Sull’apatia degli israeliani

di Mairav Zonszein, 

The New York Times, 7 ottobre 2024.  

Credit:  Ofir Berman

In una delle recenti manifestazioni di massa a Tel Aviv, in cui si chiedeva un accordo sugli ostaggi e elezioni anticipate per sostituire il governo israeliano, un manifestante reggeva un cartello con su scritto: “Chi siamo noi senza di loro?”, riferendosi agli ostaggi. Un altro cartello recitava: “Datemi un motivo per crescere dei figli qui”.

Questi messaggi racchiudono le domande che molti israeliani si pongono, a un anno dalla guerra più lunga nella storia del paese: Qual è il valore di una patria ebraica se non dà priorità – o rinuncia – a salvare le vite dei suoi civili, rapiti dalle loro case? Mi sentirò mai più al sicuro? E che tipo di futuro ho qui se l’unica visione che i nostri leader offrono è una guerra senza fine?

Un anno dopo l’attacco omicida di Hamas del 7 ottobre che ha scatenato la guerra a Gaza, Israele sta sprofondando in una crisi esistenziale. È un paese rattrappito, con decine di migliaia di israeliani sfollati dalle città e dai kibbutzim del nord e dai villaggi del confine meridionale, mentre combatte una guerra su più fronti che si sta solo intensificando ed espandendo. E, oltre ad aver dovuto affrontare durante l’anno perdite, shock, lanci di razzi e la paura opprimente per la sicurezza minacciata da Hamas, Hezbollah, Houthis e dallo stesso Iran, l’ansia è aggravata dalle turbolenze interne.

Migliaia di israeliani con i mezzi per farlo hanno scelto di lasciare Israele dal 7 ottobre; altri stanno considerando o pianificando di emigrare. Altre migliaia sono scesi in piazza settimana dopo settimana, impegnandosi in atti di disobbedienza civile, iniziati prima degli attacchi del 7 ottobre con le proteste contro la revisione giudiziaria proposta dal Governo Netanyahu e, dopo una breve pausa, riprese con una nuova attenzione alla crisi degli ostaggi e alla richiesta di elezioni anticipate. A settembre, le immagini dell’ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Dan Halutz che viene allontanato con la forza dalla polizia durante un sit-in davanti alla residenza privata del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, e le immagini dei parenti degli ostaggi che vengono maltrattati dalle forze dell’ordine, sono state un’ulteriore manifestazione della crisi interna.

Per come la vedono molti israeliani che protestano in tutto il paese – un gruppo in gran parte identificato come l’élite liberale laica – non si tratta solo di salvare gli ostaggi; è una battaglia sul carattere e sull’identità dello stato. Questo, quindi, è il punto di svolta sull’identità dello stato: tra democrazia e autoritarismo, tra un sistema giudiziario indipendente e uno legato all’autorità esecutiva, tra un paese con la libertà di protestare e di ritenere responsabili i leader, e uno in cui la libertà di parola è repressa e i leader hanno il sopravvento sulla popolazione.

Eppure, in qualche modo, questa battaglia è completamente distaccata dal conflitto israelo-palestinese e dai palestinesi stessi, come se questi ultimi non respirassero la stessa aria che respiriamo noi, in Israele, Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza. L’indignazione nelle strade è in gran parte limitata al fallimento del governo israeliano nel salvare gli ostaggi israeliani. Non c’è quasi nessuna indignazione per la distruzione indiscriminata di Gaza e l’uccisione di oltre 40.000 persone, molte delle quali civili, nell’ultimo anno. Pochi protestano per l’uso eccessivo della forza da parte di Israele. Semplicemente non ci si rende conto che, anche se gli israeliani si trovano in una crisi d’identità, i palestinesi stanno combattendo una battaglia per la loro stessa esistenza. La noncuranza israeliana per la sofferenza palestinese, consapevole o meno, è una delle caratteristiche più palpabili e inquietanti della vita in Israele dopo il 7 ottobre. Ovviamente esisteva già da molto prima, ma ora è ancora più evidente e significativa.

È proprio questa apatia che ha permesso all’estrema destra – che non è affatto apatica nel suo approccio verso i Palestinesi – di dominare incontrastata la politica israeliana. Il principio unificante in Israele oggi, come messo in atto dai partiti di destra al potere, è il controllo e la dominazione ebraica, la vita con la spada. Come ha detto Netanyahu (citando il Libro di Samuele) in una recente riunione di gabinetto, “C’è chi chiede: “La spada divorerà per sempre?””. La risposta, ha detto, è stata: “In Medio Oriente, senza la spada, non c’è un ‘per sempre’”. (Netanyahu non ha incluso la seconda riga della citazione biblica: “Non ti rendi conto che questo finirà nell’amarezza?”). Secondo la sua lettura, l’unico modo per difendere gli ebrei è la forza. Ciò significa schiacciare il nemico, anche se significa sacrificare vite israeliane, così come la reputazione internazionale, il senso di sicurezza nazionale e la bussola morale del paese.

Come ha dichiarato recentemente Bezalel Smotrich, Ministro delle Finanze e governatore de facto della Cisgiordania, “La mia missione di vita è costruire la Terra d’Israele e impedire uno stato palestinese”. Non si tratta solo di retorica. Nell’ultimo anno, Israele ha espropriato terre occupate e costruito insediamenti a un ritmo record, ha rioccupato effettivamente Gaza e ora è nuovamente coinvolto in un conflitto in Libano. Un Israele gestito da persone come Smotrich, il suo collega ministro di gabinetto della linea dura Itamar Ben-Gvir e lo stesso Netanyahu, è un Israele che è passato da una politica di separazione dai Palestinesi, un tempo destinata a portare alla creazione di uno stato palestinese nell’ambito del processo di Oslo, a una politica di distruzione, che cerca di sopraffare, uccidere o espellere i Palestinesi dalle terre che erano state loro promesse e dalle terre in cui vivono attualmente.

Il problema per gli israeliani che sono indifferenti alla vita dei palestinesi è che nel frattempo, all’interno di questo paradigma, alcuni israeliani iniziano a riconoscere e a sperimentare quella che è essenzialmente una contraddizione interna e inconciliabile. Se questo è un paese che difende i diritti e l’autorità degli ebrei, come può anche minare e sminuire la vita degli ebrei stessi, abbandonando di fatto gli ostaggi e condannando il paese a una guerra senza fine? Che cosa significa allora vivere in un paese i cui leader hanno reso il benessere dei cittadini secondario rispetto alla sopravvivenza politica, all’esercizio e al consolidamento del potere politico e all’eccessiva forza militare dei loro leader? Come devono interpretare gli israeliani l’applicazione selettiva della legge, per esempio la polizia che rifiuta in gran parte di arrestare i coloni israeliani che aggrediscono i palestinesi, ma che arresta regolarmente i cittadini disarmati e rispettosi della legge che gridano nelle strade per un accordo sugli ostaggi e per il ritorno dei loro amici e vicini?

Per certi versi, ovviamente, non si tratta di una novità. Mi sono spesso chiesta come gli israeliani possano pensare di continuare a ignorare la violenza sistematica esercitata contro i palestinesi, attraverso gli insediamenti e il dominio militare, e ora la morte e la distruzione di massa dei palestinesi a Gaza, e pensare che ciò non influisca sul carattere dello stato, per non parlare del modo in cui tratta i suoi cittadini. Questa dissonanza cognitiva, sostenuta da molti israeliani per decenni, si è intensificata nell’ultimo anno. È stata resa possibile, in parte, dalla crescita e dalla qualità dell’apparato di sicurezza israeliano -nonostante la devastazione generalizzata di Gaza- come sofisticato, preciso, altamente tecnologico e giustificato nella sua missione di difesa del popolo ebraico, come esemplificato dagli omicidi mirati, dalla tecnologia di sorveglianza e dai recenti attacchi con cercapersone in Libano, a prescindere dalle immagini di interi blocchi di città distrutti.

È stato anche reso possibile da un’opposizione politica che non offre una propria visione per una pace duratura. Tuttavia, questa opposizione, che comprende molti ex generali dell’esercito, insieme a gran parte dell’establishment della sicurezza, ha appoggiato fermamente le richieste di un accordo sugli ostaggi e di un cessate il fuoco a Gaza. Questi gruppi offrono almeno un’alternativa al percorso attuale, auspicando una pausa nei combattimenti per consentire agli israeliani di curare la ferita aperta degli ostaggi e dare una pausa alle famiglie i cui parenti stanno servendo nelle riserve dell’esercito. In questo senso, vedono almeno la necessità di dare priorità al benessere di base degli israeliani e di cercare di mantenere Israele nelle grazie del mondo occidentale. Ma nella loro visione manca comunque il senso di come gli israeliani possano avere una stabilità a lungo termine al di fuori della forza militare coercitiva. Ciò è più evidente nel consenso militare e civile sull’attuale escalation in Libano e nel fatto che nessun partito ebraico in Israele oggi, compreso il Partito Democratico (un amalgama dei laburisti storicamente di sinistra e di Meretz), sostiene la fine dell’occupazione o una soluzione a due stati.

Per molti israeliani, aver capito che l’attuale governo non salverà gli ostaggi è un punto di rottura. Improvvisamente, molti dei miei compatrioti si trovano di fronte alla consapevolezza che essere ebrei in Israele non significa che si verrà salvati o trattati in modo equo, anche in guerra. Che la propria vita, e quella dei propri figli e figlie, è sacrificabile. Questo ha radicalizzato e politicizzato un gran numero di israeliani che protestano per la prima volta nella loro vita e si chiedono se possono continuare a vivere qui.

L’illegalità e la violenza di stato che per tanto tempo sono state rivolte ai Palestinesi hanno iniziato a penetrare nella società ebraica israeliana. Il rifiuto di Netanyahu di assumersi la responsabilità per i fallimenti della sicurezza del 7 ottobre, il suo attaccamento al potere nonostante i processi per corruzione, il suo rafforzamento di alcuni degli elementi più radicali e messianici in Israele, ne sono una testimonianza. Il sostegno quasi a carta bianca che Israele ha ricevuto dall’amministrazione Biden per gran parte di questa guerra ha ulteriormente rafforzato gli elementi più radicali della politica nazionale. Eppure, molti israeliani non hanno ancora colto il nesso tra l’incapacità di far sì che il governo dia priorità alla vita di Israele e il trattamento che il governo riserva alla vita dei palestinesi.

Senza questa consapevolezza, è difficile vedere come gli israeliani possano tracciare un percorso diverso, che non si basi sulla stessa disumanizzazione e illegalità. Questo, per me, ha reso apparentemente irredimibile quella che è già una realtà terribile e disperata. Affinché gli israeliani inizino a trovare una via d’uscita da questa situazione, dovranno sentirsi indignati non solo per ciò che viene fatto a loro, ma anche per ciò che viene fatto agli altri in loro nome, e chiedere che si fermi. Senza questo, non sono sicura che io, come altri israeliani che hanno il privilegio di scegliere, possa vedere un futuro in questo paese.

Mairav Zonszein è analista senior di Israele presso l’International Crisis Group. Scrive da Tel Aviv.

https://www.nytimes.com/2024/10/07/opinion/on-israeli-apathy.html

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

1 commento su “Sull’apatia degli israeliani”

  1. beh, più che articolo da condividere o meno, racconta quello che succede e auspica che si sveglino… dovrebbero emigrare in massa, non c’è grande scelta

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