Jacobin, 28 aprile 2024.
Mentre i palestinesi fanno i conti con il genocidio che viene loro inflitto e con le loro prospettive di liberazione nazionale, appiattire la loro diversità politica e i complessi dibattiti in corso rende loro un cattivo servizio.
Dal 7 ottobre, all’interno della sinistra è stato difficile esprimere qualsiasi valutazione critica dell’operazione militare di Hamas: il suo metodo, la sua razionalità e i suoi obiettivi, o il suo ruolo nel porre fine all’occupazione israeliana. Questo non solo perché è una potenza occupante ad essere, in ultima analisi, responsabile di questo status quo distruttivo, ma anche perché criticare le tattiche di un gruppo che agisce in nome degli oppressi è visto come una minaccia alla loro giusta causa.
Questa situazione è aggravata da numerosi intellettuali di sinistra che hanno espresso un sostegno incondizionato – se non addirittura una celebrazione – per l’attacco di Hamas. Un recente post sul blog Verso Books inserisce un movimento religioso socialmente regressivo come Hamas nella tradizione emancipatrice universale della sinistra, affermando che “quelli che il 7 ottobre sono volati in Israele col parapendio continuano l’associazione rivoluzionaria tra liberazione e volo”.
Andreas Malm ha suggerito che l’operazione Al-Aqsa Flood ha ottenuto di più della Prima Intifada perché i palestinesi sono riusciti a sostituire le pietre con armi militari – ignorando che l’intifada è stata il più grande movimento di massa anticoloniale auto-organizzato della storia palestinese e che ha costretto Israele a fare concessioni politiche senza precedenti. In effetti, sostenere che Hamas sia riuscito a ottenere di più significa ignorare completamente che il suo attacco militare ha innescato un enorme genocidio contro il popolo palestinese.
Come ha sostenuto Rashid Khalidi, “guardando indietro agli ultimi sei mesi – al crudele massacro di civili su una scala senza precedenti, ai milioni di persone rimaste senza casa, alla carestia di massa e alle malattie indotte da Israele – è chiaro che questo segna un nuovo abisso in cui è sprofondata la lotta per la Palestina”. Tom Segev concorda: “Per i palestinesi, la guerra di Gaza è l’evento peggiore che hanno vissuto in 75 anni. Non ne uccise e sradicò così tanti la nakba, la catastrofe che li colpì durante la guerra di indipendenza di Israele nel 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case e a diventare rifugiati”.
Oltre alle voci individuali, si è assistito a una celebrazione acritica di Hamas anche in alcune delle pur suggestive mobilitazioni di solidarietà degli ultimi giorni. “Noi diciamo giustizia, e voi [Hamas] come dite? Mandate in cenere Tel Aviv!”, si sente cantare in un video.
Tali slogan, per quanto rari, minano la causa palestinese. Sostenere la Palestina significa porre fine a un’occupazione illegale e ritenere Israele responsabile della violazione del diritto internazionale. Non si tratta di sostenere l’uccisione di civili israeliani o la distruzione di città israeliane. Sostenere il diritto internazionale significa sostenerlo per tutti.
Questo tipo di retorica riduce un’intera gamma di posizioni politiche che esistono in Palestina in ciò che dice e fa un gruppo militante. Presuppone inoltre che Hamas parli e agisca sempre a nome di tutto il popolo palestinese, semplicemente perché ha vinto le elezioni (con il 45% dei voti) nei Territori palestinesi occupati nel 2006 (principalmente come voto di protesta contro la corruzione dell’Autorità Palestinese e la sua capitolazione a Oslo).
Una vittoria elettorale di Hamas non è quindi un assegno in bianco per l’eternità. Questo è particolarmente vero perché nel governare Gaza, Hamas ha dimenticato la democrazia, ha fatto ricorso all’autoritarismo e alla corruzione e ha represso l’organizzazione politica e il dissenso. Parlare apertamente o esprimere le proprie opinioni politiche è costato caro a molti palestinesi di Gaza. Ma il loro silenzio non è un sostegno ad Hamas.
Due recenti articoli apparsi sulla stampa tradizionale dimostrano quanto sia importante ascoltare le voci dei palestinesi di Gaza che stanno subendo le condizioni estreme di genocidio, carestia e fame instaurate dall’esercito di occupazione israeliano.
Il Financial Times ha recentemente pubblicato un rapporto sull’opinione pubblica a Gaza, una lettura che fa riflettere. Mentre i palestinesi di Gaza incolpano chiaramente Israele per l’attuazione di una catastrofe umana a Gaza, cresce la rabbia e il risentimento anche nei confronti di Hamas per non aver previsto la portata della rappresaglia israeliana per gli attacchi del 7 ottobre e per non aver protetto i palestinesi durante la guerra.
Un intervistato, Nassim, dice apertamente che Hamas “avrebbe dovuto prevedere la risposta di Israele e pensare a cosa sarebbe successo ai 2,3 milioni di gazawi che non hanno un posto sicuro dove andare” e “avrebbe dovuto limitarsi agli obiettivi militari”.
Un’altra intervistata, Samia, è ancora più severa. “Il ruolo della resistenza è quello di proteggere noi civili, non di sacrificarci”, ha detto. “Non voglio morire e non volevo che i miei figli fossero testimoni di ciò che hanno visto e che dovessero vivere in una tenda soffrendo la fame, il freddo e la povertà”.
Queste critiche sono in linea con quanto molti palestinesi di Gaza hanno postato sui social media negli ultimi mesi. È stata anche rappresentata nel reportage critico della giornalista veterana anti-occupazione Amira Hass.
In un recente articolo pubblicato su Haaretz, Hass coglie il malcontento e le critiche popolari nei confronti dell’operazione di Hamas e di quella che viene vista come una modalità di resistenza armata dai costi altissimi contro un esercito israeliano nettamente superiore. I palestinesi di Gaza si lamentano apertamente della loro mancata sicurezza e mancata protezione dalla prevista punizione di Israele e dell’assenza di “una chiara pianificazione della strategia politica” da parte di Hamas.
Ciò che più preoccupa un intervistato, Basel, è che le sue critiche ad Hamas e al suo approccio alla resistenza vengono tacciate di tradimento. Come spiega Hass, “è arrabbiato perché i palestinesi fuori da Gaza e i loro sostenitori si aspettano che i gazawi stiano zitti e non critichino Hamas, perché la critica apparentemente aiuta il nemico. Rifiuta l’ipotesi che dubitare delle decisioni e delle azioni di questo gruppo armato – e farlo pubblicamente – sia un atto di tradimento”.
Queste voci critiche sono coerenti con i più recenti sondaggi di opinione condotti nei Territori occupati. Sebbene i sondaggi in tempo di guerra siano soggetti a problemi e fluttuazioni estreme, soprattutto a Gaza, dove la paura e il silenzio politico sono fattori importanti da considerare per valutare l’accuratezza delle risposte, è possibile individuare alcune tendenze coerenti.
I sondaggi mostrano che l’indice di gradimento di Hamas a Gaza negli ultimi mesi è diminuito di 11 punti, scendendo a un terzo del totale. C’è stato anche un calo generale del sostegno alla lotta armata. In risposta alla domanda “Secondo te, qual è il mezzo migliore per raggiungere gli obiettivi palestinesi di porre fine all’occupazione e costruire uno stato indipendente?”, il sostegno alla lotta armata è diminuito sia in Cisgiordania che a Gaza, passando dal 63% di dicembre al 46% di marzo. Solo a Gaza si è passati dal 56% al 39%. Lo stesso Hamas ha appena ribadito la sua disponibilità a deporre le armi e ad accettare un cessate il fuoco a lungo termine con Israele in cambio di uno stato entro i confini del 1967.
Anche a Gaza si è registrato un drammatico aumento del sostegno alla soluzione dei due stati: dal 35% di dicembre al 62% di marzo. Questo rimane vero anche se la maggioranza dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza riconosce gli impedimenti pratici a tale soluzione, ovvero l’espansione del progetto di insediamento di Israele. Ciò indica comunque che i palestinesi di Gaza sperano che l’attenzione internazionale e la pressione politica esterna su Israele possano produrre risultati.
Tra i palestinesi sotto occupazione il sostegno alla soluzione di uno stato unico è sceso al 24% durante la guerra a Gaza. La maggior parte dei palestinesi occupati vuole separarsi da Israele e vivere in un proprio stato, e vuole liberarsi degli insediamenti illegali in Cisgiordania. Il progetto coloniale viola i diritti dei palestinesi secondo il diritto internazionale, in particolare il diritto all’autodeterminazione.
Inoltre, durante questa guerra gli israeliani hanno disumanizzato la società palestinese ai livelli più estremi. Seguendo i suggerimenti della loro élite aggressiva e dei media guerrafondai (saturi di ex militari ed esperti di sicurezza), gli israeliani hanno sostenuto in modo schiacciante la decimazione a Gaza. Ciò che preoccupa maggiormente gli israeliani sono gli ostaggi, non la guerra. Le vite degli ostaggi israeliani sono importanti, mentre i palestinesi sono, nelle parole del ministro della Difesa israeliano, “animali umani”.
Motivato dalla vendetta e dal castigo, Israele è una società narcisistica che si crogiola nel proprio dolore e lo usa come scusa per i suoi crimini monumentali contro il popolo palestinese. I palestinesi trovano Israele crudele, insensibile e orribile, e il loro primo pensiero è “proteggimi da Israele”. È questa la società israeliana con cui i palestinesi dovrebbero convivere in modo dignitoso e con pari diritti?
Qualunque sia il futuro, i palestinesi devono poter affrontare la loro devastante situazione collettivamente, democraticamente e senza paura. Insistere su questo punto significa promuovere il loro diritto all’autodeterminazione.
Bashir Abu-Manneh è responsabile di materie classiche, inglese e storia presso l’Università del Kent e collaboratore di Jacobin.
https://jacobin.com/2024/04/gaza-left-hamas-occupation-war-solidarity
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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