. Le punizioni comportavano una violenza relativamente minore. La violenza più estrema era rappresentata dalle perquisizioni corporali di tutti i detenuti del penitenziario. Una perquisizione era qualcosa di molto, molto… molto più violento. Per lo più, veniva effettuata da Forza 100. All’inizio non ci era chiaro se si trattasse di qualcosa di ufficiale o se fossero solo persone che si fanno chiamare Force 100 [un’unità di riservisti dell’IDF che è sotto il comando della polizia militare] e che hanno questa specie di etichetta attaccata alla loro uniforme. In seguito la cosa è diventata più istituzionalizzata. Sono riservisti ma hanno tutta la wassah [la pretesa arrogante dei soldati] che è grande nell’esercito ora, in tutta evidenza. Hanno un’uniforme tattica e vanno in giro con i passamontagna con un equipaggiamento speciale, e c’è anche un’aria di segretezza su di loro.
“Si diceva che erano uomini delle unità speciali che dovevano occuparsi di gravi disordini. Quindi conducevano queste perquisizioni, una o due volte alla settimana, in ogni recinto. Quando si presentavano per una perquisizione, erano accompagnati da un gruppo di persone e agenti. Non so esattamente quale fosse il loro ruolo. Se ne stavano lì, praticamente a osservare.
“Di solito per una perquisizione si presentava una squadra di Force 100 composta da circa 10 combattenti. Facevano sdraiare i detenuti a pancia in giù, con le mani dietro la testa. Durante la prima perquisizione a cui ho assistito, dopo averli fatti sdraiare, sono stati fatti uscire ogni volta cinque detenuti, secondo una sorta di ordine. Li hanno portati fuori con violenza, li hanno messi in piedi all’esterno, con il viso rivolto verso la recinzione, e li hanno perquisiti. Di solito ne tiravano fuori uno – non so se a caso o meno – e lo buttavano a terra. Lì lo perquisivano e lo picchiavano anche un po’. Sembrava una scusa per seminare il terrore. Non è stata una normale perquisizione. È stata molto violenta, sicuramente per i ragazzi che hanno gettato a terra, che sono stati picchiati duramente. Hanno continuato, [prendendone] cinque alla volta, finché non li hanno perquisiti tutti e li hanno riportati dentro.
“E c’era dell’altro. La Forza 100 prendeva qualcosa come 10 persone da ogni cella. Venivano con delle liste e sapevano chi erano le persone. Prendevano questi ragazzi in disparte e li mettevano davvero sotto torchio. So che questa lista è stata preparata dalla polizia militare e non dall’Intelligence militare o dallo Shin Bet [servizio di sicurezza]. In altre parole, non era per estrarre informazioni da loro. Sono arrivati con una lista di nomi e li hanno picchiati ferocemente. Erano colpi di un livello tale che… credo che ogni volta si rompessero denti e ossa. Perché erano colpi davvero potenti”.
Dove veniva fatto?
“Per i colpi da somministrare venivano portati in disparte, in un luogo più nascosto. Il resto dei soldati e dei detenuti rimaneva in piedi… Ho visto quei pestaggi: Sei o sette uomini, della Forza 100, si mettrvano intorno a un ragazzo e lo prendevano a calci. Colpi, schiaffi, pugni, tutto. Due o tre di loro stavano di lato con le armi come guardie. E c’era anche un cane”.
Quanto tempo durava?
“Finché non si stancavano. C’erano anche momenti in cui invitavano i soldati regolari a partecipare ai pestaggi, dalle unità di guardia o dalla polizia militare. Non so se fosse coordinato in anticipo con loro, o se li chiamassero spontaneamente, ma era una specie di gesto nei confronti di certi soldati, che erano nel giro.
“Ci sono stati casi in cui non ho visto le percosse, ma ho sentito i pugni o le grida. Erano molto intense, le grida. Erano più intense di quelle che a volte ho sentito in altri interrogatori. In tutto questo tempo sono arrivati anche i cani, che abbaiavano e saltavano su di loro. Con la museruola, sì, ma graffiandoli e facendo davvero paura. Ah… all’inizio c’era anche una granata stordente. Sì, ogni volta che iniziava una ricerca del genere, Forza 100 lanciava una granata stordente nel recinto”.
Per quanto tempo durava [la procedura]?
“Ci voleva tempo. C’erano molte persone da perquisire. Poteva volerci un’ora, un’ora e mezza. Molto tempo.
“La seconda perquisizione a cui ho assistito è stata quasi identica alla prima, solo che si è svolta all’interno – i detenuti non sono stati condotti fuori. Dopo aver lanciato la granata stordente e aver fatto sdraiare tutti, la Forza 100 è entrata e ha preso ogni volta cinque persone, le ha bloccate in qualche angolo del recinto e ha fatto la stessa cosa: una perquisizione molto violenta. E poi, quando hanno riportato i detenuti, li hanno semplicemente ributtati al loro posto”.
Cosa vuol dire “ributtati”?
“Li hanno lanciati. Hanno lanciato un ragazzo e lui è caduto su altre persone. Era bendato e incatenato e non riusciva nemmeno a reggersi per la caduta”.
E nessuno dei presenti ha detto nulla?
“Nessuno. C’erano molte persone, compresi gli agenti, non era una cosa che si faceva di nascosto. Questo genere di cose avveniva in cella, quindi tutti vedevano cosa stava succedendo. C’erano due o tre tenenti colonnelli della polizia militare. Non è qualcosa che si faceva alle spalle del comandante del campo. Non so se fosse una procedura, ma sembrava che i soldati sapessero esattamente cosa stavano facendo. E gli ufficiali… sì, stavano lì, erano i comandanti della Forza 100. Non sembrava che la forza avesse deciso da sola di farlo”.
Sai perché quei detenuti in particolare venivano picchiati?
“Non ho visto e non lo so. Forse si sono comportati male? C’erano anche persone che ho visto con liste [di nomi] compilate dalla polizia militare. Ad esempio, c’era uno che era coinvolto nel 7 ottobre, quindi lo portavano fuori ogni volta e lo picchiavano”.
In varie occasioni?
“Sì”.
Quali occasioni c’erano per batterlo?
“A causa delle perquisizioni, credo che avesse le gambe rotte, quindi ogni volta che doveva stare in piedi per il conteggio delle teste, ad esempio, non riusciva a stare in piedi. Questo era una scusa per portarlo fuori e picchiarlo ancora”.
Ma veniva battuto a ogni conteggio?
“Non in ogni conteggio, ma molto spesso. Parecchio”.
E lui diceva qualcosa?
“No, sembrava esausto. A volte li implorava di fermarsi”.
E tra di voi, tra i soldati, qualcuno aveva domande su ciò che stava accadendo lì?
“Ci sono stati soldati, soprattutto donne, che hanno avuto una specie di attacco di panico quando hanno visto una perquisizione. Ma ce n’erano molti che erano entusiasti di fare quei turni, che volevano essere lì. Anche gli ufficiali della mia compagnia cercavano una scusa per presentarsi. Ti riempie di adrenalina… come quando mi sono trovato in quella situazione… non è una situazione ordinaria. Provoca stress. Il resto del tempo è noioso nella tenda dell’area di sosta, e non c’è molta interazione tra i soldati. Ci sono alcuni tavoli, ci si siede, si passa il tempo, e all’improvviso succede qualcosa. C’è azione.
“La maggior parte dei ragazzi era d’accordo con quello che stava accadendo. Alcuni erano un po’ infastiditi, altri lo erano all’inizio e poi si sono adeguati al sistema. Le scuse erano: “è tempo di guerra”, “loro sono terribili” e “non c’è altro modo per imporre loro la disciplina”.
“Una delle cose più dure per me non sono state necessariamente le percosse, ma il fatto che fossero incatenati tutto il tempo, senza poter vedere o muoversi. È la tortura più dura che ci sia. Quando a volte parlavamo tra ragazzi, c’erano persone che durante le conversazioni menzionavano improvvisamente la parola “tortura”. E noi dicevamo: “È una tortura”. Ma non si entra nel merito, si cambia subito argomento.
“Con il passare del tempo mi sono anche preoccupato meno. I primi turni sono stati molto duri. Ma dopo non c’è più lo stesso livello di tensione. Non c’è niente da fare. C’è lo stesso stimolo, sempre. Il cervello si abitua”.
Ci sono stati momenti in cui sono stati compiuti gesti umani?
“È successo. Ma era raro. A volte la polizia militare dava ai minori delle caramelle, come la sera, prima di dormire. Una volta un detenuto si è messo a piangere. Era più anziano, aveva 60 anni. Allora l’ufficiale di servizio cercò di parlargli e di tirarlo un po’ su. Attraverso lo shawish, ha cercato di scoprire: “Chi è? Perché è qui?”. Il detenuto ha detto di essere un normale insegnante, finché non è stato portato via. Ha chiesto di essere trattato come un essere umano. Qualcosa di simile è accaduto con lo stesso agente e uno dei minori, che si è messo a piangere: gli chiese cosa avrebbe voluto fare da grande. E alla fine gli ha detto che le cose sarebbero andate bene.
“È stato raro, molto raro. Credo che quel giorno l’agente fosse in uno stato d’animo di liberazione, perché era il suo ultimo turno”.
A., studente e riservista della polizia militare
“Ho prestato servizio nell’unità che riceveva i detenuti a Sde Teiman durante i primi mesi di guerra. Arrivavano quasi ogni giorno, anche di notte. In genere direttamente dal campo, scortati da combattenti o membri della polizia. Venivano da noi con le mani legate, a volte con i vestiti e a volte solo con le mutande, o con qualcosa che nascondeva le parti intime”.
Che cos’è “qualcosa”?
“Un panno o uno straccio, qualcosa che hanno trovato lì. Nell’area di accoglienza, venivano fatti scendere dal tiyulit [camion aperto con panche per il trasporto delle persone] e disposti in file. Aspettavano finché non li portavamo in ufficio, uno per uno. Lì chiedevamo loro cose basilari, come dove erano stati presi in custodia, dove vivevano, e noi inserivamo le informazioni nel computer. Avrebbero subito un interrogatorio preliminare sul campo, ma non abbiamo ottenuto dettagli in anticipo su chi fossero o cosa avessero fatto. Abbiamo tolto loro le bende per qualche minuto, solo per la fotografia.
“Mi sono arruolato credendo, e credo ancora, che l’esercito sappia come raggiungere i propri obiettivi, anche se non sempre viene compreso dal soldato comune. Anche se dall’esterno sembra brutto. Nelle riserve ho incontrato molte persone di sani principi, ma ce n’erano anche altre che non lo erano. Almeno alcuni di loro.
“All’inizio, dato che non c’erano abbastanza riservisti, hanno portato delle ragazze dell’unità Gahelet della polizia militare per accogliere i detenuti. Sono per lo più nell’esercito regolare e lavorano con i prigionieri [nella riabilitazione], ma non erano preparate per il Nukhbas. All’inizio sono arrivate qui persone, alcune delle quali ferite dai combattimenti. Non è un bello spettacolo, soprattutto qando si tratta di prigionieri che sono stati catturati in Israele e sono arrivati dopo aver subito un duro interrogatorio sul campo. A quanto pare, per le soldatesse della Gahelet era difficile affrontare la situazione dal punto di vista mentale, così hanno portato anche un ufficiale di salute mentale, che ha parlato con loro. Dopo sono tornate alla loro missione. Alcune di loro a volte cedevano.
“Bisogna anche ricordare il periodo. Questa base rifletteva l’atmosfera del paese. Nei primi mesi, ti trovavi di fronte qualcuno che non sapevi cosa avesse fatto. Se era Nukhba, se aveva violentato, se aveva ucciso, se meritava di vivere. E allora sei pieno di rabbia. Tutti sono pieni di rabbia. C’è un desiderio di vendetta. Certo, nessuno pensava di doverli coccolatare o altro, ma comunque la maggioranza non pensava nemmeno che dovessimo essere noi a punirli.
“Ma dire che non ci sono state persone che hanno esercitato un po’ di forza nelle loro mani? Certo che c’erano. Ma quello che ho visto, almeno con i miei occhi, è stato davvero su piccola scala. Per lo più quando i detenuti non erano tranquilli, o cose del genere. E a volte senza motivo. Non so, direi che si tratta di persone insicure che cercano di sfogare la loro aggressività. Ma non si tratta di cose estreme. Non cose che potrei dire mi abbiano sopraffatto”.
Puoi fare un esempio?
“Così, a volte, nell’area di accoglienza, c’erano persone che improvvisamente spingevano qualcuno che non aveva fatto nulla, o colpivano qualcuno perché non era tranquillo. Di solito erano i soldati che li avevano portati dal campo. Ho visto cose come schiaffi, umiliazioni, spingere qualcuno a terra e poi dirgli che doveva stare seduto, anche se prima era seduto. Ma non c’è mai stato un ordine dall’alto di comportarsi così, si trattava solo di persone specifiche che si sentivano a proprio agio nel farlo”.
Ci sono stati eventi eccezionali?
“Ora che ne parli, ricordo una storia con un tiyulit. C’erano dei soldati che lanciavano giù dal camion i palestinesi”.
Li lanciavano?
“Invece di farli scendere dai gradini, li hanno semplicemente spinti giù, dall’altezza del pavimento del veicolo. Fino a terra”.
Erano legati e bendati?
“Sì, ammanettati. Forse anche alle gambe. Cadevano, come pietre “.
Qualcuno è rimasto ferito?
“Secondo me, sì. Una persona è stata ferita lì”.
Qualcuno è stato punito per questo?
“Non che io sappia. Nei giorni successivi ci è stato detto che non andava bene. I comandanti della struttura dissero che dovevamo assicurarci che non accadesse più”.
Hai avuto dei dilemmi di coscienza durante il tuo servizio a Sde Teiman?
“Suppongo che ne siano venuti fuori alcuni, non ricordo esattamente. Ma, come ho detto, sono arrivato a fare il lavoro senza pensarci troppo. Mi sono affidato all’idea che il sistema più grande sa cosa deve fare e perché ha bisogno di me. Mi fido dell’esercito. E tutto quello che ho visto a Sde Teiman mi è sembrato, tutto sommato, molto logico, date le circostanze”.
R., studente e riservista, da Tel Aviv
“Sono stato chiamato con il mio battaglione l’11 ottobre. Per quasi due mesi abbiamo presidiato delle comunità. Ad aprile siamo tornati in servizio di riserva e all’improvviso ci è stato comunicato che saremmo stati inviati a Sde Teiman. È stato davvero strano con un preavviso così breve. Un amico della compagnia che si occupa del quartier generale del battaglione ha detto che ci hanno avvisato all’ultimo momento, in modo che non avessimo il tempo di digerire la notizia. Penso che volessero evitare obiezioni.
“Quando siamo arrivati, il comandante della struttura, un membro della polizia militare con il grado di tenente colonnello, ci ha subito fatto un discorso. Ha detto che questo era “un compito molto importante, difficile e impegnativo”. Ha detto che si stavano rispettando tutte le condizioni [legali], per “fornire tutti i servizi medici e il cibo con la quantità necessaria di calorie” e che “tutto è fatto secondo la legge”. Ha detto di essere lui stesso soggetto a revisione e di essere sotto stretta sorveglianza. Ci ha detto che i suoi soldati erano molto disciplinati e che non dovevamo avere alcuna interazione con i detenuti. Alla fine, ha ribadito che tutto era corretto e legale.
“Quando si arriva al campo, la prima cosa che colpisce è l’odore. Il posto puzza davvero, in modo estremo. Quando c’è un po’ di vento, forse è possibile spostare un po’ la propria posizione per evitare [l’odore]. Ma nelle vicinanze era intollerabile”.
Che odore era?
“Come l’odore di decine di persone che sono state sedute in spazi ristretti per più di un mese con gli stessi vestiti e con un caldo pazzesco. Gli facevano fare la doccia per qualche minuto circa due volte alla settimana, ma non ricordo di aver mai visto che gli dessero un cambio di vestiti, in ogni caso non durante i miei turni.
“Sono arrivato lì con la mentalità di un soldato. Serviamo per il nostro periodo, senza chiedere nulla, e poi torniamo a casa. Ma sono accaduti due incidenti in seguito ai quali non ho più potuto continuare a stare lì.
“Il primo è stato in uno dei recinti. Sono arrivati dei ragazzi della scorta, che secondo me erano riservisti della polizia militare. Sono entrati come fossero dei pezzi grossi, con i passamontagna, e hanno condotto fuori tre o quattro detenuti. Li hanno fatti camminare piegati, ammanettati e con la benda sul viso. Ognuno di loro teneva la camicia della persona che aveva davanti. Poi, all’improvviso, ho visto uno dei poliziotti, proprio all’ingresso del recinto, prendere la testa del primo detenuto e “bum”, sbatterlo con forza contro una parte di ferro della porta. Poi lo ha colpito di nuovo e ha detto “Yalla” [andiamo]. Nel momento in cui l’ho visto ho avuto uno shock totale. Era semplicemente di fronte a me… all’improvviso ho visto qualcuno che evidentemente pensava: “Bene, questo non è un essere umano. Posso semplicemente sbattergli la testa contro la porta. Solo perché ne ho voglia”. Il modo disinvolto in cui lo ha fatto mi ha stupito. Non sembrava arrabbiato o pieno di odio, anzi ci rideva sopra”.
Qualcuno ha detto qualcosa?
“No”.
Ci sono stati altri episodi di violenza durante la tua permanenza nella struttura?
“Sì, ma non era ‘Yalla, facciamoli a pezzi’. E poi, attenzione: questa è una procedura [che richiede uno sforzo]. Bisogna prendere il ragazzo, avere una scorta, aprire due serrature, portarlo fuori, portarlo in un posto a lato… diciamo senza telecamere. È difficile farlo. Quindi non lo si fa casualmente.
“I casi più estremi vengono dopo… per esempio, una soldatessa della compagnia ha detto che un detenuto l’aveva sbirciata e si era toccato sessualmente. Così hanno fatto intervenire la Forza 100, che lo ha picchiato ferocemente. C’è stato anche un caso in cui la Forza 100 è intervenuta per trattare con un detenuto che aveva mostrato il dito medio a un soldato. Non l’ho visto, ma i ragazzi erano piuttosto eccitati. Quando sono tornati dal turno, hanno parlato con entusiasmo del pestaggio somministrato. In generale, tutti sanno dove sono le telecamere. Tutte le cose relativamente estreme che sono accadute lì erano in aree non coperte dalle telecamere.
“Il secondo incidente che mi ha sconvolto è stato durante un turno di notte in ospedale. Ero seduto, annoiato, con un ufficiale della polizia militare all’esterno, quando uno dei detenuti all’interno ha chiesto qualcosa, o ha pianto. L’ufficiale era un druso. Gli ho chiesto se conosceva la storia di questo detenuto. Mi ha risposto di no e mi ha chiesto se fossi interessato. Ho risposto di sì. Così è entrato nella tenda”.
È consentito?
“Assolutamente no! Non è permesso parlare con loro, in nessun caso e di nessun argomento. Ci dicevano sempre: ‘State attenti a quello che dite accanto a loro. Non parlate di nulla che abbia a che fare con le notizie, con le persone uccise, con Rafah… Loro ascoltano e raccolgono informazioni”. Non si possono nemmeno fare nomi accanto a loro. Ci si chiama l’un l’altro con l’iniziale del nome.
“Ma quando non ci sono agenti nelle vicinanze, ognuno fa quello che si sente di fare. Nessuno è particolarmente attento a qualcosa. L’IDF è così… Per esempio, non è consentito tenere un cellulare in un luogo in cui ci sia interazione con i detenuti. Di giorno nessuno si azzarda. Di notte, quando non c’è personale anziano, le donne della polizia militare si siedono a guardare telenovelas turche per tutto il turno. Come arrivano i programmi? Soldati con telefoni cellulari.
“Comunque, l’ufficiale [druso] ha parlato con il detenuto per alcuni minuti in arabo, e alla fine il palestinese ha iniziato a piangere. Piangeva freneticamente. Poi l’ufficiale è uscito, mezzo ridacchiando, cercando di non ridere. Ha detto che il ragazzo ha parlato della sua vita a Gaza, del suo lavoro, della sua famiglia. Ha detto che era andato a trovare suo fratello, ricoverato all’ospedale di Shifa, e che era stato arrestato lì. Quando ho chiesto: “Allora perché piange?”, l’ufficiale ha risposto: “Ah… gli mancano la moglie, i figli, la famiglia. Non ha idea di cosa stia succedendo a loro”.
“Non so perché l’agente ridesse. Forse era imbarazzo, forse era sprezzante della storia, come se non ci credesse. Ma alla fine del turno, quando stavo per andare a dormire… Boom! I pensieri cominciarono a correre. Mi sono seduto sul letto e per ore ho cercato su Google le leggi relative all’incarcerazione dei combattenti illegali. Ho fatto una sessione su ChatGPT e ho chiesto informazioni sui crimini e sulle regole di guerra. Il giorno dopo ho capito che non potevo più continuare”.
Cosa c’era di così drammatico in quel momento?
“La storia del detenuto e il fatto che alla fine si sia messo a piangere. È stata una dimostrazione molto umana e sorprendente dopo tutta la preparazione e le cose che ti dicono lì. Continuano a inculcarti nel cervello che devi disconnetterti da loro. Che non sono persone. Che non sono esseri umani”.
Chi ha detto cose del genere?
“I ragazzi, il comandante di compagnia, gli ufficiali, tutti. Sai, c’era un’ufficiale donna che ci ha fatto un briefing il giorno del nostro arrivo. Ci ha detto: “Sarà difficile per voi. Avrete voglia di compatirli, ma è proibito. Ricordate che non sono persone. Dal vostro punto di vista, non sono esseri umani. La cosa migliore è ricordare chi sono e cosa hanno fatto in ottobre”.
“Fino ad allora avevo visto i servizi [televisivi], le cose che dicevano al telegiornale su questo posto. Avevo anche visto video di gazawi liberati che parlavano di ciò che accadeva a Sde Teiman. Ma all’improvviso, quando ci sei dentro, diventano persone vere. Ti accorgi di quanto sia facile perdere la tua umanità in un secondo, di quanto sia facile trovare giustificazioni per trattare le persone come se non fossero persone. È come nel film “L’onda” [un film del 1981 su un insegnante di liceo che fa un esperimento di simulazione con i suoi studenti su come si possa far perdere loro l’umanità]. Tutto in presenza, a faccia aperta, in diretta. È stato pazzesco vedere come ciò possa avvenire”.
H., 27 anni, studentessa e riservista (donna)
“Ero la comandante di squadra di nuove reclute nell’esercito regolare e sono stata congedata dopo il servizio circa sei anni fa. Non ero mai stata chiamata per il servizio di riserva, fino a maggio, quando ho ricevuto un SMS con un ordine di chiamata d’emergenza, ‘per un compito significativo nel Corpo di Polizia Militare’. Senza alcuna precisazione. Ho saputo da amici che eravamo stati mobilitati per sorvegliare i detenuti di sicurezza.
“Arrivai lì e mi diedero un numero. Mi sono seduta nella sala d’attesa, sotto una tettoia con tavoli su cui c’erano popcorn, granite di caffè e zucchero filato. C’era musica in sottofondo, come in un festival. C’era molta gente e faceva un caldo terribile. Nel frattempo, sentivo le conversazioni intorno a me. Alcuni dicevano di voler picchiare i detenuti o sputare nel loro cibo. Persone buone che conosco parlavano di essere crudeli e violente con altre persone, come se stessero parlando di una cosa di routine. Nessuno ha protestato o si è agitato in modo scomposto. Nessuno ha parlato della legge o del ruolo delle autorità.
“La disumanizzazione mi ha spaventato. Non riuscivo a capire come un gruppo di giovani che mi stava vicino ogni giorno avesse subito un processo così pericoloso in così poco tempo. Certo, capisco il dolore e la paura che accompagnano anche me da ottobre, ma non credevo che fossero riusciti a distorcere a tal punto il concetto di realtà delle persone che vivevano intorno a me. Ho sentito il dovere di documentare ciò che sentivo. Ho preso il mio telefono e ho iniziato a trascrivere tutto quello che sentivo [di seguito un estratto della sua trascrizione, che ha intitolato]: “2 giugno 2024, testimonianza: chiamata di riserva dei comandanti di squadra femminile alla polizia militare. Conversazioni su: “Li picchieremo con le mazze”. “Gli sputo addosso”. “Come pensate di battere i terroristi?”. “Penso che questa sia una missione, il mio compito”. “Perché meritano condizioni come queste?”. “La verità è che sono un po’ indeciso tra un lavoro e l’altro e una decina di euro mi andava bene”. “Vuoi davvero farlo?”. – “Sì, voglio i soldi”, facendo un occhiolino.
“Così ci siamo sedute per il briefing. È entrato un simpatico ufficiale della polizia militare e ha iniziato a parlare: “Probabilmente vi chiederete cosa ci fate qui. Noi siamo la polizia militare. Il nostro compito in questa emergenza sono i detenuti nemici”. Ha spiegato quanti erano stati presi in custodia e in quali strutture erano stati portati, e poi ha sottolineato: “È importante che voi capiate che per la restituzione degli ostaggi abbiamo bisogno di restituire dei prigionieri, quindi li stiamo trattenendo per gli accordi. Al momento, sono una risorsa strategica dell’IDF”.
“Quando sono iniziate le domande e le obiezioni, la cosa è diventata più dura. ‘Siete tutte qui con un ordine di emergenza. Dovete fare il vostro lavoro. Io sono qui per mediare [la realtà] per voi. Fino a un mese fa qui non c’erano granite o popcorn. Le persone sono state chiamate, ovviamente, e gli è stato detto: Shalom, tu farai la guardia carceraria per un tempo indefinito”.
“Qualcuno ha chiesto: “Come si fa a chiamare le ragazze per un compito del genere?” [cioè,] vista la possibilità delle molestie e di tutto il resto. L’agente ha risposto che sono ammanettati, con la benda sugli occhi, in una gabbia con le sbarre. In altre parole, non si ha un contatto diretto con loro”. Una delle partecipanti ha detto: “Quello che mi preoccupa è che moralmente non mi vedo a portare loro del cibo. Non riesco a immaginare di occuparmi dei loro bisogni”.
L’ufficiale ha risposto: “Secondo il diritto internazionale siamo obbligati a portare loro una certa quantità di cibo. Dopo tutto, l’esercito potrebbe semplicemente ucciderli. Ma l’esercito ha bisogno di loro. E non ti preoccupare, non è che vengano coccolati”.
“Lui continuò a ‘rassicurarci’ che non ci saremmo trovate in alcuna situazione di pericolo. Se, ad esempio, i detenuti vogliono litigare tra loro, per quanto ci riguarda possono colpirsi e uccidersi a vicenda. Noi non interverremo e non metteremo in pericolo nessuno dei nostri”.
“Alla fine ha detto: “Ricordate che questa è una missione morale, importante, e che l’esercito ha bisogno di voi. Inoltre, poiché si tratta di un ordine di emergenza, sarete pagate e chi vorrà continuare dopo questo mese riceverà non poche sovvenzioni e benefici. È una cosa che paga davvero”.
“Sono tornata a casa spaventata. Il tipo di discorsi che avevo sentito nelle conversazioni informali veniva presentato in una piattaforma militare ufficiale. Mi ha spaventato il fatto che l’ufficiale non abbia risposto chiaramente ai discorsi disumanizzanti. L’incontro con concetti così pericolosi, che erano diventati normali nella nostra società, è stato traumatico per me. Mi è stato chiaro che non avrei potuto prendervi parte e sono uscita dal servizio di riserva con l’aiuto di uno psichiatra”.
A., studente e riservista, di Be’er Sheva
“Sono stato chiamato per il servizio di riserva in ottobre, ho combattuto a Gaza e sono stato congedato in gennaio. A maggio mi sono offerto volontario per un altro periodo di riserva, a Sde Teiman. Ho visto un annuncio su Facebook in cui si diceva che c’era bisogno di soldati di riserva, e si diceva che si trattava di turni diurni e che il lavoro poteva essere adatto anche agli studenti. Così sono andato, soprattutto per la paga. Volevo anche esserci un po’. Alcuni miei amici sono morti a Nova ed ero curioso di vedere da vicino le persone che l’avevano ucciso.
“Mi è capitato di prestare servizio lì con alcuni battaglioni di riserva, e si può dire che alla maggior parte dei soldati il lavoro non piaceva affatto. Per questo motivo c’era un’enorme carenza di personale e avevano bisogno di persone come me, che venissero a completare i turni.
“Sono arrivato lì con molta apprensione. Avevo letto cose sui giornali e avevo anche paura del luogo stesso. Dopotutto, si sorvegliano terroristi, assassini, a un metro di distanza; e loro sanno anche combattere. Ma questo era solo durante i primi turni. Con il tempo ci si abitua e in generale non ho percepito una sensazione di vera paura sul campo.
“Ho fatto il servizio di guardia nei recinti e negli ospedali. Niente da dire sugli assistenti sanitari. Sono degli angeli. Sapete cosa significa cambiare il pannolino a un terrorista e pulirgli il sedere? E lo fanno con relativa dignità e senza imporre umiliazioni. A volte c’era qualche risata sui pazienti, oppure li chiamavano con dei nomi, magari insultandoli. Ma nel complesso svolgevano un lavoro sacro.
“Quando ero lì, li hanno trasferiti in una nuova struttura. Sei grandi tende, con pavimenti e un condizionatore d’aria. E hanno portato un sacco di nuove attrezzature. Ho capito che, poiché a quel tempo c’erano state delle critiche, più passava il tempo e più la situazione diventava moderata. Si diceva, ad esempio, nei briefing prima delle missioni, che “prima venivano puniti facendoli stare con le braccia alzate” ma questo non è legale, o altre cose simili.
“A causa delle pressioni esterne c’era una costante paura delle fughe di notizie, dei media. Ci dicevano sempre di parlare il meno possibile. Come dire: quello che succede a Sde Teiman, rimane a Sde Teiman. Questa è l’atmosfera. Fotografare era un tabù. Dicevano che era una cosa molto seria e che se le foto fossero trapelate, avrebbero fatto intervenire la Divisione Investigativa Criminale della Polizia Militare.
“I detenuti siedono solo nell’area del loro materasso e sempre con le manette e gli occhi bendati. E ci si rende conto di ciò che questo fa su di loro. Si vede assolutamente la differenza tra i nuovi arrivati e quelli che sono lì da settimane. Le persone perdono la testa in queste condizioni. Ho fatto un esperimento a casa, con un condizionatore, sul tappeto. Volevo verificare. Mi sono seduto con un fazzoletto in testa, senza manette e senza fame. Solo con una benda e un orologio che avrebbe suonato tra un’ora. Dopo 10 minuti mi sentivo morire. Dopo altri 10 minuti sono crollato.
“Immaginate questo, giorno dopo giorno, una settimana, un mese. Ho la sensazione che, poiché lo stato ha paura che un giorno tornino a Gaza, abbia deciso di trasformarli in zombie. Hanno preso queste persone e hanno deciso di fregarle al punto che, tra altri 50 anni, quando cammineranno per strada a Gaza, la gente li indicherà e dirà: “Lo vedete, quel poveretto… molti anni fa, ha deciso di attaccare Israele”.
“Credo che la maggior parte delle persone che erano lì non siano brave persone. Non per niente l’esercito viene a prenderli. Ma qui c’è anche solo la bassa manovalanza di Hamas, o qualche impiegato. E c’erano anche persone innocenti, soprattutto all’inizio, quando la classificazione sul campo era meno meticolosa. Non capisco la logica di tenere le persone in condizioni come queste. Non è una punizione; la vita lì… è una tortura quotidiana.
“Nei briefing viene spiegato che tutto ha un motivo. Per esempio, è proibito parlare, così non passeranno informazioni e non si coordineranno tra loro. Il materasso è sottile per evitare che nascondano le armi. La punizione – serve per avere un effetto deterrente. Le manette – perché sono molto pericolosi. Un ufficiale della polizia militare, che sembrava un veterano, una volta mi ha spiegato che “l’esercito non era preparato ad accogliere migliaia di persone”. Ok, ma sono passati sei, sette, nove mesi e non avete trovato una soluzione migliore? Incredibile, a questo punto”.
Hai assistito a qualche irregolarità?
“Dipende da come si definisce l’irregolarità. Nella mia vita quotidiana non incontro un livello di violenza come quello, di maledizioni e umiliazioni. Quindi sì, ogni minuto lì è irregolare. A livello personale, ho vissuto un evento che ha cambiato il mio atteggiamento nei confronti di quel luogo.
“È successo durante uno dei miei primi turni. Ero seduto nel gazebo del campo di prigionia, in una pausa tra un turno e l’altro, quando un ufficiale della polizia militare con una mazza di gomma si è avvicinato e ha detto: ‘Vieni con me, dobbiamo occuparci di qualcuno che sta creando problemi’. Sono andato con lui e con un altro soldato e abbiamo portato via un detenuto di circa 40 anni. Aveva una gamba fasciata e zoppicava un po’. L’abbiamo portato a lato della cella, in una zona che non si vede bene, e l’ufficiale della polizia militare l’ha colpito quattro volte sulla schiena con la mazza e mentre lo faceva gli ha gridato: “Stai zitto! D’ora in poi – uskut [“stai zitto” in arabo]!”.
“Il palestinese ha alzato le mani e ha cercato di proteggersi la nuca, anche se la mazza non è arrivata lì. Poi, mentre veniva picchiato, ha spostato per errore la benda che gli è caduta sul collo. Questo ha fatto scattare l’agente che ha iniziato a picchiarlo ancora più forte. Il palestinese è caduto a terra, sembrava che si stesse arrendendo, che non avesse più forza per stare in piedi e che stesse semplicemente crollando. Poi ha iniziato a gridare, in arabo, “Laish? Laish?”, come a dire: “Perché? Perché?”… E da terra, mentre forse cercava di proteggersi con le mani, improvvisamente mi ha guardato.
“Mi ha guardato negli occhi e mi ha implorato: “Laish? Laish?” I suoi occhi erano marroni, grandi e sporgenti dalle orbite per il dolore. Le sue vene erano gonfie, era rosso e ovviamente sofferente. Sono rimasto lì, scioccato. Mai in vita mia avevo visto uno sguardo del genere. Le grida hanno stressato un po’ l’ufficiale di polizia militare, che lo ha maledetto e gli ha sputato addosso. Poi è stato riportato nel recinto.
“L’evento mi ha davvero scosso. Sono rimasto a Sde Teiman anche dopo, è vero, ma molto meno entusiasta, molto meno felice”.
Hai partecipato al pestaggio?
“Preferisco non rispondere. E non necessariamente per il motivo che potrebbe sembrare ovvio. È stata una situazione irregolare per me e vorrei tanto dimenticarla. Ma non era irregolare per il luogo. A volte un soldato colpisce qualcuno senza motivo. Succedono molte altre cose. Le persone si permettono di fare certe cose, soprattutto in luoghi dove non c’è supervisione. Oppure ci sono stati casi in cui la gente è venuta a picchiare qualcuno per vendicarsi [del 7 ottobre]. Oppure… che… non so se chiamarli così… la gente è sadica”.
Che cosa significa?
“Se la definizione di sadico è quella di una persona che si diverte a far soffrire un’altra persona, allora posso fare esempi da tutte le parti del repertorio. Una sera stavo facendo il servizio di guardia nel campo di prigionia. C’era un battaglione di riserva, ragazzi veterani che facevano molte grigliate e ascoltavano musica nel campo di riposo. La tenda era piuttosto lontana dal campo, ma a volte gli odiri si sentivano anche lì, e anche la musica. Così ho sentito l’odore della carne mentre ero al mio posto di guardia; potevo vedere che anche i detenuti lo sentivano nell’aria. Credo che ne fossero piuttosto tormentati. Quando ho finito il mio turno, sono passato davanti alla tenda e uno dei ragazzi mi ha chiesto se volevo una pita con il kebab. Gli ho detto che non mi sentivo a mio agio, visto che c’erano persone affamate così vicine. Lui ha fatto una smorfia. Come se stessi facendo il moralista, quello dei diritti. Poi ha sorriso e ha detto: “Perché? Per me è molto più gustoso così, quando stanno soffrendo”.
“Per me è chiaro che non meritano la carne. E se avessi saputo che ricevono cibo a sufficienza, anche se è cibo di merda, ma che non hanno fame, sarebbe stato diverso. Come si fa a godersi il cibo quando si sa che qualcun altro ha fame? Anche se si tratta del tuo peggior nemico.
“All’altro estremo del repertorio, c’erano persone che venivano a sfogare la loro rabbia. Chi si offre volontario per servire lì? Solo chi si diverte a picchiare gli arabi. Li ho visti rimuovere persone dai camion, sempre con violenza, imprecazioni, sputi. Indossano uniformi tattiche, guanti, maschere e tutto il resto – tutti tipi di macho spavaldi. Anche in questo caso si tratta di apparire spaventosi e minacciosi di fronte ai detenuti. In realtà, stiamo parlando di persone frustrate. Con tutte le spacconate, non è che stiano combattendo nei tunnel o facendo esplodere edifici a Rafah. Stanno affrontando persone ammanettate e affamate. Non è molto difficile essere forti contro di loro. Non sono un esperto del settore e non ho studiato psicologia, ma sì, ho visto dei sadici. Persone che si divertono a far soffrire gli altri”.
Come hanno reagito gli altri soldati a questa situazione?
“[Con risposte del tipo:] “Sapete chi sono e cosa sono”, insomma, le solite scuse: “Se la sono cercata”, oppure “è necessario, perché è una guerra”.
“Sentivo che lì c’era cecità per scelta, che questo era il modo di convivere con la dissonanza che il luogo crea. Questo è un punto di forza del doppio significato che hanno le parole. Si dice una cosa e tutti capiscono esattamente il significato aggiuntivo. Ad esempio, quando si dice di prendere qualcuno “da parte”, è evidente a tutti che l’intenzione è di portarlo fuori dal raggio d’azione delle telecamere. Oppure, in una delle perquisizioni di Forza 100 hanno preso un detenuto e lo hanno portato in un angolo. Quando stavano per abbassarlo a terra, all’improvviso uno di loro ha detto: “Ehi! Stai facendo resistenza?”. E subito tutti i presenti hanno iniziato a tirare calci, pugni e a gridare: “Sta facendo resistenza”.
“Sono lì in piedi e vedo esattamente cosa sta succedendo. Non ha opposto alcuna resistenza. È stato gettato sul pavimento, ha cercato di proteggersi la testa, il viso, con le mani, di raggomitolarsi. E loro hanno continuato. Era chiaro a tutti i presenti che non ha opposto resistenza. Perché è quello che è avvenuto in realtà. Ma dopo, quando ho parlato con un soldato che era lì e aveva visto tutto, ha giustificato il pestaggio e ha detto: “È quello che si deve fare a un detenuto che resiste”. Io son rimasto in silenzio. Ho capito che era cieco alla verità, per scelta.
“Ci portavano un detenuto e dicevano: ‘È pericoloso’. E sapete, questa affermazione, che è pericoloso, non ha senso. E anche se lo fosse. Cosa potrebbe fare? Ha già le mani e le gambe legate, eppure viene messo in prima fila nell’hangar. Ho inteso quella parola – “pericoloso” – come un’allusione. Come se ci dicessero che più tardi sarà possibile picchiarlo selvaggiamente. Ed è stato anche così.
“A proposito, non è più permesso dire ‘carcere’. A un certo punto hanno detto che non è politicamente corretto e che d’ora in poi dovremo dire ‘struttura di detenzione’. Ma questo è successo solo alla fine.
“Col senno di poi, è stato un po’ ingenuo pensare che, andando a fare il servizio di guardia a Sde Teiman, sarei riuscito a capire qualcosa dei Nukhba e di quello che hanno fatto in ottobre. In realtà non immaginavo che avessero le corna, ma pensavo che avrei incontrato l’odio estremo, l’ideologia. Alla fine, sono solo persone spregevoli, ma pur sempre esseri umani.
“Ci vuole tempo per digerire le cose. Più mi allontano dal luogo, più i miei occhi si sono aperti. Ciò che mi ha più turbato è stato vedere con quanta facilità e rapidità le persone comuni possono disconnettersi e non vedere la realtà che hanno davanti agli occhi, quando si trovano nel mezzo di una situazione umana sconvolgente”.
Y., membro femminile di un’équipe medica
“Ho recentemente concluso un periodo di lavoro all’ospedale Sde Teiman. Sono arrivata lì dopo che, qualche mese fa, l’esercito ha lanciato un appello agli ospedali per trovare personale per il sito. Questo mi ha colpito come cittadina e come madre di un soldato che si trovava a Gaza. Così, quando è arrivata la chiamata, descritta come una “missione nazionale”, ho detto di sì. Senza sapere nulla del luogo o della missione. Le prime 24 ore non sono state facili. [Ma] non pensavo di trovarmi in uno stato di shock”.
Cosa ti ha sorpreso così tanto?
“Il posto era totalmente inimmaginabile, non avevo mai pensato a qualcosa di simile. Il mio primo pensiero è stato: Che cosa ho fatto? Ma poi mi sono immersa nel lavoro. La mattina dopo, ho fatto un respiro profondo e mi sono detta: Ok, so come trattare le persone, l’obiettivo è chiaro: dobbiamo fornire un trattamento per ottenere informazioni. Loro [i detenuti] hanno informazioni che possono aiutare a proteggere mio figlio. Hanno informazioni che possono salvare i figli di altri. Ho deciso di fare del mio meglio. Come faccio ovunque.
“La struttura è gestita in gran parte dal Ministero della Salute, perché non c’è altra possibilità. Il 7 ottobre, i feriti di Hamas sono stati portati in diversi ospedali, ma poi è arrivata La Familia (un gruppo ultranazionalista di Gerusalemme) e ha scatenato un putiferio, ci sono state minacce ed è stato difficile fornire le cure. Nessun direttore di ospedale vuole questo tipo di problemi.
“Non so cosa sia successo a Sde Teiman nei primi mesi, prima che arrivassi io. Ma a quanto pare, a causa di tutte le critiche, il primo ospedale da campo è stato spostato in una nuova struttura, molto più grande e dotata di condizionatori. Ogni mattina arrivavamo per aiutare con le procedure, le cure, il follow-up. I casi urgenti venivano portati anche nel pomeriggio e di notte. Poiché non c’era molta risposta [da parte del personale medico, per prestare servizio nel sito] la maggior parte dell’équipe era composta da riservisti piuttosto anziani. Alcuni avevano anche 70 e 80 anni. Sono più abili e più resistenti mentalmente.
“Lì non si fa nulla di complicato, come succede in altri ospedali. Ciò significa che se qualcuno [portato da Gaza] viene operato, dopo qualche ora di recupero, se non ha emorragie o pressione alta, ecc. viene portato immediatamente da noi, anche se nel cuore della notte. E hanno fatto di tutto perché i media non ne venissero a conoscenza; si entrava e si usciva rapidamente.
“Ogni giorno ricevevano verdure, una proteina e un additivo alimentare due o tre volte al giorno, in una specie di bottiglia. La maggior parte riusciva a prendere il cibo a mano e a bere dalla bottiglia con una cannuccia, oppure a tenere in mano la verdura. Chi non ci riusciva, veniva aiutato da qualcuno dello staff”.
E i pannolini?
“Per chi ne ha bisogno. Quelli che riuscivano ad usare un vaso ne usavano uno; se no, un pannolino. Non so perché i media abbiano detto che avevano un catetere. Quello che avevano non è un catetere, è una cosa esterna, come un preservativo con un buco e un tubo che è collegato a una sacca. In termini di comfort, è preferibile. Se si è sdraiati in un pannolino bagnato, non è piacevole. Si usa in situazioni in cui il detenuto non può raggiungere il bagno. Chi poteva, faceva la pipì in un recipiente, come in ospedale.
“Le condizioni lì [nel campo] sono state descritte come torture. Forse. In molti sensi, sì, sono d’accordo. Forse anche una tortura folle. Ma non ho gli strumenti per giudicare. Non conosco l’argomento. Posso parlare delle cure mediche, che sono buone. Quando c’erano articoli che dicevano che tutti i loro arti erano incatenati – ok, cosa c’è di nuovo? Anche prima di ottobre, ogni volta che un terrorista veniva portato da noi per essere curato in un ospedale [normale], arrivava in manette. Quindi non capisco cosa ci sia di nuovo”.
È necessario?
“Non ero lì per giudicare. Questa è la realtà che ho incontrato. Una volta al giorno la persona di servizio veniva in ospedale per controllare che nessuna delle manette fosse troppo stretta. Che non stesse tagliando la carne. Ogni giorno si controllava che ci fosse spazio, che almeno due dita potessero passare sotto ogni manetta.
“Non sapevo nulla dei miei pazienti, anche di quelli che erano lì da molto tempo. Ci veniva assegnato un numero di prigioniero. Quando sono tornata a lavorare come sempre nel mio reparto, dopo un periodo a Sde Teiman, ero felice. Che gioia conoscere i nomi dei miei pazienti”.
Sono sempre bendati?
“Sì. È una decisione militare, non medica. E… una volta ho chiesto perché, e mi è stato detto che queste persone sono pericolose e loro [le autorità militari] non vogliono che vedano le persone della squadra”.
Ci sono state testimonianze di atti di violenza brutale nella struttura di detenzione. Avete ricevuto persone a cui sono stati rotti gli arti, ma non sul campo di battaglia?
“No, non ho mai visto… oltre il… no. Mai. Non so nemmeno da cosa siano stati feriti prima di arrivare a noi. Non è il mio lavoro”.
Denti rotti, contusioni gravi?
“No. Niente. Non c’è modo. Non solo non ho visto, ma non ho nemmeno sentito. E se queste cose fossero accadute, sarei rimasta scioccata. Forse le cose erano diverse prima del mio arrivo. Non dimenticate il 7 ottobre e i due o tre mesi successivi. Oggi la situazione non è più quella. Credo che la rabbia sia stata molto forte. Trauma. Ma quando ero lì, non ho visto nulla, e se l’avessi visto, probabilmente l’avrei trasmesso a chi era sopra di me. Perché non sarei stata in grado di sopportarlo. Non per colpa loro: Sono terroristi e non ho alcuna pietà per loro. Per colpa nostra, perché quando ci comportiamo così, ci fa del male. Dobbiamo pensare a noi stessi, solo a noi stessi”.
Dean Teplitsky ha collaborato alla stesura di questo rapporto investigativo.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
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