Sì, la pace si fa con gli assassini

di Avraham Sela e Tomer Schorr-Liebfeld,

Haaretz, 25 gennaio 2024. 

La maggior parte degli accordi per risolvere i conflitti etnici non sopravvive alla prova del tempo. Uno studio di quelli che hanno avuto successo rivela il segreto: sono nati dalle prigioni. Israele deve tenerne conto per il “giorno dopo” la guerra a Gaza.

Murale di Marwan Barghouti a Gaza. Ha svolto un ruolo chiave nella stesura del “documento dei prigionieri” del 2006, che ha portato Fatah e Hamas a intavolare colloqui. Majdi Fathi / Reuters

La discussione sul “giorno dopo” la guerra nella Striscia di Gaza richiede un riesame della questione dei prigionieri di sicurezza detenuti da Israele. Non solo nel contesto di un accordo di scambio in cui, si spera, gli ostaggi israeliani prigionieri di Hamas saranno rilasciati in cambio, tra l’altro, dei prigionieri incarcerati in Israele; ma anche in un contesto di cui si parla poco: il ruolo che i prigionieri palestinesi possono svolgere nel plasmare la situazione politica e persino nel promuovere una soluzione israelo-palestinese a lungo termine.

La questione è diventata rilevante per due motivi. Il primo è la visione politica esposta dal Presidente degli Stati Uniti Joe Biden in un articolo dello scorso novembre su Washington Post in cui ha posto come obiettivo strategico la creazione di uno stato palestinese accanto a Israele. Secondo Biden, esso sarebbe governato da un’Autorità Palestinese “rivitalizzata”, cioè dotata di una maggiore legittimità politica e di una più efficace capacità di funzionamento rispetto all’attuale AP. Tale autorità sarebbe responsabile del governo della Striscia di Gaza dopo la sconfitta di Hamas.

La seconda ragione è l’urgente necessità di creare un efficiente sistema di governance nella Striscia di Gaza, il cui compito principale sarà quello di recuperare e ricostruire le infrastrutture amministrative e fisiche, che sono state completamente devastate. In entrambi questi contesti, i prigionieri palestinesi possono svolgere un ruolo sia simbolico che pratico.

Già ora, prima della fine della guerra, a Gaza è stato ucciso un numero inconcepibile di oltre 25.000 persone; città, villaggi, quartieri residenziali e campi profughi sono stati ridotti in macerie e ai due milioni di abitanti della Striscia è stato inflitto un disastro umanitario. Anche se la comunità internazionale dovesse trovare i fondi necessari, sarà necessario un apparato efficiente per incanalare il denaro nella costruzione di infrastrutture fisiche e nell’istituzione di servizi civili, per far rispettare l’ordine pubblico e prevenire un nuovo deterioramento della violenza, sia all’interno che contro Israele.

La riabilitazione della Striscia di Gaza sarà un progetto lungo anni, che si svolgerà in condizioni sociali e politiche caotiche. La ragione porta quindi alla conclusione che nessun governo palestinese sarà in grado di svolgere il proprio compito nella Striscia di Gaza senza l’integrazione di Hamas in un formato politico. Il rilascio di prigionieri in cambio di ostaggi può aumentare il prestigio di Hamas nel breve termine, ma è probabile che nel lungo periodo il colpo mortale inferto alle sue capacità militari e alla sua leadership nella Striscia indebolisca il movimento e lo renda pronto a partecipare come fazione nel quadro dell’OLP e in collaborazione con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Fatah. Indicazioni in tal senso da parte della leadership politica di Hamas sono già percepibili.

La vigorosa opposizione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu al progetto di Biden è una diretta continuazione della politica di separazione tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che Netanyahu coltiva dal 2009, con l’obiettivo di evitare la creazione di uno stato palestinese. Questa opposizione spiega la preferenza dell’establishment della sicurezza per un “governo di hamulas” (clan) rispetto a un’autorità centrale palestinese. Si tratta di una concezione di governo insostenibile da ogni punto di vista, che non tiene conto della rottura delle strutture socio-politiche di Gaza provocata dalla guerra.

È difficile ignorare le debolezze dell’Autorità Palestinese e di Mahmoud Abbas, che ne è a capo dal 2005, o negare la necessità di una riforma della sua struttura e del personale che la compone. Tuttavia, l’Autorità Palestinese è l’unica struttura nazionale palestinese che può servire come governo postbellico nella Striscia di Gaza. Questo non è solo il punto di vista dell’Occidente, ma anche degli Stati Arabi, soprattutto di quelli che potrebbero donare fondi per la ricostruzione della Striscia.

Una tendopoli di fortuna a Rafah, Gaza, all’inizio del mese. AFP

Una delle barriere più intrattabili nei processi di risoluzione dei conflitti, così come nel coinvolgimento umanitario internazionale, è l’assenza di un’autorità centrale che goda di legittimità e sia dotata della capacità di applicare le decisioni. In questo contesto, il rilascio dei prigionieri di sicurezza che si sono impegnati ad astenersi dal ritorno alla violenza può conferire legittimità politica interna al governo palestinese e rafforzarne le capacità amministrative. Questo, in virtù della loro attività a favore della causa nazionale, dell’esperienza organizzativa che hanno maturato e dell’ampio sostegno pubblico di cui godono presso l’opinione pubblica palestinese in generale.

La maggior parte dei prigionieri di Fatah rilasciati prima e dopo gli accordi di Oslo – tra cui Marwan Barghouti, Jibril Rajoub, Hisham Abdel Razek, Sufyan Abu Zaydeh e Qadura Fares – hanno sostenuto senza riserve gli accordi e il principio della creazione di uno stato palestinese accanto a Israele. Hanno anche assunto posizioni di rilievo nel governo dell’Autorità Palestinese. Barghouti, che nel 2002 è stato condannato da Israele a cinque ergastoli più 40 anni di carcere, è oggi l’unico prigioniero di alto livello di Fatah che da anni gode del più ampio sostegno dell’opinione pubblica palestinese. Non è un caso che sia in cima alla lista dei prigionieri di cui Hamas chiede ora il rilascio, forse nella speranza che possa trattare bene l’organizzazione se e quando una PA riorganizzata tornerà al potere nella Striscia di Gaza.

Gli appelli per la liberazione di Barghouti vengono lanciati di tanto in tanto, e di recente con maggiore insistenza, da esponenti della sinistra israeliana, che ritengono che, come fece Nelson Mandela nel suo paese, egli possa guidare i palestinesi verso una soluzione politica con Israele. Da una conoscenza personale (del coautore Sela) con Barghouti negli anni ’90, si può supporre che egli sia disposto a promuovere una soluzione in questo spirito, ma solo a condizione che il governo israeliano sia pronto ad sostenere un tale accordo. Senza questa disponibilità da parte di Israele, il suo rilascio servirebbe solo a intensificare ulteriormente il conflitto con i palestinesi.

L’idea che i prigionieri di sicurezza detenuti da Israele possano svolgere un ruolo chiave nella formazione di un’efficace AP e, più specificamente, nella promozione di una soluzione politica basata sui principi del Presidente Biden, si basa su uno studio comparativo che abbiamo condotto sul ruolo dei prigionieri politici di sicurezza nella risoluzione di conflitti etno-nazionali prolungati. Il nostro articolo su questo studio, pubblicato lo scorso novembre sull’International Studies Quarterly, la rivista di riferimento dell’International Studies Association, ha esaminato questo tema nel contesto di tre diversi conflitti: Irlanda del Nord, Sudafrica e conflitto israelo-palestinese.

Lo studio sottolinea la disparità tra l’effettiva assenza dei prigionieri palestinesi dal processo di Oslo e il ruolo chiave svolto dai prigionieri dell’Irlanda del Nord e del Sudafrica nella risoluzione di quei conflitti. In entrambi i casi, i prigionieri hanno lavorato per gettare le basi per i negoziati, la ratifica dell’accordo che ne è scaturito e poi la sua attuazione. Per questo motivo, gli accordi raggiunti in Irlanda del Nord e in Sudafrica sono diversi dalla maggior parte degli accordi raggiunti nei conflitti etno-nazionali dei primi due decenni successivi alla Guerra Fredda, che, come gli Accordi di Oslo, sono tornati alle ostilità entro pochi anni dalla firma.

I prigionieri politici di sicurezza non sono una causa ma una conseguenza dei lunghi conflitti in esame, ma la loro incarcerazione genera sentimenti forti nelle loro comunità e può potenzialmente plasmare il futuro del conflitto in direzione di un accordo oppure di un’escalation. L’intensità emotiva di questo tema si riflette nei ricorrenti tentativi di Hamas, compreso l’attacco del 7 ottobre, di rapire soldati e civili israeliani da scambiare con prigionieri palestinesi detenuti da Israele. Pertanto, un uso intelligente del capitale simbolico incarnato dalla popolazione dei prigionieri potrebbe contribuire molto alla risoluzione del conflitto, come testimoniano i processi intrapresi in Irlanda del Nord e in Sudafrica in questo contesto.

I prigionieri di una lotta nazionale sono percepiti dal pubblico come patrioti, identificati con la devozione e il sacrificio per il bene della comunità. La storia dei prigionieri di lunga data in Israele, come in Irlanda del Nord e in Sudafrica, dipinge un’immagine del carcere come “fucina di idee”. È qui che può svilupparsi una coscienza nazionale attraverso un dibattito profondo e libero, che include la messa in discussione di assunti di base e percezioni sacrosante riguardo alla visione nazionale e alla strategia per realizzarla.

Prigione di Ofer. In decenni di occupazione israeliana, circa un milione di palestinesi sono passati attraverso le strutture di detenzione israeliane, costituendo circa il 20% della popolazione. Olivier Fitioussi

In entrambi quei paesi, i lunghi anni di convivenza in carcere hanno creato una comunità distinta che si è espansa in modo volontario e informale; insieme ai detenuti che hanno scontato la pena e sono stati rilasciati, questi prigionieri sono diventati, nel corso degli anni, un centro di potere chiave nei processi decisionali dei loro movimenti. In molti casi, i prigionieri hanno plasmato l’agenda del movimento di resistenza all’esterno inscenando scioperi della fame che hanno poi generato manifestazioni di rivolta e violenza al di fuori del carcere. Attraverso i legami sociali creati nelle carceri, i prigionieri sono riusciti a promuovere la loro interpretazione della realtà e a trasformare il discorso egemonico della lotta armata in un discorso di negoziazione.

I detenuti dell’Esercito Repubblicano Irlandese in Irlanda del Nord, ad esempio, hanno gettato le basi per il processo politico degli anni ’80 e dei primi anni ’90, inizialmente in parallelo con l’uso della violenza e in seguito attraverso lo sviluppo di una strategia di lotta non violenta. In seguito, hanno di fatto rinunciato al sogno di un’Irlanda unita, rimandandolo a un tempo indefinito nel futuro. Allo stesso tempo, la leadership protestante fu costretta ad accettare la vera e piena condivisione del potere con i cattolici. Nel periodo che intercorse tra la firma dell’accordo in Irlanda del Nord, nell’aprile 1998, e la sua ratifica, poche settimane dopo, attraverso i referendum tenuti nelle due comunità rivali, i prigionieri ebbero un peso considerevole nella formazione del consenso cattolico intorno all’accordo. Inoltre, nei due anni difficili che seguirono i referendum, essi svolsero un ruolo centrale nel frenare i “guastatori” che sostenevano la continuazione della violenza e nell’impedire che le comunità ricadessero nel ciclo del sangue.

In Sudafrica, Mandela, e attraverso di lui gli altri prigionieri e la leadership dell’African National Congress, hanno accettato di rinunciare all’aspirazione dell’ANC di vedere ridistribuite le risorse del paese, dopo essere stati messi al corrente delle apprensioni che guidavano il comportamento della controparte. Allo stesso modo, nel conflitto israelo-palestinese, sono stati i prigionieri liberati con l'”accordo Jibril”, nel 1985, a scatenare la prima intifada e a portare la leadership dell’OLP, nel 1988, a dichiarare uno stato palestinese indipendente sulla base della risoluzione di spartizione delle Nazioni Unite del 1947, abbandonando di fatto l’idea di liberare tutta la Palestina.

In alcuni casi, i prigionieri hanno dettato le decisioni politiche ai loro movimenti. Un esempio è il “documento dei prigionieri” del 2006, firmato dai leader incarcerati di Fatah, Hamas e altre organizzazioni nel tentativo di porre fine alla frattura tra la leadership dell’OLP-Fatah e Hamas. Il documento, nella cui stesura Marwan Barghouti ha avuto un ruolo chiave, ha costretto le due fazioni rivali ad avviare colloqui di cooperazione sulla base di una piattaforma che accettasse il principio dei due Stati. Il risultato fu un accordo strategico tra le fazioni e la firma dell’Accordo della Mecca del 2007, anche se quattro mesi dopo tale accordo fu annullato quando Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza con la forza.

L’importanza dei prigionieri politici negli sforzi per risolvere i conflitti intrastatali prolungati deriva in larga misura dalla portata del loro settore, che è una conseguenza di decenni di sanguinosi conflitti tra lo stato e il gruppo che si ribella nella società. Così, in decenni di occupazione israeliana nei Territori, circa un milione di palestinesi sono passati attraverso le strutture di detenzione israeliane, costituendo circa il 20% della popolazione. In altre parole, quasi ogni famiglia palestinese ha sperimentato l’incarcerazione di un familiare, di un vicino o di un conoscente stretto, tanto che l’arresto è diventato un’esperienza formativa per l’intera società palestinese. In Irlanda del Nord e in Sudafrica, i prigionieri costituivano una percentuale minore, anche se comunque consistente, della popolazione.

Marwan Barghouti in tribunale nel 2012. Bernat Armangue / AP

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La prima lezione che si può trarre dalla risoluzione dei conflitti in Irlanda del Nord e in Sudafrica è l’importanza essenziale della partecipazione dei prigionieri nel legittimare vari aspetti della risoluzione del conflitto, che per sua natura comporta amare concessioni, percepite come tabù, su alcune questioni. In Israele, invece, i prigionieri non sono stati presi in considerazione in alcun modo prima della firma degli accordi di Oslo. Anche in seguito, il governo si è sempre opposto al rilascio di prigionieri “con le mani sporche di sangue”, un approccio che ha indebolito il sostegno della comunità dei prigionieri all’intero processo.

La seconda lezione riguarda la necessità di una fase preliminare in cui sono stati inviati “avvisi” confidenziali ai leader dei detenuti mentre erano ancora in carcere, prima ancora dell’inizio dei negoziati veri e propri tra le parti. Questi contatti, che in alcuni casi sono stati prolungati e hanno causato crisi, hanno permesso alle parti di esaurire le possibilità di negoziazione e di formulare un possibile quadro per un accordo, prima ancora che venisse messo nero su bianco. Mentre in Irlanda del Nord e in Sudafrica i colloqui tra i rappresentanti del governo e i leader dei prigionieri si sono protratti per molti anni prima di giungere a un accordo, gli accordi di Oslo sono stati conclusi in un breve periodo di pochi mesi, senza che i leader delle due parti avessero avuto il tempo di esaminare a fondo le reciproche concessioni che avrebbero dovuto fare anche solo per attuare il limitato accordo firmato.

Gli accordi di Oslo rappresentavano in effetti un progetto vago e non chiaramente definito per l’obiettivo strategico del processo. Il rinvio dei negoziati e delle decisioni sulle questioni centrali del conflitto (Gerusalemme, rifugiati, confini, insediamenti ebraici) alla fase dei negoziati sullo status finale, rifletteva il fatto che su questi temi esistevano differenze profonde e sostanziali, che sarebbero emerse in seguito e avrebbero causato il collasso del processo. Soprattutto, la divisione del processo in due fasi lo ha esposto a una feroce opposizione da entrambe le parti. I prigionieri palestinesi rilasciati dopo la firma degli Accordi di Oslo, molti dei cui compagni sono rimasti in carcere in Israele, non erano disposti a concedere legittimità al processo, tanto più che era stato effettivamente sospeso nel periodo del primo governo Netanyahu (1996-1999).

Con il senno di poi, è possibile ipotizzare che un dialogo significativo con i prigionieri palestinesi, che fin dall’inizio sono stati esposti al discorso interno israeliano e hanno goduto di un’influenza pubblica in patria, avrebbe permesso alle due parti di conoscersi meglio, aiutandole a comprendere i limiti del possibile dall’altra parte e avrebbe potuto persino portare a un progetto di soluzione più coerente.

La terza lezione consiste nell’importanza di raggiungere un accordo su un’amnistia generale per i prigionieri che sostengono l’accordo raggiunto e che si impegnano a desistere assolutamente dall’uso della violenza. In Irlanda del Nord e in Sudafrica è stato elaborato un meccanismo per il rilascio dei prigionieri proprio a queste condizioni. Ciò ha contribuito a ridurre in larga misura l’uso della violenza da parte degli oppositori dell’accordo, concedendo loro la possibilità di essere inclusi nell’amnistia in cambio della rinuncia alla violenza. In questo modo, la prospettiva della liberazione dei prigionieri ha agito come un incentivo per tutte le organizzazioni ad aderire al cessate il fuoco nel periodo più critico dell’attuazione dell’accordo, quando la maggior parte dei conflitti prolungati scivola nuovamente nella violenza.

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La formulazione di un progetto politico per il dopoguerra è una chiara richiesta americana, ma è anche un interesse primario di Israele sia dal punto di vista della sicurezza che da quello politico. Per Israele è essenziale che a Gaza venga creata un’efficace istituzione di governo palestinese al posto di Hamas. Inoltre, la riabilitazione della vita nella Striscia di Gaza dopo la distruzione fisica e la crisi umanitaria causate dalla guerra, è un elemento vitale per la creazione di un confine sicuro con Israele. In entrambe le questioni, la comunità internazionale svolgerà un ruolo decisivo, che a sua volta obbligherà il governo di Israele a fare dure concessioni politiche.

Israele ha la possibilità di correggere il suo approccio alla questione dei prigionieri, se vuole voltare pagina nel conflitto con i palestinesi. In effetti, i detenuti veterani di Fatah non sono amanti di Sion e il loro sostegno a una soluzione sulla base di “due stati per due popoli” riflette un’acquiescenza ai limiti del potere e un’accettazione della realtà. Molti di loro sono stati detenuti per decenni nelle carceri israeliane, parlano correntemente l’ebraico e conoscono la storia dello Stato di Israele e la sua situazione sociale e politica. Allo stesso tempo, non c’è da aspettarsi che facciano concessioni su questioni sostanziali relative a problemi di fondo, come quelle avanzate dall’OLP negli anni successivi agli accordi di Oslo.

L’avvio di un dialogo diretto con i prigionieri impone un cambiamento concettuale da parte dei decisori e degli altri leader pubblici israeliani, la maggior parte dei quali considera i prigionieri come terroristi assassini che devono scontare per intero la loro pena. È evidente che una condizione necessaria per avviare un dialogo di questo tipo è la disponibilità di Israele a rinnovare i negoziati sulla base di due Stati, che secondo Biden è “l’unico modo per garantire la sicurezza a lungo termine sia del popolo israeliano che di quello palestinese” e che ora è “più imperativo che mai”. In questo contesto dovremmo ricordare l’affermazione di Yitzhak Rabin: “La strada della riconciliazione passa attraverso le prigioni”.

Se e quando il governo di Israele sarà pronto a discutere sinceramente il progetto dei due Stati con i palestinesi, farà bene ad adottare i modelli dell’Irlanda del Nord e del Sudafrica su questo tema, e ad avviare un dialogo con Barghouti e forse con i membri di altre organizzazioni palestinesi mentre sono ancora in prigione. Ciò contribuirà a preparare il terreno per la loro partecipazione alla ricostruzione dell’Autorità Palestinese, in modo da ottenere un ampio sostegno pubblico e consentirle di funzionare come un organismo governativo efficace. In quanto tale, la liberazione dei prigionieri sarà un elemento integrante di un futuro accordo e renderà i prigionieri partner pratici nella sua accettazione e attuazione.

La guerra per sradicare il dominio di Hamas nella Striscia di Gaza ha riportato in cima all’agenda regionale e internazionale la “questione incompiuta” della risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Quello che era iniziato con la firma della Dichiarazione di Principi tra il governo Rabin e l’OLP nel settembre 1993 non ha mai raggiunto nemmeno i suoi obiettivi minimi: la piena autonomia dei palestinesi nella maggior parte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Anche se il rinnovo dei negoziati con i palestinesi sul progetto dei due stati è oggi anatema per la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana, la crisi in cui Israele è precipitato il 7 ottobre sottolinea la necessità di esaurire completamente tale processo.

La tesi di dottorato di Tomer Schorr-Liebfeld, presentata all’Università Ebraica di Gerusalemme nel 2021, riguarda i prigionieri politici nei processi di risoluzione dei conflitti. Avraham Sela è professore emerito presso il Dipartimento di Relazioni Internazionali e ricercatore senior presso il Truman Research Institute for the Advancement of Peace, entrambi presso la Hebrew University.

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Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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