di Fathi Nemer,
Mondoweiss, 12 settembre 2024.
Dobbiamo costruire un’infrastruttura di contrapposizione per resistere al prossimo assalto di Israele alla Cisgiordania. Il primo passo per farlo è costruire l’autosufficienza e recuperare la sovranità alimentare.
Nulla di tutto questo deve essere inteso come una nuova fase del colonialismo d’insediamento sionista; si tratta piuttosto di un suo inasprimento, di una sua uscita allo scoperto in modo più sfacciato. Ciò che sta accadendo a Gaza può accadere e accadrà altrove in Palestina. Non perché i contesti o le condizioni siano identici, ma perché derivano dalla stessa logica suprematista e dallo stesso sistema di dominazione coloniale.
È un errore credere che un cessate il fuoco, indipendentemente dalla sua forma, possa rimettere il genio dentro la sua bottiglia. Non torneremo allo status quo precedente al 7 ottobre ma andremo avanti con la nostra vita fino al prossimo bombardamento di Gaza. Semmai, il 7 ottobre ha dimostrato quanto la Cisgiordania sia completamente impreparata a ciò che sta per accadere, in parte anche a causa dell’ostinato autoinganno che abbiamo coltivato negli ultimi tre decenni: l’idea che ci possa essere una parvenza di vita normale sotto l’occupazione in cambio dell’obbedienza.
Come spiegare altrimenti la costruzione di fragili torri commerciali in vetro nelle città sotto occupazione? Questa non è l’infrastruttura di una società in conflitto o intenzionata a combattere. Nel frattempo, a pochi chilometri di distanza, gli insediamenti sono progettati come fortezze, anche se non sono sotto occupazione militare. Sono progettati in modo da favorire la loro funzione, che è la colonizzazione della terra palestinese. Questo invita a chiedersi: quale funzione svolgono oggi le varie comunità palestinesi in Cisgiordania?
Dominazione e resistenza
Questo non significa che la Cisgiordania sia rimasta inattiva. Negli ultimi anni si è assistito all’ascesa di diversi gruppi di resistenza, soprattutto nei campi profughi, e centinaia di palestinesi sono stati martirizzati. Questi gruppi hanno sviluppato le loro capacità e hanno sfidato il colonialismo sionista al punto che il regime israeliano ha ripristinato i bombardamenti aerei in Cisgiordania, cosa a cui non ricorreva dalla Seconda Intifada.
Anche se non tutti possono fare resistenza attiva allo stesso modo, tutti sono responsabili della creazione delle condizioni che permettano la resistenza. In questa direzione, la Cisgiordania potrebbe fare ancora di più, soprattutto a livello popolare. Forse uno dei campi di lotta più urgenti, in cui è possibile una maggiore partecipazione popolare, è quello economico, in quanto si tratta di un settore primario attraverso il quale Israele mantiene il suo controllo sui palestinesi e ostacola ogni tipo di resistenza.
Il declino dell’economia palestinese e la riduzione della popolazione rurale palestinese in una forza lavoro proletarizzata e prigioniera dell’economia coloniale sono stati strumenti chiave per la smobilitazione e l’addomesticamento dei palestinesi. I mezzi di sussistenza palestinesi sono tenuti in ostaggio dal regime israeliano, che impone un prezzo molto alto per chi resiste. Per parafrasare Ismat Quzmar in una conferenza sulle politiche economiche dell’occupazione dal 7 ottobre in poi, i Palestinesi sono sempre bloccati in una scelta tra il loro interesse materiale immediato e il loro interesse nazionale a lungo termine. Ecco perché la battaglia per indebolire e smantellare questo sistema di dominazione è fondamentale per rafforzare la tenacia palestinese sul terreno e stabilire un ordine politico ed economico più conflittuale.
In poche parole, se non riusciamo a nutrirci, non riusciamo a liberarci. Se non possiamo sostenere autonomamente l’infrastruttura che è alla base della vita, questa stessa infrastruttura sarà usata per ingabbiarci. Al momento dell’occupazione della Cisgiordania, Moshe Dayan disse che se Israele avesse potuto “staccare la spina” e tagliare le città palestinesi dalle risorse, sarebbe stato un meccanismo di controllo più efficace “di mille coprifuoco e soppressioni di sommosse”.
Non si tratta di idee estranee o nuove. L’autosufficienza ha costituito la base di un’economia di resistenza prima e durante la Prima Intifada. Progetti come i “Giardini della Vittoria” vedevano appezzamenti di terreno e cortili delle case trasformati in orti produttivi per promuovere l’autosufficienza e l’indipendenza. Ciò significava che le città e i villaggi palestinesi potevano resistere alle chiusure e agli assedi per periodi prolungati, assicurando che, indipendentemente dal deterioramento delle condizioni generali, i palestinesi non sarebbero morti di fame.
Dopo la firma degli Accordi di Oslo, questi sforzi di autosufficienza furono gradualmente annullati con la scusa della “costruzione dello Stato”. Al contrario, i contadini palestinesi, privati della libertà, furono incoraggiati a passare alle colture da reddito, come la coltivazione di fiori da esportare nei mercati europei e da integrare nell’economia mondiale. Insieme alle annessioni di terre e al lavoro palestinese nell’economia coloniale, queste trasformazioni hanno lasciato gli agricoltori palestinesi in condizioni disastrose, visto che appena il 26% di loro dichiara che l’agricoltura è la loro fonte primaria di reddito. Questo è in linea con il concetto di sicurezza alimentare, in cui il cibo viene procurato attraverso il commercio o gli aiuti. Tuttavia, questo approccio trascura il modo in cui il cibo viene prodotto e commercializzato, i monopoli sulle sementi e altri rapporti di potere che determinano chi può mangiare. Trascura anche il fatto che i Palestinesi stanno soffrendo sotto il colonialismo d’insediamento e che potrebbero essere tagliati fuori dal mondo esterno secondo i capricci di politici israeliani aggressivi.
Sovranità alimentare in Palestina
Il concetto di sovranità alimentare è nato per sfidare la mancanza di una vera sicurezza alimentare. Si basa sui piccoli agricoltori e cerca di costruire una produzione alimentare locale sostenibile. Si concentra anche sul recupero della terra e delle risorse, sulla creazione di una produzione organizzata a livello comunitario e sulla costruzione delle infrastrutture necessarie per sostenere la resistenza. L’adozione di un simile paradigma aiuterà a creare alternative per liberare la manodopera palestinese dall’economia coloniale, sostenere la stabilità degli agricoltori sulla loro terra e respingere l’invasione dei coloni.
La nostra strategia di resistenza economica dovrebbe essere svincolata da motivazioni di puro profitto e porre maggiore enfasi sul valore strategico del controllo della produzione di risorse critiche, come il grano. Anche se questo è più costoso nel breve periodo, deve essere visto come un investimento comunitario in un futuro diverso, dove la resistenza non significhi automaticamente indigenza. Questo va oltre il semplice cambiamento delle abitudini di consumo e dovrà essere accompagnato da un movimento sociale e politico che cerchi di trasformare le comunità palestinesi in centri di resistenza resilienti.
Che cosa c’era in un modesto collettivo lattiero-caseario di 18 mucche a Beit Sahour, durante la Prima Intifada, che lo rendeva una tale minaccia per l’occupazione da non risparmiare alcuno sforzo per farlo chiudere? Cosa c’è oggi nelle aziende lattiero-casearie palestinesi, con migliaia di mucche, che non suscita una risposta simile? Questa è la domanda chiave a cui dobbiamo rispondere.
L’ordine politico degli ultimi 30 anni ha raggiunto la sua fine e rifiutare di riconoscerlo non ci metterà al riparo dalle ripercussioni. Non è riuscito a proteggerci o a offrire una visione per un futuro libero. È comprensibile che una comunità internazionale complice continui a venderci l’illusione di un’occupazione militare temporanea e di due stati, ma ingannare noi stessi è un’altra questione. Dovremmo agire di conseguenza e sostenere – con tutti i mezzi disponibili – un ritorno diffuso alla terra come dinamo per ristabilire l’economia di resistenza del passato e svilupparla per affrontare le sfide del presente.
I palestinesi devono lavorare per sostenere l’infrastruttura per resistere. Dobbiamo nutrirci a vicenda come collettività o morire di fame nei nostri singoli nuclei familiari.
Mondoweiss, 12 settembre 2024.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
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