Ripristinare il passato non libererà la Palestina

Feb 20, 2024 | Notizie, Riflessioni

di Lydia Polgreen,

The New York Times, 18 febbraio 2024. 

Shuhua Xiong

Tra le immagini grafiche, le feroci polemiche e le infinite critiche che hanno dominato i miei feed sui social media dall’inizio della guerra a Gaza alla fine dello scorso anno, ho notato che è emerso un argomento apparentemente bizzarro: il cancro alla pelle in Israele.

“Non siete indigeni se il vostro corpo non è in grado di tollerare il clima della zona”, recitava uno di questi post, evidenziando obsolete notizie secondo cui gli israeliani avrebbero tassi insolitamente alti di cancro alla pelle. (Non è vero.) Il cancro alla pelle, sostenevano questi post, era la prova che gli ebrei israeliani non erano nativi della terra tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, ma erano in realtà europei bianchi senza alcun legame ancestrale con la regione, autori di uno dei peggiori crimini dell’era moderna: il colonialismo d’insediamento.

Da un certo punto di vista, le affermazioni sul cancro alla pelle – come quelle analoghe sulla cucina e sui cognomi israeliani – sono sciocchi spunti di riflessione sui social media da parte di guerrieri da tastiera che lanciano hashtag, ipnotizzati da teorie di liberazione basate su meme di citazioni di Frantz Fanon estrapolate dal contesto. Di fronte al massacro in corso a Gaza – più di 28.000 morti, per lo più donne e bambini – questo atteggiamento può sembrare banale. Ma anche, o forse soprattutto, in questo momento, quando la situazione è così cupa, il modo in cui parliamo di liberazione è importante. Trovo che questo tipo di discorso sia rivelatore di una tendenza più ampia nella sinistra di questi giorni, che proviene da teorie importanti e complesse nell’accademia, ma che si riflette in forme rozze e riduttive nei meme e negli slogan delle proteste pro-Palestina: un insieme sempre più rigido di idee sul colonizzatore e sull’indigeno colonizzato. Secondo questa analisi, esistono due tipi di persone: coloro che sono nativi di una terra e coloro che la colonizzano, spostando gli abitanti originari. Queste identità sono fisse, essenziali, eterne.

Ho trascorso gran parte della mia vita e della mia carriera vivendo e lavorando tra i popoli un tempo colonizzati che cercavano di crearsi una strada all’indomani dell’impero. La rapace spartizione di gran parte del globo, il genocidio e la riduzione in schiavitù di milioni di persone da parte di un manipolo di potenze europee per il proprio arricchimento sono stati il grande crimine della prima modernità. Le icone che si sono liberate dal giogo dell’oppressione coloniale – tra cui Kwame Nkrumah del Ghana, Jawaharlal Nehru dell’India e Fanon – sono state i miei eroi d’infanzia e rimangono i miei punti di riferimento intellettuali. Ma a volte faccio fatica a riconoscere il loro spirito e le loro idee nel modo in cui oggi parliamo di decolonizzazione, mettendo un’enfasi speciale nel determinare chi è e chi non è un abitante indigeno delle terre conosciute come Israele e Palestina.

Buona parte dell’antipatia nei confronti degli ebrei israeliani oggi è sostenuta e alimentata, credo, da qualcosa che ad alcune orecchie suona progressista: l’idea che i popoli e le terre che sono stati colonizzati debbano essere restituiti alle loro popolazioni indigene e al loro stato originario. Ma questa convinzione, se presa alla lettera, è nel migliore dei casi una sorta di originalismo di sinistra [l’originalismo è una corrente giuridica americana secondo cui si deve interpretare alla lettera il testo originale della Costituzione, NdT], una politica utopica che crede che il passato risponda a tutte le domande del presente. Nel peggiore dei casi è un’eco di sinistra alle fantasie ancestrali dell’estrema destra, secondo cui chi può vivere in quali luoghi è una questione di legame del proprio sangue con un particolare lembo di terra.

Nell’enfasi sull’indigenità è implicita una promessa di restaurazione, anche se di tipo molto diverso dalle fantasie imperiali di Vladimir Putin o dalle ossessioni sul gender di Ron DeSantis. La decolonizzazione “non è la conversione della politica indigena a una dottrina occidentale di liberazione; non è un processo filantropico di ‘aiuto’ ai soggetti a rischio e di alleviamento delle sofferenze; non è un termine generico per indicare la lotta contro condizioni e risultati oppressivi”, come scrivono gli studiosi Eve Tuck e K. Wayne Yang in un influente articolo accademico pubblicato nel 2012, “La decolonizzazione non è una metafora.”

“L’ampio ombrello della giustizia sociale può avere spazio per tutti questi sforzi”, scrivono Tuck e Yang. “Al contrario, la decolonizzazione richiede specificamente il rimpatrio della terra e della vita degli indigeni”.

Non c’è forse questione più spinosa al mondo di come questo possa avvenire in Israele e in Palestina. Non c’è dubbio che i palestinesi abbiano vissuto a lungo nella terra che è diventata Israele. Gli ebrei hanno radici storiche profonde in quella terra, ma la stragrande maggioranza delle persone che hanno fondato lo Stato di Israele provenivano da altri luoghi, fuggendo da genocidi e persecuzioni in Europa o costretti all’esilio da nazioni del Medio Oriente e del Nord Africa. È impossibile separare la nascita di Israele dagli ultimi sussulti del vecchio ordine coloniale. Si è trattato, nella frase indelebile di Arthur Koestler, di “una nazione che ha promesso solennemente a una seconda nazione il paese di una terza” [allusione alla “Dichiarazione Balfour”, NdT].

In teoria, la decolonizzazione include il disconoscimento dell’idea stessa di terra come proprietà, di nozioni moderne come la nazione e la cittadinanza. In teoria, è un’occasione per rifare tutto da capo e rigiocare la storia con il beneficio di avere la guida delle idee e delle tradizioni indigene.

Ma la storia non funziona così. Le persone fanno cose cattive. Altre persone resistono a quelle cose cattive. Gli uomini inventano e scoprono, creano e distruggono. Non si può tornare indietro a uno stato mitico. Non c’è restaurazione. Gli eventi che si susseguono nel tempo plasmano la terra e le persone che la abitano, e queste persone si plasmano a vicenda in modi molteplici, alcuni brutali e distruttivi, altri generativi e amorevoli. Ma il tempo e l’esperienza fanno sì che nulla possa più essere come prima dell’ultima cosa che è accaduta.

***

Mentre riflettevo su questi problemi, mi sono imbattuto in una serie di post sui social media sul colonialismo d’insediamento di Iyad el-Baghdadi, uno scrittore e attivista palestinese il cui lavoro è stato per me una guida indispensabile nella crisi attuale. Gli ho inviato un’e-mail e lui ha accettato di parlare con me per approfondire le sue idee. Gli ho spiegato il mio disagio nel fare affidamento su concetti come l’indigeneità per decidere chi ha il diritto di vivere in un luogo.

“Non prendere queste persone sul serio”, mi ha detto, anche se ha chiarito di avere una certa simpatia per coloro che esprimono tali opinioni. “Non sono realmente motivati da una qualche ideologia. Sono davvero motivati dalle emozioni e mettono insieme un’ideologia per soddisfare le loro emozioni, ma poi le emozioni, per loro natura, non possono essere soddisfatte in questo modo”. Mi ha detto che a volte, quando sente qualcuno che parla di liberazione palestinese, è quasi come se si aspettasse una letterale inversione del 1948, di quella che i palestinesi chiamano la “nakba”, o catastrofe, della loro espulsione al momento della fondazione dello Stato di Israele.

“È come se ci fosse un momento magico e tutti i nostri villaggi riapparissero dalla terra. E poi 75 anni di colonialismo d’insediamento scompariranno”, ha detto. “Ma questa idea romantica è in realtà un trauma non elaborato”.

Le questioni relative all’indigeneità sono semplicemente una distrazione, ha detto, dalla vera sfida di costruire un potere politico palestinese. “Non mi interessa se sono dei coloni o meno”, ha detto. “La soluzione non è cercare costantemente di moralizzare. La soluzione è risolvere lo squilibrio di potere. Il futuro deve essere radicato nella verità che tutti gli esseri umani sono uguali, e che la vita ebraica è equivalente a quella palestinese, e che possiamo lavorare insieme a un futuro in cui nessuno sia oppresso e possiamo affrontare le iniquità del passato”.

Alla fine, la nostra conversazione si è concentrata su Fanon, i cui scritti sulla violenza politica sono ora di nuovo in voga, ripresi con alacrità dagli attivisti che si concentrano sull’annullamento del colonialismo d’insediamento – anche, o forse soprattutto, se ciò richiede uno spargimento di sangue.

“La gente lo sta davvero usando per dare una sorta di legittimità intellettuale alla violenza politica”, ha detto. “E lo trovo davvero, davvero osceno. Quando leggo Fanon, penso che stia parlando di potenza. In realtà non sta parlando di violenza. La violenza è l’idea che una persona debole ha della propria potenza”.

Fanon, psichiatra diventato figura politica anticoloniale, aveva molto da dire sulla violenza. Nel suo libro “I dannati della terra” scrisse che “la violenza è una forza purificatrice. Libera il nativo dal suo complesso di inferiorità, dalla sua disperazione e dall’inazione; lo rende impavido e gli restituisce il rispetto di sé”.

Non c’è dubbio che Fanon, che dedicò gran parte della sua breve vita alla lotta spesso violenta per liberare l’Algeria dal dominio francese, ritenesse che la violenza fosse uno strumento legittimo per combattere l’oppressione. Ma cosa intendeva veramente? E ha scritto queste parole come se fossero la descrizione di un medico o la prescrizione di un rivoluzionario?

Lo scrittore Adam Shatz sostiene in “La clinica del ribelle”, la sua nuova straordinaria biografia di Fanon, che “pulizia” è in realtà una traduzione fuorviante: “La traduzione inglese di ‘la violence désintoxique’ come ‘la violenza è una forza purificatrice’ è in qualche modo fuorviante, suggerendo un’eliminazione quasi redentrice di ogni impurità”, scrive Shatz. “L’uso -subito dopo- di parole più cliniche da parte di Fanon interpreta la violenza come il superamento di uno stato quasi di ubriachezza, lo stato stuporoso indotto dalla sottomissione coloniale”.

In effetti, ciò che la violenza restituiva al soggetto coloniale era l’agency, la capacità di scrollarsi di dosso il ruolo imposto dal colonizzatore e di iniziare ad agire di propria volontà. Le persone colonizzate possono nutrire fantasie di ritorno a un passato perduto, quello che c’era prima che la loro terra fosse rubata. Ma è altrettanto probabile che, come Fanon, vogliano costruire un futuro nuovo e diverso.

Fanon aveva molto da dire sulla storia. Il libro di Shatz descrive in dettaglio la prima infatuazione di Fanon per le idee romantiche di pensatori come Léopold Sédar Senghor, il poeta e leader anticoloniale che sarebbe diventato il primo presidente del Senegal. Senghor e alcuni della sua generazione di intellettuali neri coloniali sostenevano un passato africano precoloniale idealizzato e mistico che doveva essere riportato alla luce e fatto rivivere.

Alla fine, Fanon rifiutò queste idee retrograde: “In nessun modo devo dedicarmi a far rivivere una civiltà nera ingiustamente ignorata”, scrisse nel suo libro “Pelle nera, maschere bianche“. “Non voglio diventare l’uomo di nessun passato”.

***

Eppure. Come possiamo non guardare al passato per cercare di trovare un percorso nel presente, così come guardiamo al futuro come depositario di una giustizia a lungo attesa che non arriva mai del tutto? Questa propensione umana ci lascia bloccati tra la memoria e il sogno, ma nessuna di queste due cose ci dice molto sulle nostre difficoltà attuali.

Pensiamo che capire il passato con il senno di poi ci salverà in qualche modo. Ma cos’è il senno di poi? Una conoscenza perfetta del passato che non era accessibile o visibile a chi lo stava vivendo. In qualche modo, crediamo che il futuro sarà incontaminato dalle passioni del presente e in grado di vedere più chiaramente ciò che è accaduto. In pratica, tutto funziona al contrario: vediamo il passato attraverso il prisma del presente e spesso alla luce accecante delle nostre speranze per il futuro, sopprimendo o enfatizzando il ruolo del passato in funzione del nostro scopo attuale.

Una teoria della decolonizzazione che cerchi di tornare indietro si scontrerà inevitabilmente con questa tendenza umana. Ma priva anche, forse inconsapevolmente, gli ex colonizzati della stessa autodeterminazione che cercano.

Olúfémi Táíwò, filosofo nigeriano della Cornell University, ha sostenuto nel suo libro “Against Decolonisation: Taking African Agency Seriously” (Prendere sul serio la capacità di azione africana) che la divisione manichea tra colonizzato e colonizzatore e il rifiuto di tutto ciò che proviene da quest’ultimo privano i colonizzati della capacità di agire autonomamente, negando loro la libertà creativa di creare qualcosa di nuovo dall’esperienza di essere oppressi. “Questo approccio deve precludere, e di fatto preclude, la possibilità che i colonizzati possano trovare nella vita e nel pensiero del colonizzatore qualcosa di valido da riutilizzare per le proprie società, sia durante che dopo il colonialismo”, ha scritto.

Gli africani, sostiene Táíwò, dovrebbero poter prendere ciò che vogliono dalla modernità e usarlo, come ogni popolo libero, per inventare il proprio futuro, senza guardare indietro a un passato che in ogni caso non potrà mai essere recuperato.

Gli angoscianti mesi trascorsi dal 7 ottobre hanno reso quasi impossibile per chiunque di noi immaginare quale futuro di speranza potrebbe essere tratto dall’incubo attuale. Abbiamo raggiunto una nuova e terrificante fase della guerra con l’incombente assalto a Rafah, dove centinaia di migliaia di civili sono fuggiti dai proiettili e dalle bombe israeliane solo per ritrovarsi ancora una volta nel loro bersaglio senza poter scappare. Ma ci sono generazioni di attivisti e intellettuali palestinesi, che avrebbero forse ancor più motivi per trovare appoggio nelle fantasie di un passato mitico libero da Israele e dal suo popolo, che non sognano di tornare indietro nel tempo.

“I movimenti di liberazione di successo hanno avuto successo proprio perché hanno impiegato idee creative, idee originali, idee fantasiose, mentre i movimenti di minor successo (come il nostro, ahimè) hanno avuto una pronunciata tendenza alle formule e alla ripetizione non ispirata di slogan e modelli di comportamento del passato”, ha scritto lo studioso palestinese americano Edward Said. “Il futuro, come il passato, è costruito dagli esseri umani. Sono loro, e non qualche lontano mediatore o salvatore, a fornire lo stimolo per il cambiamento”.

Said è stato forse il più influente erede intellettuale di Fanon e, in un tragico intreccio, è morto anche lui di leucemia, lo stesso cancro che ha ucciso Fanon all’età di 36 anni. Entrambi sono morti senza vedere vinte le loro battaglie di una vita. Ma entrambi sono andati alla tomba come uomini moderni e cosmopoliti, impegnati con il mondo non come avrebbero voluto che fosse, ma come l’hanno trovato, l’hanno raccontato e l’hanno plasmato verso la loro incrollabile visione di autodeterminazione e libertà per i popoli colonizzati del mondo. La liberazione richiede l’invenzione, non la restaurazione. Se la storia ci dice qualcosa è questo: il tempo si muove in una sola direzione, in avanti.

Lydia Polgreen è opinionista e co-conduttrice del podcast “Matter of Opinion” del Times.

https://www.nytimes.com/2024/02/18/opinion/israel-gaza-palestine-decolonization.html?campaign_id=2&emc=edit_th_20240219&instance_id=115516&nl=todaysheadlines&regi_id=70178108&segment_id=158566&user_id=189440506a0574962c5baaf044befaca

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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