da The Economist,
18 luglio 2024.
Aiuti, politiche, ricostruzione – tutto è più difficile di quanto sembra.
Dopo quasi trecento giorni, pianificare la fine dei combattimenti comincia a sembrare irreale. Politici e generali parlano di cosa potrebbe succedere quando cesseranno gli attacchi, che vanno avanti dall’inizio della guerra, in ottobre. I diplomatici per mesi hanno fatto la spola in Medioriente per arrivare a un cessate il fuoco. E ancora quel momento non è arrivato, e anche se lo facesse gli ostacoli per una pace duratura sono scoraggianti.
Quando molti funzionari occidentali parlano del “giorno dopo”, hanno in mente uno scenario specifico. Comincia con il potenziamento dell’AP, l’Autorità Palestinese che controlla parte della Cisgiordania, in modo che possa tornare a Gaza e governare anche lì. Israele si impegnerebbe a metter fine alla sua occupazione che dura da mezzo secolo. Questo consentirebbe all’Arabia Saudita, il paese arabo più influente, la normalizzazione dei legami con Israele. Una guerra rovinosa potrebbe così dar luogo a una duratura pace regionale.
Ẻ una visione piena di speranza, ma anche improbabile. Si basa su due presupposti discutibili. Il primo è che i combattimenti a Gaza finiranno davvero – e che ci sarà una linea netta tra la guerra e il dopoguerra. L’altro è che una diplomazia regionale complessa e graduale possa portare un sollievo immediato ai 2,2 milioni di abitanti di Gaza che hanno urgente bisogno di aiuto.
In effetti, il giorno dopo potrebbe assomigliare molto a oggi. Anche se ci fosse una tregua per facilitare un accordo sugli ostaggi, Israele prima o poi riprenderebbe i raid militari a Gaza. Hamas continuerebbe a combattere. Benyamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, non si impegnerebbe per la creazione di uno stato palestinese, bloccando così qualsiasi spinta diplomatica più ampia.
In mezzo a tutto ciò, qualcuno dovrà provvedere alla sicurezza, distribuire aiuti e iniziare a ricostruire un’enclave che è scivolata sempre più nell’anarchia e nella miseria negli ultimi nove mesi. Nessuno ha un piano serio per far sì che tutto ciò accada, ha solo la speranza che qualcun altro lo faccia.
Senza legge, senza casa, senza aiuti
La portata del problema è enorme. Iniziamo dalla sicurezza. Le truppe israeliane controllano due corridoi a Gaza: uno al centro, l’altro lungo il confine con l’Egitto. Il resto del territorio è in gran parte non governato. I criminali rubano gli aiuti umanitari, gestiscono piani di estorsione agli sportelli bancomat e saccheggiano case e negozi in rovina. Ammassati in campi tendati, i civili hanno violente (e talvolta mortali) dispute per il cibo e altre forniture. La polizia che teneva Gaza al sicuro prima della guerra è quasi del tutto scomparsa: ha paura di essere presa di mira da Israele o è impegnata a prendersi cura delle proprie famiglie.
Funzionari di Ramallah, la capitale amministrativa dell’AP, affermano di poter mettere in campo una forza di polizia per il ripristino delle leggi e dell’ordine. L’America è favorevole a questa idea. Il nucleo di questa forza potrebbe essere composto da circa 2500 ex poliziotti che hanno perso il loro lavoro quando Hamas nel 2007 ha sostituito l’AP per il controllo sul territorio. Potrebbero aiutare a ridurre la criminalità, anche se ci vorranno anni per addestrare un numero sufficiente di agenti in grado di pattugliare l’intero territorio.
Ciò che una forza del genere non farebbe, tuttavia, è combattere Hamas. Sebbene Israele abbia ucciso molti dei combattenti e leader del gruppo militante, tra cui, a suo avviso, il capo della sua ala armata, Muhammad Deif, il 13 luglio, ne rimangono molti altri. Quelli che rimangono potrebbero essere disposti a cedere l’autorità civile a Gaza all’AP per lasciare che qualcun altro ripulisca il disastro. Il disarmo è un’altra storia. “Se smettono di resistere, smettono di esistere”, afferma un funzionario dell’AP. “Hamas continuerà a combattere”. Ciò innescherebbe una lotta continua con Israele, che a sua volta condurrebbe operazioni per assassinare i leader di Hamas al fine di impedirne la riorganizzazione.
Hamas rappresenterebbe una minaccia anche per l’Autorità Palestinese. A marzo l’AP ha inviato un gruppo di ufficiali dell’intelligence per accompagnare un convoglio di aiuti umanitari a Gaza, una sorta di piano pilota per vedere se poteva aiutare a garantire le consegne. Quando Hamas ha scoperto il piano, ha arrestato e torturato gli ufficiali, uccidendone tre. Se Hamas dovesse pensare che l’AP sta accumulando troppo potere a Gaza, non esiterebbe ad attaccare il suo rivale.
La soluzione, sostiene un funzionario dell’AP, è quella di portare a Gaza una forza araba di peacekeeping. Hamas non prenderebbe di mira l’AP se avesse il sostegno di potenti stati arabi. “Si tratta di una gestione fiduciaria araba per tre o quattro anni, finché non riusciremo a gestire o giudicheremo di essere in grado di governare Gaza”, afferma.
I politici in Israele hanno una speranza simile. Yair Golan, che guida il partito laburista, pensa che i “paesi sunniti moderati” come l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti aiuterebbero a proteggere e amministrare parti di Gaza. Persone vicine a Netanyahu fanno affermazioni simili. Lo stesso vale per Naftali Bennett, ex primo ministro. “Lavorando con il presidente Sisi in modo intelligente, lui sarebbe disposto a farlo”, afferma, riferendosi al dittatore egiziano. I legislatori israeliani raramente concordano su qualcosa, ma sembrano tutti credere che gli stati arabi si precipiteranno a stabilizzare Gaza.
Gli unici scettici sono gli stessi presunti peacekeeper. Non è che i paesi arabi escludano qualsiasi ruolo a Gaza. Gli stati del Golfo si impegnerebbero per la ricostruzione; la Giordania potrebbe aiutare ad addestrare le forze di sicurezza. Ma non sono propensi a inviare truppe, per paura che vengano viste come complici dell’oppressione israeliana. Anche se si trovassero d’accordo, gli eserciti arabi avrebbero comunque un’esperienza limitata di mantenimento della pace e ancora meno di collaborazione reciproca. Una forza congiunta richiederebbe un grado di cooperazione senza precedenti.
Senza sicurezza, la Gaza del dopoguerra sarà desolante. L’illegalità sta già rendendo difficile per l’ONU la distribuzione di aiuti – e i gazawi non possono sopravvivere senza. Ben il 79% di loro è disoccupato, stima l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. L’economia è stata colpita. Il GDP (il nostro PIL, ndr) si è ridotto dell’84% da ottobre. Gli ospedali hanno smesso di funzionare per la maggior parte; i bambini hanno perso quasi un anno intero di scuola.
Mohammad Mustafa, il Primo Ministro dell’AP, afferma che è pronto a prendere il comando. Sorseggiando un caffè nel suo ufficio a Ramallah, lui e i suoi consiglieri delineano i piani per ripristinare i servizi di base come l’istruzione e l’assistenza sanitaria. “Non stiamo cercando di fare un’acquisizione ostile. Questa è la nostra terra, il nostro popolo”, afferma un altro funzionario palestinese.
Ma è difficile conciliare questo discorso di speranza con la triste realtà dell’AP. È al verde. Israele sta trattenendo circa 6 miliardi di shekel (1,6 miliardi di $) di entrate fiscali che ha riscosso per conto dell’Autorità, una trattenuta fatta in parte per punirla per aver trasferito denaro a Gaza.
La sospensione dei permessi di lavoro per i 160.000 lavoratori palestinesi con un impiego in Israele ha ulteriormente ridotto le entrate. I dipendenti pubblici hanno ricevuto la paga di maggio solo il 10 luglio (e metà ha ricevuto solo una retribuzione parziale). Il Primo Ministro Mustafa e il suo capo, Mahmoud Abbas, il presidente palestinese, sono estremamente impopolari. L’AP, in altre parole, ha a malapena la capacità di governare la Cisgiordania, per non parlare di Gaza.
Anche se lo facesse, Netanyahu non lo permetterebbe. Ha resistito per mesi alle pressioni americane affinché accettasse un ruolo per l’AP in Gaza. Alcuni funzionari israeliani hanno invece avanzato l’ipotesi di creare delle enclave che sarebbero gestite da palestinesi non affiliati ad Hamas. Israele indirizzerebbe gli aiuti verso quelle aree. La gente del posto li distribuirebbe; col tempo sarebbero istituiti sistemi amministrativi ad hoc per fornire servizi di base. L’esercito li chiama “bolle”. Yair Golan, che era vicecapo dell’esercito prima di entrare in politica, si riferisce a loro come “isole di speranza”. “Non è sufficiente distruggere le capacità militari di Hamas”, afferma Golan. “Bisogna fornire un’alternativa”.
Questo è un approccio comune alla contro-insurrezione, solitamente chiamato “strategia a macchia d’inchiostro”. Ma i funzionari palestinesi e occidentali affermano che è una fantasia. Hamas ha già ucciso o aggredito diversi membri di importanti famiglie di Gaza per scoraggiare tale cooperazione. Yoav Gallant, ministro della difesa israeliano, ha sostenuto una versione del piano delle “bolle” per mesi, ma ha trovato pochi volontari. A marzo sei grandi clan hanno rilasciato una dichiarazione pubblica in cui insistevano sul fatto di aver respinto le aperture israeliane.
Né questo genere di amministrazioni locali sarebbe all’altezza del compito di ricostruire Gaza. Più della metà degli edifici nella striscia sono stati distrutti, afferma l’ONU. Circa 400.000 case sono state danneggiate o distrutte. Anche ripulire le macerie sarà una sfida senza precedenti. La guerra ha creato 39 milioni di tonnellate di detriti, più di 107 kg per ogni metro quadrato a Gaza, e 16 volte di più di quanto generato dalla guerra nel 2014.
In aprile la Banca Mondiale ha stimato che i danni alle case, alle aziende e alle infrastrutture nell’enclave sarebbero costati 18,5 miliardi di dollari per la riparazione, pari al 97% del PIL palestinese prima della guerra (e molto di più della produzione odierna). I donatori non contribuiranno molto finché Gaza non avrà sia la sicurezza sia un’amministrazione in grado di supervisionare un vasto sforzo di ricostruzione. “Finché Hamas non se ne sarà andato, nessuno entrerà”, afferma un funzionario vicino a Netanyahu.
Finché ci sarà una possibilità che Hamas si rigeneri, l’IDF ritiene di dover mantenere i suoi corridoi all’interno di Gaza e rafforzare la zona cuscinetto larga un chilometro o più che ha liberato lungo tutto il lato del confine Israele-Gaza Un’analisi di Haaretz, un quotidiano israeliano, ha stimato che le truppe israeliane ora controllano il 26% del territorio di Gaza (v. mappa). Nessuno controllerebbe l’altro 74% e la continua occupazione di Israele costituirebbe un ostacolo ai colloqui per il cessate il fuoco,
C’è anche la questione di chi controlla i valichi di frontiera verso Gaza, attraverso i quali devono passare gli aiuti e, alla fine, i materiali edili per la ricostruzione. Israele è stato riluttante a riaprire i valichi dal suo territorio, che gestivano due terzi delle importazioni a Gaza prima della guerra. Ma vuole anche dire la sua sulla gestione del valico di Rafah con l’Egitto, attraverso il quale Hamas ha fatto passare di nascosto la maggior parte delle sue armi. L’incertezza continuerà a ostacolare i flussi di aiuti.
Il risultato più probabile di tutto questo è che un Hamas malconcio finisca per competere con clan e bande in una Gaza in gran parte senza legge. Criminalità e violenza sarebbero diffuse. I gruppi di aiuti dovrebbero stringere accordi con uomini armati per proteggere i loro convogli. Le organizzazioni di beneficenza cercherebbero di riparare alcuni pezzi di infrastrutture vitali, come gli impianti di desalinizzazione, ma una ricostruzione su larga scala rimarrebbe un sogno lontano. Alcuni funzionari delle Nazioni Unite hanno chiamato questo scenario “Mogadiscio sul Mediterraneo”.
Un’alternativa potrebbe essere chiamata “modello Cisgiordania”. Forse i legislatori israeliani spingerebbero per elezioni anticipate al fine di cacciare l’impopolare Netanyahu dall’incarico, e il suo sostituto consentirebbe un ruolo dell’AP a Gaza, almeno nelle questioni civili. O forse, in mezzo a così tante difficoltà, la necessità costringerà i cittadini di Gaza a collaborare con l’esercito israeliano per riavviare i servizi di base.
Eppure, anche se l’opposizione israeliana riuscisse a sostituire Netanyahu, le prospettive per una soluzione a due stati sono scarse. I leader dei partiti di opposizione ammettono che gli israeliani sono attualmente “troppo traumatizzati” dal massacro del 7 ottobre per contemplare una simile eventualità. Un recente sondaggio commissionato da un think-tank di destra ha riportato che il 64% degli israeliani è contrario a uno stato palestinese, anche se ciò significa rinunciare a uno storico accordo di pace con l’Arabia Saudita.
Quindi Israele finirà probabilmente per essere la potenza occupante a Gaza, proprio come lo è già in Cisgiordania. “Ci saranno palestinesi che controlleranno le funzioni municipali”, afferma Yoaz Hendel, ex ministro israeliano e colonnello di riserva dell’esercito. “Ma potremo entrare e uscire quando vogliamo”. Un’occupazione senza limiti è forse meno terribile dell’anarchia. Ma le speranze di pace regionale saranno infrante e perfino la ricostruzione potrebbe essere lenta. Gli stati del Golfo, ad esempio, affermano che non apriranno i loro libretti degli assegni senza un piano a lungo termine per la statualità palestinese.
Tornare con i piedi per terra
Alla periferia del Cairo, dove la caotica espansione della città cede il passo a un arido deserto, tre donne di Gaza sono fuggite dalla guerra, ma non sono riuscite a mettersi in salvo. Vivono con i loro figli in un appartamento buio, dormendo su materassi donati e cucinando cibo donato in pentole donate. I loro mariti sono ancora a Gaza: era più economico e facile mandare via donne e bambini da soli. La televisione è sintonizzata in modo permanente su Al Jazeera e ogni notizia di un attacco mortale israeliano a Gaza porta con sé un momento di preoccupazione. Sperano di tornare a casa un giorno, ma non se ciò significa tornare a casa in uno squallido campo di tende.
Nessuno sa quanti abitanti di Gaza siano fuggiti in Egitto dall’inizio della guerra. Un’operatrice umanitaria al Cairo afferma che il numero potrebbe essere basso come 80.000 persone, o alto come 300.000, tra il 4% e il 14% della popolazione di Gaza prima della guerra. La maggior parte ha pagato somme esorbitanti per fuggire, fino a $ 5.000 per adulto e $ 2.500 per bambino, a qualche società con stretti legami con i servizi di sicurezza egiziani.
In un altro spoglio appartamento, Maha (non è il suo vero nome) ha una storia tragica e tipica. La sua casa nel centro di Gaza è stata distrutta dai bombardamenti israeliani all’inizio di quest’anno; suo marito è stato ucciso. La vita al Cairo non è stata facile. Senza residenza legale, non può iscrivere i suoi due figli a scuola (stanno seguendo lezioni virtuali tramite una scuola di Ramallah). Ma non ha alcun desiderio di tornare a Gaza, nemmeno dopo la guerra: “Cosa c’è per me? La mia vita è finita”.
Attesa, paura, dolore: questa è la vita dei cittadini di Gaza, dentro e fuori l’enclave. Parlare del giorno dopo la guerra sembra un’astrazione senza speranza.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire. Nel caso specifico, AssopacePalestina non condivide l’articolo nel suo insieme, ma può essere utile conoscere le posizioni che circolano.
.