“La prima cosa che un medico vuol fare è alleviare il dolore di qualcuno. A Gaza, questo è impossibile”

Feb 18, 2024 | Notizie

di Amira Hass,

Haaretz, 17 febbraio 2024.   

“La catastrofe a Gaza è peggiore di qualsiasi cosa io abbia mai visto”, afferma in un’intervista ad Haaretz il dottor James Smith, medico volontario in un pronto soccorso di Deir al-Balah. L’entità della morbidità indiretta diventerà chiara solo in futuro, aggiunge.

Un operatore della Mezzaluna Rossa trasporta un bambino in ospedale dopo un bombardamento a Deir al-Balah, dicembre 2023. Palestine Red Crescent Society

Il dottor James Smith ha assistito alla stessa scena più volte al giorno: i residenti della Striscia di Gaza trasportavano le vittime dei bombardamenti israeliani, avvolte in coperte, e le deponevano sul pavimento dell’ospedale. “Fino a quando non srotolavamo le coperte, non sapevamo se la persona all’interno fosse stata ferita o uccisa”, ha detto in un’intervista 10 giorni dopo il suo ritorno a Londra. Ha lavorato a Gaza come volontario a fine dicembre e inizio gennaio.

“La gente portava anche i morti, in modo che la loro morte fosse registrata e venissero sepolti”, ha detto. “E poiché di solito vengono trovati tra le macerie, sono tutti coperti di polvere”.

Smith è arrivato a Gaza come parte di una delegazione medica d’emergenza organizzata congiuntamente da Medical Aid for Palestinians (MAP), con sede a Londra, e dall’International Rescue Committee (IRC). Decine di sanitari come lui entrano a Gaza ogni settimana. I volontari tornano tutti nei loro paesi con la stessa conclusione: di tutte le zone di guerra in cui hanno prestato servizio volontario, comprese Siria e Ucraina, è a Gaza che la loro capacità di salvare vite umane è stata più limitata.

Smith, specialista in medicina d’urgenza, ha lavorato anche per Medici Senza Frontiere. Ma “la catastrofe a Gaza è peggiore di qualsiasi cosa io abbia mai visto”, ha detto. Questo non fa che aumentare la sua motivazione a tornare a Gaza nonostante la costante frustrazione.

“La prima cosa che un medico vuol fare”, ha detto, “è alleviare il dolore di una persona. Ma senza personale, attrezzature e farmaci sufficienti -soprattutto gli antidolorifici di cui hanno bisogno i malati e i feriti di Gaza- questo è impossibile”.

Trattamento dei feriti all’ospedale Nasser di Khan Yunis. MAP/IRC

L’impotenza dei medici è stata traumatica per tutti, ha detto. “Si attraversa una doppia crisi: la portata della violenza stessa e la nostra incapacità di rispondere e provvedere ai bisogni più elementari delle persone”, ha detto.

“I media mondiali parlano soprattutto di aiuti e questo crea la falsa impressione che la situazione stia migliorando. Ma all’interno di Gaza, tutti sanno che, finché la guerra continuerà e non ci sarà un cessate il fuoco, non sarà possibile accedere ad aiuti umanitari degni di questo nome”.

Smith, 35 anni, è anche docente di politica e pratica umanitaria all’University College di Londra. Ha trascorso tutte le sue ore di lavoro a Gaza nel pronto soccorso dell’ospedale Shuhada al-Aqsa di Deir al-Balah.

Ha subito scoperto che i feriti portati in ospedale non avevano ricevuto il primo soccorso prima di essere caricati su un’ambulanza o su un veicolo personale. Nel timore che l’esercito israeliano bombardasse un’area o un edificio una seconda volta, i soccorritori hanno dovuto portare i feriti in ospedale senza stabilizzarli sul posto. Di conseguenza, molti sono morti durante il tragitto verso l’ospedale.

Ogni giorno si verificano diverse uccisioni collettive nei pressi o all’interno di Deir al-Balah. Quando Smith era lì, l’ospedale era così sovraffollato che i feriti potevano essere curati solo sul pavimento.

Anche molti pazienti con precedenti malattie venivano portati da lui perché il sistema di medicina preventiva era completamente collassato. I bombardamenti hanno distrutto le cliniche, il personale medico è stato sfollato, ucciso o ferito e i farmaci scarseggiano. Anche il Pronto Soccorso è stato quindi invaso da persone che, pur potendo camminare, lamentavano dolori o malattie.

“Abbiamo dato a tutti loro un primo soccorso di base, perché il personale era sommerso di lavoro”, ha detto Smith. “Li abbiamo mandati a cercare le medicine nelle farmacie”. Ma non era detto che ne avrebbero trovate.

Feriti palestinesi all’ospedale Al-Aqsa di Deir al-Balah. Stringer/Reuters

L’ospedale ospitava 650 pazienti nel periodo in cui vi lavorava, quasi il triplo dei 250 posti letto. E poiché le persone ritenevano che l’edificio fosse più sicuro di una tenda o di una scuola, molti continuavano a rimanere lì anche dopo le cure. A loro si aggiungevano i familiari e le persone sfollate perché ordinate dai militari di lasciare le loro case. Di conseguenza, l’ospedale ha affittato diversi edifici nelle vicinanze. Ma coloro che vi si sono rifugiati hanno scoperto che né l’ospedale né gli edifici affittati erano sicuri per l’avvicinarsi delle battaglie e i frequenti bombardamenti.

Il primo giorno di lavoro di Smith in ospedale era il 27 dicembre. “Non riesco a ricordare cosa sia successo quel giorno”, ha detto, ma ricorda che c’è stato un episodio con uccisioni di massa.

Durante i primi giorni di permanenza a Gaza, non riusciva a ricordare ciò che era accaduto il giorno precedente. “La cosa mi inquietava, perché pensavo che questa dimenticanza fosse una sorta di mancanza di rispetto per i pazienti”, ha detto. Ma lo shock iniziale, il caos e il ronzio incessante dei droni forniscono una spiegazione migliore per la sua dimenticanza.

“Il ronzio inquietante dei droni è stata la prima cosa che ho notato e ho capito subito la minaccia che rappresentava”, ha raccontato. “A volte, due droni volteggiavano sopra una certa area e i miei colleghi, che ci erano abituati, ipotizzavano che il luogo sarebbe stato presto attaccato. Gli adulti, così come i bambini, sapevano distinguere tra i diversi tipi di bombe e granate”.

La sua difficoltà a ricordare probabilmente derivava anche dalla mancanza di sonno durante i primi giorni, mentre gli attacchi aerei scuotevano l’intero edificio. Erano particolarmente intensi di notte e quasi incessanti. “Ricordavo molto bene questo numero: 374 operatori sanitari uccisi dagli attacchi aerei israeliani”, ha detto. Ma alla fine la stanchezza ha avuto la meglio ed è riuscito ad addormentarsi.

Nonostante questi problemi, alcuni episodi sono rimasti impressi nella sua memoria. C’era, ad esempio, un volontario dell’UNRWA (l’agenzia delle Nazioni Unite che aiuta i rifugiati palestinesi) che “giaceva a terra, sanguinante, e chiedeva continuamente acqua. Aveva le gambe amputate. Gli arti amputati a causa di un missile o di una scheggia di bomba sono molto comuni.

“Ricordo che mi sono chinato e gli ho tenuto la mano. Credo che avessimo un po’ di morfina per lui. È rimasto lì per diverse ore. Ma non riuscirono a operarlo e morì. Ci sono stati altri che sono morti perché non sono stati portati in tempo nella sala operatoria sovraccarica”.

Ricorda anche una donna ricoverata con ferite aperte e una frattura composta alla gamba. “Chiedeva continuamente: ‘Cosa è successo alla mia gamba? Cosa è successo alla mia gamba?’. Siamo riusciti a darle antidolorifici e liquidi e a pulirle gli occhi in modo che potesse vedere cosa le era successo”.

Ricorda le urla di dolore dei feriti. “Spesso, quando la ferita è particolarmente grave, i pazienti non sono completamente coscienti”, ha detto. “In particolare, i bambini con ferite gravi erano silenziosi, perché avevano perso conoscenza. Chi fa il triage impara subito a prestare attenzione ai pazienti silenziosi. Quelli che urlano non sono necessariamente nelle condizioni peggiori”.

Interno dell’ospedale Nasser a Khan Yunis. MAP/IRC

In un giorno in cui erano avvenute uccisioni di massa, un bambino di 6 anni è stato portato in ospedale, avvolto in una coperta colorata e posto sul pavimento. “C’erano delle persone intorno a lui, quindi ho pensato che fossero i suoi parenti e che lo stessero curando”, ha detto il medico. Quando i parenti di un paziente sono con lui, ha detto Smith, cercano di fare pressione e di chiedere un trattamento. Il loro intervento è particolarmente necessario quando il Pronto Soccorso è caotico perché “è terribilmente difficile prestare attenzione a tutti quando ci sono centinaia di persone”.

Dopo un po’, uno dei chirurghi entrò per caso nel pronto soccorso e si accorse che il ragazzo non stava ricevendo alcuna cura. Si avvicinarono a lui. Aveva ustioni sul viso e una ferita gorgogliante sul lato destro del torace, indicando che era stato raggiunto il polmone. “Il ragazzo è stato operato e quando ho lasciato l’ospedale era ancora vivo”, ha detto Smith.

Il suo ultimo paziente è stato un ragazzo di 12 anni a cui avevano sparato vicino al campo profughi di Nuseirat. “Suo fratello l’ha trovato e l’ha portato su un carretto attaccato a un asino”, ha raccontato. “Aveva terribili ferite aperte nel bacino, sul lato destro. Aveva perso molto sangue ed era molto pallido. Gli abbiamo fatto una trasfusione; ha ricevuto il necessario primo soccorso ed è stato trasferito in un letto fuori dal reparto di emergenza. Sembrava che si stesse riprendendo. Sapevo che alla fine avrebbe avuto bisogno di un innesto chirurgico”.

“Non l’ho visto per qualche ora. Ma poco prima di lasciare l’ospedale l’ho visitato di nuovo. Era di nuovo molto pallido. E poi ho scoperto una pozza di sangue nell’avvallamento del letto sotto la sua schiena. Suo padre era accanto a lui e piangeva”.

Ospedale Al-Aqsa a Deir al-Balah. Stringer/Reuters

I medici hanno fasciato la ferita (non c’erano garze) e hanno cercato altro sangue da somministrare. “Ho detto a suo padre: ‘Appena avremo del sangue, starà bene’. Suo padre mi ha baciato”.

Smith ha visto anche molti pazienti che “in qualsiasi altra situazione non si sarebbero ammalati, o le cui condizioni non sarebbero peggiorate così tanto, perché non hanno visto un medico, non hanno trovato medicine, non hanno mangiato abbastanza per giorni, o hanno bevuto acqua inquinata … Alcune persone sono arrivate con dolori al petto, altre hanno avuto un attacco di cuore.

“Ho visto un uomo di 50 o 60 anni che è stato portato in ospedale morto. La sua famiglia ha detto che era semplicemente caduto morto in mezzo alla strada. Ho visto due malati di reni che avevano saltato i loro regolari trattamenti di dialisi”. L’esercito israeliano aveva circondato l’ospedale dove venivano effettuati i trattamenti.

Ha visto persone con diabete che non avevano ricevuto le medicine necessarie o non avevano ricevuto il dosaggio corretto. “In una situazione di fame – e tutti coloro che sono venuti in ospedale erano affamati – il dosaggio è completamente diverso”, ha detto.

“Ciò che rimane sconosciuto è l’entità della morbidità indiretta che si è sviluppata durante la guerra e che esploderà in seguito: malattie croniche che non sono state curate, gli effetti della fame, della sete e della malnutrizione sulla salute delle persone”, ha aggiunto. “Questo diventerà chiaro solo negli anni a venire”. A ciò si aggiunge il fenomeno dello Stress Post-Traumatico, di cui non avevamo nemmeno parlato.

Ospedale Al-Aqsa a Deir al-Balah. Stringer/Reuters

Smith ha notato i segni di questo fenomeno non appena è entrato a Gaza. Lo ha visto nei volti inespressivi e in una sorta di immobilità in mezzo a tutto il caos. “Non si trattava di accettazione, ma di shock collettivo”, ha detto. “Un medico dell’ospedale si è avvicinato a me il secondo giorno dopo il mio arrivo, un medico che aveva lavorato ininterrottamente per 10 settimane. Mi ha chiesto da dove venissi e poi mi ha chiesto: “Perché il mondo odia noi palestinesi?”. Per me, questo riassumeva lo sconforto e lo svuotamento generale”.

Inoltre, anche i bambini non feriti soffrono di un’ansia incessante. Ciò è reso evidente dalle manie nervose che hanno sviluppato. “Il figlio di un membro del personale medico locale, che viveva nel mio stesso complesso, una volta ha aiutato la madre a preparare un impasto”, racconta Smith. “Ha insistito per farlo a forma di carro armato. Per quanto giovani, questa guerra segnerà per sempre la vita di questi bambini”.

In mezzo a tutto il caos e allo shock collettivo, i medici palestinesi erano sempre lì, ha continuato, anche se il loro numero era diminuito a circa un quarto di quello che era prima della guerra. “Ricevevano una sorta di stipendio, qualcosa come 100 dollari al mese, lavoravano quasi ininterrottamente e non lasciavano l’ospedale”.

“Il secondo o terzo giorno abbiamo incontrato una dottoressa che aveva lasciato l’ospedale di Khan Yunis in cui lavorava perché ormai non era sicuro. Si è presentata al pronto soccorso di Al-Aqsa e si è offerta di lavorare con noi.

Ha detto che la sua famiglia era stata sfollata e viveva in una tenda. Un giorno non si è presentata e ci ha detto che ha dovuto cercare acqua e cibo per la sua famiglia. Mi ha raccontato di avere un’ardente nostalgia della sua vita precedente e dei suoi amici, e ha detto: “Temo che questa sarà la nuova normalità e che noi saremo i prossimi a morire”.

Come ogni medico straniero che ha fatto volontariato a Gaza, Smith è impressionato dagli operatori sanitari palestinesi. La loro dedizione ai malati e ai feriti è incredibile, ha detto.

Pazienti all’ospedale Al-Aqsa di Deir al-Balah. Stringer/Reuters

La sua squadra ha dovuto lasciare Gaza prima del previsto, con suo grande rammarico. Il 6 gennaio sono stati informati che l’IDF aveva lanciato dei volantini che ordinavano a tutti gli abitanti degli edifici intorno all’ospedale – molti dei quali già sfollati una prima volta – di lasciare l’area.

I volontari medici vivevano in un complesso residenziale nella piccola area di Al-Mawasi, a sud di Deir al-Balah, insieme alle famiglie dei dipendenti palestinesi. Ogni giorno si recavano all’ospedale attraversando quartieri che erano destinati a ricevere bombardamenti israeliani. Inoltre, come avvenuto in altri luoghi, era chiaro che il passo successivo sarebbe stato l’accerchiamento dell’ospedale stesso e la richiesta di lasciare la struttura.

Di conseguenza, l’intera delegazione di medici d’emergenza in cui era volontario non è più tornata all’ospedale Al-Aqsa. Anche al personale medico locale è stato impedito di andarci, malgrado che centinaia di pazienti fossero rimasti all’interno. Tra questi c’era un’impiegata del Medical Aid for Palestinians (MAP), rimasta ferita in un attacco aereo che ha colpito l’edificio in cui lei e la sua famiglia alloggiavano da quando erano sfollati. Alcuni dei suoi parenti, tra cui tre sorelle, sono rimasti uccisi nel bombardamento.

Parenti di altri membri del personale locale del MAP e dell’IRC (International Rescue Committee) sono stati feriti il 18 gennaio quando un attacco aereo ha colpito quello stesso complesso abitativo ad Al-Mawasi. Il complesso è stato danneggiato ed è stato necessario evacuarlo. Sei dipendenti stranieri sono stati costretti a lasciare Gaza e la loro missione è rimasta inattiva per diverse settimane. Dopo un’indagine di circa due settimane, le organizzazioni hanno rilasciato una dichiarazione stampa in cui si affermava esplicitamente che le schegge del bombardamento provenivano da munizioni in possesso solo dell’esercito israeliano.

L’unità portavoce dell’IDF ha dichiarato che le coordinate del complesso danneggiato fornite da Haaretz (che le aveva ricevute dal MAP) si trovavano al di fuori di Al- Mawasi ed erano in una zona di combattimento attivo che i militari avevano chiesto ai residenti di evacuare.

Il MAP ha respinto questa affermazione, affermando che il complesso, che batteva le bandiere del MAP e dell’IRC, era stato sottoposto a “deconflicting“, un processo di informazione e autorizzazione che ha lo scopo di mantenere il personale umanitario e le installazioni al riparo dagli attacchi.

Anche il Ministero degli Esteri e il Parlamento britannico sono stati coinvolti nel tentativo di ottenere risposte dalle autorità israeliane. Tuttavia, Israele ha fornito differenti spiegazioni per l’attacco al complesso, ha riferito Haaretz. Una fonte militare ha dichiarato ad Haaretz che l’edificio non è stato colpito, ma che un problema tecnico ha fatto sì che gli esplosivi arrivassero sul posto.

https://www.haaretz.com/middle-east-news/palestinians/2024-02-17/ty-article-magazine/.premium/the-first-thing-a-doctor-wants-to-do-is-ease-someones-pain-in-gaza-thats-impossible/0000018d-b786-dbbd-a5dd-f7c7b0400000?utm_source=push_notification&utm_medium=app_push&darkMode=true?utm_source=App_Share&utm_medium=iOS_Native

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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