L’autodistruzione di Israele

di Aluf Benn

Foreign Affairs, 7 febbraio 2024. 

Netanyahu, i palestinesi e i costi della negligenza.

Illustrazione di Mark Harris / Reuters

In un giorno di sole dell’aprile 1956, Moshe Dayan, il capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), andò verso sud fino a Nahal Oz, un kibbutz di recente fondazione vicino al confine con la Striscia di Gaza. Dayan era venuto per partecipare al funerale del ventunenne Roi Rotberg, ucciso la mattina precedente dai palestinesi mentre perlustrava i campi a cavallo. Gli assassini avevano trascinato il corpo di Rotberg dall’altra parte del confine, dove fu trovato mutilato, con gli occhi cavati. Il risultato fu uno shock e uno strazio a livello nazionale.

Se Dayan avesse parlato nell’Israele di oggi, avrebbe usato il suo elogio funebre soprattutto per criticare l’orribile crudeltà degli assassini di Rotberg. Ma il discorso pronunciato negli anni Cinquanta, fu straordinariamente comprensivo nei confronti dei colpevoli. “Non diamo la colpa agli assassini”, disse Dayan. “Per otto anni sono stati inerti nei campi profughi di Gaza, mentre davanti ai loro occhi noi abbiamo trasformato in nostri possedimenti le terre e i villaggi dove loro e i loro padri abitavano “. Dayan alludeva alla nakba, che in arabo significa “catastrofe”, quando la maggioranza degli arabi palestinesi fu mandata in esilio dalla vittoria di Israele nella guerra di indipendenza del 1948. Molti furono trasferiti con la forza a Gaza, compresi i residenti delle comunità che alla fine divennero città e villaggi ebraici lungo il confine.

Dayan non era certo un sostenitore della causa palestinese. Nel 1950, dopo la fine delle ostilità, organizzò lo sfollamento della comunità palestinese rimasta nella città di confine di Al-Majdal, oggi città israeliana di Ashkelon. Tuttavia, Dayan si rese conto di ciò che molti ebrei israeliani si rifiutano di accettare: i palestinesi non dimenticheranno mai la nakba né smetteranno di sognare di tornare alle loro case. “Non dobbiamo farci scoraggiare vedendo l’odio che infiamma e riempie la vita di centinaia di migliaia di arabi che vivono intorno a noi”, dichiarò Dayan nel suo elogio funebre. “Questa è la scelta della nostra vita: essere preparati e armati, forti e determinati, per evitare che la spada ci venga tolta dal pugno e che le nostre vite vengano stroncate”.

Il 7 ottobre 2023, l’antico avvertimento di Dayan si è materializzato nel modo più sanguinoso possibile. Seguendo un piano architettato da Yahya Sinwar, un leader di Hamas nato da una famiglia costretta a lasciare Al-Majdal, i militanti palestinesi hanno invaso Israele in quasi 30 punti lungo il confine con Gaza. Grazie a una sorpresa totale, hanno superato le esili difese di Israele e hanno attaccato un festival musicale, piccole città e più di 20 kibbutzim. Hanno ucciso circa 1.200 civili e soldati e rapito oltre 200 ostaggi. Hanno violentato, saccheggiato, bruciato e depredato. I discendenti di coloro che abitavano nei campi profughi al tempo di Dayan – alimentati dallo stesso odio e disgusto da lui descritto, ma ora meglio armati, addestrati e organizzati – erano tornati per vendicarsi.

Il 7 ottobre è stata la peggiore calamità della storia di Israele. È un punto di svolta nazionale e personale per chiunque viva nel paese o vi sia associato. Non essendo riuscito a fermare l’attacco di Hamas, l’IDF ha risposto con una forza schiacciante, uccidendo migliaia di palestinesi e radendo al suolo interi quartieri di Gaza. Ma anche se i piloti sganciano bombe e i commando militari stanano i tunnel di Hamas, il governo israeliano non ha fatto i conti con l’odio che l’attacco ha prodotto, e non ha individuato le politiche che potrebbero impedirne un altro. Il suo silenzio è dovuto al volere del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che si è rifiutato di definire una visione o un ordine per il dopoguerra. Netanyahu ha promesso di “distruggere Hamas”, ma al di là della forza militare, non ha una strategia per eliminare il gruppo e non ha un piano chiaro per ciò che lo dovrebbe sostituire come governo de facto in una Gaza postbellica.

La sua incapacità di fare strategia non è un caso. E non è nemmeno un atto di convenienza politica volto a mantenere unita la sua coalizione di destra. Per vivere in pace, Israele dovrà finalmente scendere a patti con i palestinesi, cosa a cui Netanyahu si è opposto per tutta la sua carriera. Ha dedicato il suo mandato di primo ministro, il più lungo nella storia di Israele, a minare e mettere da parte il movimento nazionale palestinese. Ha promesso al suo popolo che si potrà prosperare senza la pace. Ha venduto al paese l’idea di poter continuare a occupare per sempre le terre palestinesi con pochi costi interni e internazionali. E anche ora, dopo il 7 ottobre, non ha cambiato questo messaggio. L’unica cosa che Netanyahu ha detto di voler fare dopo la guerra è mantenere un “perimetro di sicurezza” intorno a Gaza – un eufemismo poco velato per un’occupazione a lungo termine, compresa una zona-cuscinetto lungo il confine che consumerà una grossa fetta della scarsa terra palestinese.

Ma Israele non può più essere così ottuso. Gli attacchi del 7 ottobre hanno dimostrato che la promessa di Netanyahu era del tutto vacua. Nonostante un processo di pace morto e un interesse calante da parte di altri paesi, i palestinesi hanno mantenuto viva la loro causa. Nel filmato ripreso da Hamas il 7 ottobre, si sentono gli invasori gridare “Questa è la nostra terra!” mentre attraversano il confine per attaccare un kibbutz. Sinwar ha apertamente inquadrato l’operazione come un atto di resistenza ed è stato personalmente motivato, almeno in parte, dalla nakba. Il leader di Hamas ha trascorso 22 anni nelle carceri israeliane e si dice che abbia ripetuto continuamente ai suoi compagni di cella che Israele doveva essere sconfitto in modo che la sua famiglia potesse tornare al villaggio d’origine.

Il trauma del 7 ottobre ha costretto gli israeliani, ancora una volta, a rendersi conto che il conflitto con i palestinesi è centrale per la loro identità nazionale e rappresenta una minaccia per il loro benessere. Non può essere trascurato o eluso; continuare l’occupazione, espandere gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, assediare Gaza e rifiutare qualsiasi compromesso territoriale (o persino riconoscere i diritti dei palestinesi) non porterà al paese una sicurezza duratura. Tuttavia, riprendersi da questa guerra e cambiare rotta sarà estremamente difficile, e non solo perché Netanyahu non vuole risolvere il conflitto palestinese. La guerra ha colto Israele nel momento di maggiore divisione della sua storia. Negli anni precedenti all’attacco, il paese è stato spaccato dallo sforzo di Netanyahu di minare le istituzioni democratiche e di trasformarlo in un’autocrazia teocratica e nazionalista. Le sue proposte di legge e le sue riforme hanno provocato proteste e dissensi diffusi che hanno minacciato di spaccare il paese prima della guerra e lo perseguiteranno anche dopo la fine del conflitto. Infatti, la lotta per la sopravvivenza politica di Netanyahu diventerà ancora più intensa di quanto non fosse prima del 7 ottobre, rendendo difficile per il paese perseguire la pace.

Ma qualunque sia la sorte del primo ministro, è improbabile che Israele abbia una discussione seria sull’accordo con i palestinesi. L’opinione pubblica israeliana nel suo complesso si è spostata a destra. Gli Stati Uniti sono sempre più preoccupati per le loro elezioni presidenziali. Ci sarà poca energia o motivazione per riavviare un processo di pace significativo nel prossimo futuro.

Il 7 ottobre è ancora un punto di svolta, ma spetta agli israeliani decidere che tipo di svolta sarà. Se finalmente ascoltassero l’avvertimento di Dayan, il paese potrebbe unirsi e tracciare un percorso di pace e di coesistenza dignitosa con i palestinesi. Ma finora sembra che gli israeliani continueranno a litigare tra loro e a mantenere l’occupazione a tempo indeterminato. Questo potrebbe rendere il 7 ottobre l’inizio di un’epoca buia nella storia di Israele, caratterizzata da una maggiore e sempre crescente violenza. L’attacco non sarebbe stato un evento isolato, ma un presagio di ciò che verrà.

Promessa non mantenuta

Negli anni ’90, Netanyahu era un astro nascente nella scena della destra israeliana. Dopo essersi fatto conoscere come ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite dal 1984 al 1988, è diventato famoso per aver guidato l’opposizione agli accordi di Oslo, il progetto di riconciliazione israelo-palestinese del 1993 firmato dal governo israeliano e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Dopo l’assassinio del Primo Ministro Yitzhak Rabin nel novembre 1995 da parte di un fanatico israeliano di estrema destra e un’ondata di attacchi terroristici palestinesi nelle città israeliane, Netanyahu riuscì a sconfiggere Shimon Peres, uno dei principali artefici dell’accordo di pace di Oslo, con un margine minimo nella corsa a Primo Ministro del 1996. Una volta in carica, promise di rallentare il processo di pace e di riformare la società israeliana “sostituendo le élite”, che considerava troppo morbide e inclini a copiare i liberali occidentali, con un corpo di conservatori dal punto di vista religioso e sociale.

Le ambizioni radicali di Netanyahu, tuttavia, hanno incontrato l’opposizione combinata delle vecchie élite e dell’amministrazione Clinton. Anche la società israeliana, allora ancora generalmente favorevole a un accordo di pace, si è rapidamente inacidita di fronte all’agenda estrema del primo ministro. Tre anni dopo, fu rovesciato dal liberale Ehud Barak, che si impegnò a proseguire il processo di Oslo e a risolvere la questione palestinese nella sua interezza.

Ma Barak fallì, così come i suoi successori. Quando Israele completò il suo ritiro unilaterale dal Libano meridionale nella primavera del 2000, fu soggetto ad attacchi transfrontalieri e minacciato da una massiccia crescita di Hezbollah. Il processo di pace è poi imploso quando i palestinesi hanno lanciato la Seconda Intifada nell’autunno dello stesso anno. Cinque anni dopo, il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza ha spianato la strada ad Hamas che ne ha preso il controllo. L’opinione pubblica israeliana, un tempo favorevole alla pace, ha perso la voglia di affrontare i rischi per la sicurezza che ne derivano. “Abbiamo offerto loro la luna e le stelle e in cambio abbiamo ricevuto attentatori suicidi e razzi”, recitava un ritornello comune. (Il controargomento – che Israele aveva offerto troppo poco e non avrebbe mai accettato uno stato palestinese sostenibile – trovava poco ascolto). Nel 2009, Netanyahu è tornato al potere, sentendosi rivendicato. Dopo tutto, i suoi avvertimenti contro le concessioni territoriali ai vicini di Israele si erano avverati.

Tornato in carica, Netanyahu ha offerto agli israeliani un’alternativa conveniente alla formula “terra in cambio di pace”, ormai screditata. Israele -sosteneva- poteva prosperare come un paese in stile occidentale – e persino entrare in contatto con il mondo arabo in generale – mentre metteva da parte i palestinesi. La chiave era dividere e conquistare. In Cisgiordania, Netanyahu ha mantenuto la cooperazione di sicurezza con l’Autorità Palestinese, che è diventata di fatto il subappaltatore di servizi sociali e di polizia di Israele, e ha incoraggiato il Qatar a finanziare il governo di Hamas a Gaza. “Chiunque si opponga a uno stato palestinese deve sostenere l’erogazione di fondi a Gaza, perché mantenere la separazione tra l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza impedirà la creazione di uno stato palestinese”, ha dichiarato Netanyahu al gruppo parlamentare del suo partito nel 2019. È una dichiarazione che si è ritorta contro di lui.

Soldati israeliani vicino a Sderot, Israele, ottobre 2023. Amir Cohen / Reuters

Netanyahu riteneva di poter tenere sotto controllo le capacità di Hamas attraverso un blocco navale ed economico, moderni sistemi di difesa missilistici e di frontiera e periodici raid militari contro i combattenti e le infrastrutture del gruppo. Quest’ultima tattica, soprannominata “falciare l’erba”, è diventata parte integrante della dottrina di sicurezza israeliana, insieme alla “gestione del conflitto” e al mantenimento dello status quo. L’ordine esistente, secondo Netanyahu, era duraturo. A suo avviso, era anche ottimale: mantenere un conflitto di livello molto basso era meno rischioso politicamente di un accordo di pace e meno costoso di una grande guerra.

Per oltre un decennio, la strategia di Netanyahu sembrò funzionare. Il Medio Oriente e il Nord Africa sono sprofondati nelle rivoluzioni e nelle guerre civili della Primavera Araba, rendendo la causa palestinese molto meno rilevante. Gli attacchi terroristici sono scesi a nuovi livelli minimi e i periodici lanci di razzi da Gaza sono stati generalmente intercettati. Con l’eccezione di una breve guerra contro Hamas nel 2014, gli israeliani hanno raramente avuto bisogno di scontrarsi con i militanti palestinesi. Per gran parte delle persone, e per la maggior parte del tempo, il conflitto è rimasto lontano dagli occhi e dal cuore.

Invece di preoccuparsi dei palestinesi, gli israeliani hanno iniziato a concentrarsi sul sogno occidentale di prosperità e tranquillità. Tra il gennaio 2010 e il dicembre 2022, i prezzi degli immobili in Israele sono più che raddoppiati, mentre lo skyline di Tel Aviv si è riempito di appartamenti e complessi di uffici. Le città più piccole si sono espanse per far fronte al boom. Il PIL del Paese è cresciuto di oltre il 60% grazie al lancio di aziende tecnologiche di successo e alla scoperta di giacimenti di gas naturale al largo delle acque israeliane. Gli accordi di apertura dei cieli con altri governi hanno trasformato i viaggi all’estero, un aspetto importante dello stile di vita israeliano, in un bene economico. Il futuro sembrava luminoso. Il paese sembrava aver superato il problema dei palestinesi, e lo aveva fatto senza sacrificare nulla – territorio, risorse, fondi – per un accordo di pace. Gli israeliani potevano avere la botte piena e la moglie ubriaca.

Anche a livello internazionale il paese stava prosperando. Netanyahu ha resistito alle pressioni del presidente statunitense Barack Obama che voleva rilanciare la soluzione dei due stati e congelare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, in parte stringendo un’alleanza con i repubblicani. Sebbene Netanyahu non sia riuscito a impedire a Obama di concludere un accordo nucleare con l’Iran, Washington si è ritirata dall’accordo dopo la vittoria di Donald Trump alla presidenza. Trump ha anche spostato l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme e la sua amministrazione ha riconosciuto l’annessione delle alture del Golan sottratte alla Siria. Sotto Trump, gli Stati Uniti hanno aiutato Israele a concludere gli Accordi di Abramo, normalizzando le relazioni con Bahrein, Marocco, Sudan ed Emirati Arabi Uniti, una prospettiva che un tempo sembrava impossibile senza un accordo di pace israelo-palestinese. Carovane di funzionari, capi militari e turisti israeliani hanno iniziato a frequentare gli alberghi di lusso degli sceiccati del Golfo e i souk di Marrakech.

Mentre metteva da parte la questione palestinese, Netanyahu ha anche lavorato per rifare la società interna di Israele. Dopo aver vinto a sorpresa la rielezione nel 2015, Netanyahu ha messo insieme una coalizione di destra per far rivivere il suo vecchio sogno di innescare una rivoluzione conservatrice. Ancora una volta, il primo ministro ha iniziato a inveire contro “le élite” e ha avviato una guerra culturale contro l’establishment di un tempo, che considerava ostile a se stesso e troppo liberale per i suoi sostenitori. Nel 2018 ha ottenuto l’approvazione di un’importante e controversa legge che definisce Israele “Stato-Nazione del popolo ebraico” e dichiara che gli ebrei hanno il diritto “unico” di “esercitare l’autodeterminazione” nel suo territorio. La legge dava la precedenza alla maggioranza ebraica del paese e subordinava la popolazione non ebraica.

Nello stesso anno, la coalizione di Netanyahu è crollata. Israele è poi sprofondato in una lunga crisi politica, con il paese trascinato in cinque elezioni tra il 2019 e il 2022, ognuna delle quali era un referendum sul governo di Netanyahu. L’intensità della battaglia politica è stata accentuata da un caso di corruzione contro il primo ministro, che ha portato alla sua incriminazione nel 2020 e a un processo ancora in corso. Israele si è diviso tra i “Bibisti” e i “non Bibisti” (Bibi è il nomignolo di Netanyahu). Alla quarta elezione, nel 2021, i rivali di Netanyahu sono finalmente riusciti a sostituirlo con un “governo del cambiamento” guidato dal destrorso Naftali Bennett e dal centrista Yair Lapid. Per la prima volta, la coalizione comprendeva un partito arabo.

Tuttavia, l’opposizione di Netanyahu non ha mai messo in discussione la premessa fondamentale del suo governo: che Israele può prosperare senza affrontare la questione palestinese. Il dibattito sulla pace e sulla guerra, tradizionalmente un tema politico cruciale per Israele, è diventato una notizia da ultima pagina. Bennett, che ha iniziato la sua carriera come assistente di Netanyahu, ha equiparato il conflitto palestinese a “una scheggia nel sedere” con cui il paese può convivere. Lui e Lapid hanno cercato di mantenere lo status quo nei confronti dei palestinesi e di concentrarsi semplicemente sul mantenimento di Netanyahu in carica.

Questo accordo, ovviamente, si è rivelato impossibile. Il “governo del cambiamento” è crollato nel 2022 dopo che non è riuscito a prorogare oscure disposizioni legali che consentivano ai coloni della Cisgiordania di godere dei diritti civili negati ai loro vicini non israeliani. Per alcuni membri della coalizione araba, firmare queste disposizioni sull’apartheid era un compromesso inaccettabile.

Per Netanyahu, ancora sotto processo, il crollo del governo è stato esattamente quello che sperava. Mentre il paese organizzava un’altra elezione, Netanyahu ha rafforzato la sua base di destra, di ebrei ultraortodossi e di ebrei socialmente conservatori. Per riconquistare il potere, si è rivolto in particolare ai coloni della Cisgiordania, un gruppo demografico che vedeva ancora nel conflitto israelo-palestinese la sua ragion d’essere. Questi sionisti religiosi sono rimasti fedeli al loro sogno di ebraicizzare i territori occupati e di renderli formalmente parte di Israele. Speravano che, se ne avessero avuto l’opportunità, avrebbero potuto cacciare la popolazione palestinese dai Territori. Non erano riusciti a impedire l’evacuazione dei coloni ebrei da Gaza nel 2005, quando Ariel Sharon era primo ministro, ma negli anni successivi hanno gradualmente conquistato posizioni chiave nell’esercito, nel servizio civile e nei media israeliani, mentre i membri dell’establishment laico si sono concentrati a rafforzarsi nel settore privato.

Gli estremisti avevano due richieste principali da fare a Netanyahu. La prima, la più ovvia, era quella di espandere ulteriormente gli insediamenti ebraici. La seconda era quella di stabilire una presenza ebraica più forte sul Monte del Tempio, il sito storico del Tempio ebraico e della moschea musulmana di al Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme. Da quando Israele ha preso il controllo dell’area circostante nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, ha concesso ai palestinesi una quasi-autonomia sul sito, nel timore che sottrarlo al governo arabo potesse scatenare un conflitto religioso catastrofico. Ma l’estrema destra israeliana ha cercato a lungo di cambiare le cose. Quando Netanyahu fu eletto per la prima volta nel 1996, aprì un muro in un sito archeologico costruendo un tunnel sotterraneo adiacente ad al Aqsa per esporre reliquie dell’epoca del Secondo Tempio, provocando una violenta esplosione di proteste arabe a Gerusalemme. Anche la Seconda Intifada palestinese del 2000 fu scatenata da una visita al Monte del Tempio da parte di Sharon, allora leader dell’opposizione e capo del partito di Netanyahu, il Likud.

Nel maggio 2021, la violenza è esplosa di nuovo. Questa volta, il principale provocatore è stato Itamar Ben-Gvir, un politico di estrema destra che ha pubblicamente celebrato i terroristi ebrei. Ben-Gvir aveva aperto un “ufficio parlamentare” in un quartiere palestinese di Gerusalemme Est dove i coloni ebrei, utilizzando vecchi atti di proprietà, hanno cacciato alcuni residenti, e i palestinesi hanno organizzato proteste di massa in risposta. Dopo che centinaia di manifestanti si sono riuniti ad al Aqsa, la polizia israeliana ha fatto irruzione nel complesso della moschea. Di conseguenza, sono scoppiati scontri tra arabi ed ebrei, che si sono rapidamente diffusi in città etnicamente miste in tutto Israele. Hamas ha usato l’incursione come scusa per colpire Gerusalemme con i razzi, il che ha portato ancora più violenza in Israele e un’altra serie di rappresaglie israeliane a Gaza.

Tuttavia, i combattimenti sono scomparsi quando Israele e Hamas hanno raggiunto un nuovo cessate il fuoco con una rapidità impressionante. Il Qatar ha continuato a pagare e Israele ha concesso permessi di lavoro ad alcuni gazawi per migliorare l’economia della Striscia e ridurre il desiderio di conflitto della popolazione. Hamas è rimasto a guardare quando Israele ha colpito una milizia alleata, la Jihad Islamica palestinese, nella primavera del 2023. La relativa tranquillità lungo il confine ha permesso all’IDF di ridisporre le proprie forze e spostare la maggior parte dei battaglioni da combattimento in Cisgiordania, in modo da poter proteggere i coloni dagli attacchi terroristici. Il 7 ottobre è apparso chiaro che questi ridispiegamenti erano esattamente ciò che Sinwar voleva.

Il golpe di Bibi

Nelle elezioni israeliane del novembre 2022, Netanyahu ha riconquistato il potere. La sua coalizione ha conquistato 64 dei 120 seggi del parlamento israeliano, una valanga di voti rispetto ai  precedenti risultati. Le figure chiave del nuovo governo erano Bezalel Smotrich, leader di un partito religioso nazionalista che rappresenta i coloni della Cisgiordania, e Ben-Gvir. Lavorando con i partiti ultraortodossi, Netanyahu, Smotrich e Ben-Gvir hanno elaborato un progetto per un Israele autocratico e teocratico. Le linee guida del nuovo gabinetto, ad esempio, dichiaravano che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile all’intera Terra d’Israele”, negando completamente qualsiasi rivendicazione palestinese sul territorio, anche a Gaza. Smotrich è diventato ministro delle Finanze ed è stato messo a capo della Cisgiordania, dove ha avviato un massiccio programma di espansione degli insediamenti ebraici. Ben-Gvir è stato nominato ministro della Sicurezza Nazionale, con il controllo della polizia e delle prigioni. Ha usato il suo potere per incoraggiare un maggior numero di ebrei a visitare il Monte del Tempio (al Aqsa). Tra gennaio e ottobre del 2023, circa 50.000 ebrei lo hanno visitato, più che in qualsiasi altro periodo registrato. (Nel 2022, i visitatori ebrei sul Monte erano stati 35.000).

Il nuovo governo radicale di Netanyahu ha suscitato indignazione tra i liberali e i centristi israeliani. Ma anche se l’umiliazione dei palestinesi era al centro della loro agenda, questi critici hanno continuato a ignorare il destino dei Territori Occupati e di al Aqsa quando hanno criticato il governo. Si sono invece concentrati in gran parte sulle riforme giudiziarie di Netanyahu. Annunciate nel gennaio 2023, queste proposte di legge avrebbero ridotto l’indipendenza della Corte Suprema israeliana – custode dei diritti civili e umani in un paese privo di una costituzione formale – e avrebbero smantellato il sistema di consulenza legale che fornisce controlli e contrappesi al potere esecutivo. Se fossero state approvate, le proposte di legge avrebbero reso molto più facile per Netanyahu e i suoi partner costruire un’autocrazia e avrebbero potuto persino risparmiargli il processo per corruzione.

Le proposte di riforma giudiziaria erano, senza dubbio, straordinariamente pericolose. Hanno giustamente suscitato un’enorme ondata di proteste, con centinaia di migliaia di israeliani che hanno manifestato ogni settimana. Ma nell’affrontare questo inaccettabile colpo di stato, gli oppositori di Netanyahu hanno agito ancora una volta come se l’Occupazione fosse una questione estranea. Anche se le leggi erano state redatte in parte per indebolire qualsiasi protezione legale che la Corte Suprema israeliana avrebbe concesso ai palestinesi, i manifestanti hanno evitato di menzionare l’occupazione o il defunto processo di pace per paura di essere tacciati di antipatriottismo. In effetti, gli organizzatori hanno lavorato per mettere in disparte i manifestanti anti-occupazione israeliani, per evitare che le immagini delle bandiere palestinesi apparissero nelle manifestazioni. Questa tattica ha avuto successo, garantendo che il movimento di protesta non fosse “contaminato” dalla causa palestinese: Gli arabi israeliani, che rappresentano circa il 20% della popolazione del paese, si sono in gran parte astenuti dal partecipare alle manifestazioni. Ma questo ha reso più difficile il successo del movimento. Data la demografia di Israele, gli ebrei di centro-sinistra devono collaborare con gli arabi del Paese se vogliono formare un governo. Delegittimando le preoccupazioni degli arabi israeliani, i manifestanti hanno fatto il gioco della strategia di Netanyahu.

Ben-Gvir chiede che Israele ricostruisca gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Gerusalemme, gennaio 2024 Ronen Zvulun / Reuters

Con gli arabi fuori, la battaglia sulle riforme giudiziarie si è svolta come un affare intra-ebraico. I dimostranti hanno adottato la bandiera blu e bianca con la Stella di Davide e molti dei loro leader e oratori erano alti ufficiali militari in pensione. I manifestanti hanno sfoggiato le loro credenziali militari, invertendo il declino del prestigio che aveva colpito l’IDF dall’invasione del Libano nel 1982. I piloti riservisti, che sono fondamentali per la preparazione e la potenza di combattimento dell’aeronautica, hanno minacciato di ritirarsi dal servizio se le leggi fossero state approvate. In una dimostrazione di opposizione istituzionale, i leader dell’IDF hanno respinto Netanyahu quando ha chiesto di disciplinare i riservisti.

La rottura dell’IDF con il primo ministro non è stata sorprendente. Nel corso della sua lunga carriera, Netanyahu si è spesso scontrato con i militari e i suoi più forti rivali sono stati generali in pensione diventati politici, come Sharon, Rabin e Barak, per non parlare di Benny Gantz, che Netanyahu ha inserito nel suo gabinetto di guerra d’emergenza ma che alla fine potrebbe sfidarlo e succedergli come primo ministro. Netanyahu ha a lungo rifiutato la visione dei generali di un Israele forte militarmente ma flessibile diplomaticamente. Ha anche disprezzato il loro carattere, che considera timido, privo di immaginazione e persino sovversivo. Non è stato quindi uno shock quando ha licenziato il suo stesso ministro della Difesa, il generale in pensione Yoav Gallant, dopo che quest’ultimo era apparso in diretta televisiva nel marzo 2023 per avvertire che le spaccature di Israele avevano reso il paese vulnerabile e che la guerra era imminente.

Il licenziamento di Gallant provocò altre proteste spontanee nelle strade e Netanyahu lo reintegrò. (I due rimangono aspri rivali, anche se gestiscono la guerra insieme). Ma Netanyahu ha ignorato l’avvertimento di Gallant. Ha anche ignorato un avvertimento più dettagliato lanciato a luglio dal capo analista dell’intelligence militare israeliana, secondo cui i nemici avrebbero potuto colpire il paese. Netanyahu sembra aver creduto che tali avvertimenti fossero politicamente motivati e riflettessero una tacita alleanza tra i capi militari in carica presso il quartier generale dell’IDF a Tel Aviv e gli ex comandanti che protestavano dall’altra parte della strada.

A dire il vero, gli avvertimenti ricevuti da Netanyahu si concentravano soprattutto sulla rete di alleati regionali dell’Iran, non su Hamas. Sebbene il piano di attacco di Hamas fosse noto all’intelligence israeliana, e sebbene i miliziani facessero le loro manovre di fronte ai posti di osservazione dell’IDF, gli alti funzionari militari e dell’intelligence non hanno immaginato che il loro avversario di Gaza potesse davvero andare fino in fondo, e hanno insabbiato i suggerimenti contrari. L’attacco del 7 ottobre è stato, in parte, un fallimento della burocrazia israeliana.

Tuttavia, il fatto che Netanyahu non abbia convocato alcuna discussione seria sulle informazioni ricevute è indifendibile, così come il suo rifiuto di scendere seriamente a compromessi con l’opposizione politica e di sanare la spaccatura del paese. Invece, ha deciso di andare avanti con il suo colpo di stato giudiziario, senza tener conto dei gravi avvertimenti e dei possibili contraccolpi. “Israele può fare a meno di un paio di squadriglie dell’aviazione”, ha dichiarato con arroganza, “ma non di un governo”.

Nel luglio 2023, il Parlamento israeliano ha approvato la prima legge giudiziaria, un altro punto di forza per Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra. (La legge è stata poi annullata dalla Corte Suprema nel gennaio 2024.) Il primo ministro credeva che presto avrebbe ulteriormente migliorato la sua posizione concludendo un accordo di pace con l’Arabia Saudita, lo Stato arabo più ricco e importante, nell’ambito di un triplice accordo che prevedeva anche un patto di difesa tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Il risultato sarebbe stato la vittoria finale della politica estera israeliana: un’alleanza americano-arabo-israeliana contro l’Iran e i suoi proxy regionali. Per Netanyahu sarebbe stato il coronamento di un successo che lo avrebbe avvicinato all’opinione pubblica.

Il Primo Ministro era così sicuro di sé che il 22 settembre è salito sul palco dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per promuovere una mappa del “nuovo Medio Oriente”, incentrata su Israele. Si trattava di una frecciata intenzionale al suo defunto rivale Peres, che aveva coniato questa frase dopo la firma degli accordi di Oslo. “Credo che siamo alla vigilia di una svolta ancora più drammatica: una pace storica con l’Arabia Saudita”, si è vantato Netanyahu nel suo discorso. I palestinesi, ha chiarito, sono diventati solo un elemento secondario sia per Israele che per la regione in generale. “Non dobbiamo dare ai palestinesi un diritto di veto sui nuovi trattati di pace”, ha detto. “I palestinesi sono solo il 2% del mondo arabo”. Due settimane dopo, Hamas ha attaccato, mandando in frantumi i piani di Netanyahu.

Dopo il botto

Netanyahu e i suoi sostenitori hanno cercato di allontanare da sé la responsabilità del 7 ottobre. Il primo ministro, dicono, è stato ingannato dai capi della sicurezza e dell’intelligence che non lo hanno aggiornato su un allarme dell’ultimo minuto che indicava che qualcosa di sospetto stava accadendo a Gaza (sebbene anche questi avvertimenti siano stati interpretati come indicazioni di un piccolo attacco, o semplicemente una diceria). “In nessun caso e in nessuna fase il Primo Ministro Netanyahu è stato avvertito delle intenzioni belliche di Hamas”, ha scritto l’ufficio di Netanyahu su Twitter alcune settimane dopo l’attacco. “Al contrario, la valutazione dell’intero livello di sicurezza, compresi il capo dell’intelligence militare e il capo dello Shin Bet, è stata che Hamas era scoraggiato e stava cercando un accordo”. (In seguito, l’ufficio si è scusato per il post).

Ma l’incompetenza militare e dei servizi di intelligence, per quanto disastrosa, non può mettere al riparo il primo ministro dalle sue responsabilità, e non solo perché, in quanto capo del governo, Netanyahu ha la responsabilità ultima di ciò che accade in Israele. La sua sconsiderata politica prebellica di divisione degli israeliani ha reso il Paese vulnerabile, invogliando gli alleati dell’Iran a colpire una società lacerata. L’umiliazione di Netanyahu nei confronti dei palestinesi ha aiutato il radicalismo a prosperare. Non è un caso che Hamas abbia chiamato la sua operazione “inondazione di al Aqsa” e abbia dipinto gli attacchi come un modo per proteggere al Aqsa da una presa di potere ebraica. La protezione del luogo sacro musulmano è stata vista come un motivo per attaccare Israele e affrontare le inevitabili conseguenze di un contrattacco dell’IDF.

L’opinione pubblica israeliana non ha assolto Netanyahu dalla responsabilità del 7 ottobre. Il partito del primo ministro è crollato nei sondaggi e anche il suo indice di gradimento è crollato, sebbene il governo mantenga la maggioranza parlamentare. Il desiderio di cambiamento del paese non si esprime solo nei sondaggi. Il militarismo è tornato ad essere trasversale. I manifestanti anti-Bibi si sono affrettati ad adempiere ai loro doveri di riserva nonostante le proteste, mentre gli organizzatori un tempo anti-Netanyahu hanno soppiantato il disfunzionale governo israeliano nell’assistenza agli sfollati dal sud e dal nord del Paese. Molti israeliani si sono armati di pistole e fucili d’assalto, aiutati dalla campagna di Ben-Gvir per mitigare la regolamentazione delle armi leggere private. Dopo decenni di graduale declino, il bilancio della difesa dovrebbe aumentare di circa il 50%.

Dimostranti che protestano contro il governo di Netanyahu. Tel Aviv, Israele, gennaio 2024. Alexandre Meneghini / Reuters

Tuttavia questi cambiamenti, per quanto comprensibili, sono accelerazioni, non cambiamenti. Israele sta ancora seguendo lo stesso percorso che Netanyahu ha guidato per anni. La sua identità è ora meno liberale ed egualitaria, più etnonazionalista e militarista. Lo slogan “Uniti per la vittoria”, che si vede in ogni angolo di strada, autobus pubblico e canale televisivo in Israele, mira a unificare la società ebraica del paese. La minoranza araba dello stato, che ha sostenuto a larga maggioranza un rapido cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri, è stata ripetutamente interdetta dalla polizia a svolgere proteste pubbliche. Decine di cittadini arabi sono stati legalmente incriminati per i post sui social media che esprimevano solidarietà con i palestinesi di Gaza, anche se i post non sostenevano o avallavano gli attacchi del 7 ottobre. Molti ebrei israeliani liberali, nel frattempo, si sentono traditi dalle controparti occidentali che, a loro avviso, si sono schierate con Hamas. Stanno ripensando alle loro minacce prebelliche di emigrare lontano dall’autocrazia religiosa di Netanyahu e le società immobiliari israeliane prevedono una nuova ondata di immigrati ebrei che cercano di sfuggire al crescente antisemitismo che hanno sperimentato all’estero.

E proprio come nel periodo prebellico, quasi nessun ebreo israeliano pensa a come risolvere pacificamente il conflitto palestinese. La sinistra israeliana, tradizionalmente interessata a perseguire la pace, è ormai quasi estinta. I partiti centristi di Gantz e Lapid, nostalgici del buon vecchio Israele pre-Netanyahu, sembrano sentirsi a casa nella nuova società militarista e non vogliono rischiare la loro popolarità appoggiando negoziati ‘terra-per-la-pace’. E la destra è più ostile ai palestinesi di quanto non lo sia mai stata.

Netanyahu ha equiparato l’Autorità Palestinese ad Hamas e, al momento della stesura di questo articolo, ha rifiutato le proposte americane di renderla padrona di Gaza nel dopoguerra, sapendo che una tale decisione farebbe rivivere la soluzione dei due Stati. I compagni di estrema destra del primo ministro vogliono spopolare Gaza ed esiliare i suoi palestinesi in altri paesi, creando una seconda nakba che lascerebbe la terra aperta a nuovi insediamenti ebraici. Per realizzare questo sogno, Ben-Gvir e Smotrich hanno chiesto a Netanyahu di rifiutare qualsiasi discussione su un accordo postbellico a Gaza che lasci i palestinesi al comando e hanno chiesto al governo di rifiutarsi di negoziare l’ulteriore rilascio di ostaggi israeliani. Hanno anche assicurato che Israele non farà nulla per fermare i nuovi attacchi dei coloni ebrei contro i residenti arabi della Cisgiordania.

Se il passato è un precedente, il paese non è del tutto privo di speranza. La storia suggerisce che c’è una possibilità di ritorno del progressismo e di perdita di influenza dei conservatori. Dopo i gravi attentati degli anni precedenti, l’opinione pubblica israeliana si era inizialmente spostata a destra, ma poi ha cambiato rotta e ha accettato compromessi territoriali in cambio della pace. La guerra dello Yom Kippur del 1973 ha portato alla fine alla pace con l’Egitto; la Prima Intifada, iniziata nel 1987, ha portato agli accordi di Oslo e alla pace con la Giordania; e la Seconda Intifada, scoppiata nel 2000, si è conclusa con il ritiro unilaterale da Gaza.

Ma le possibilità che questa dinamica si ripeta sono scarse. Non esiste un gruppo o un leader palestinese accettato da Israele come lo furono l’Egitto e il suo presidente dopo il 1973. Hamas è impegnato nella distruzione di Israele e l’Autorità Palestinese è debole. Anche Israele è debole: la sua unità bellica si sta già incrinando e le probabilità che il paese si spacchi ulteriormente sono alte se e quando i combattimenti diminuiranno. Gli anti-Bibisti sperano di unirsi ai Bibisti delusi e di forzare elezioni anticipate quest’anno. Netanyahu, a sua volta, fomenterà le paure e si trincererà nel suo potere. A gennaio, i parenti degli ostaggi hanno fatto irruzione in una riunione parlamentare per chiedere al governo di cercare di liberare i loro familiari, nell’ambito di una battaglia tra israeliani per stabilire se il paese debba dare la priorità alla sconfitta di Hamas o fare un accordo per liberare i prigionieri rimasti. Forse l’unica idea su cui c’è unità è l’opposizione a un accordo terra-per-pace. Dopo il 7 ottobre, la maggior parte degli ebrei israeliani concorda sul fatto che qualsiasi ulteriore cessione di territorio darà ai militanti una rampa di lancio per il prossimo massacro.

In definitiva, quindi, il futuro di Israele potrebbe assomigliare molto alla sua storia recente. Con o senza Netanyahu, la “gestione del conflitto” e il “taglio dell’erba” rimarranno la politica dello stato, il che significa più occupazione, insediamenti e sfollamenti. Questa strategia potrebbe sembrare l’opzione meno rischiosa, almeno per un’opinione pubblica israeliana segnata dagli orrori del 7 ottobre e sorda a nuove proposte di pace. Ma porterà solo ad altre catastrofi. Gli israeliani non possono aspettarsi stabilità se continuano a ignorare i palestinesi e a rifiutare le loro aspirazioni, la loro storia e persino la loro presenza.

Questa è la lezione che il paese avrebbe dovuto imparare dal vecchio monito di Dayan. Israele deve tendere la mano ai palestinesi e agli altri, se vuole una coesistenza vivibile e rispettosa.

Aluf Benn è caporedattore di Haaretz.

https://www.foreignaffairs.com/israel/israels-netanyahu-self-destruction

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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1 commento su “L’autodistruzione di Israele”

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