di Chiara Cruciati,
Il Manifesto, 18 ottobre 2023.
Intervista all’intellettuale palestinese: quelle immagini ricordano la Nakba del 1948.
Nel suo ultimo romanzo, Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea, Suad Amiry racconta, con un’ironia che è solo sua, il trauma individuale e collettivo della Nakba del 1948, la cacciata dalle proprie terre dell’80% della popolazione palestinese dell’epoca, tra 800mila e un milione di persone. Nipote di rifugiati, rifugiata lei stessa, architetta e scrittrice, Amiry è autrice di opere fondamentali della narrativa palestinese, da Murad Murad a Sharon e mia suocera.
I volantini lanciati venerdì sul nord di Gaza dall’esercito israeliano – andatevene per la vostra sicurezza, tornerete a operazione conclusa – hanno fatto rivivere ai palestinesi quanto avvenuto 75 anni fa. Che ruolo ha l’immaginario dell’esodo sulla popolazione di Gaza e su chi vive fuori?
La cosa che mi ha più addolorato è stato vedere i palestinesi del nord di Gaza lasciare le loro case, per non andare da nessuna parte. Mi ha fatto rivivere il 1948. Abbiamo sempre detto che non ci sarebbe mai stato un altro abbandono delle nostre case. Ora lo vediamo in tv. Da bambina chiedevo con rabbia ai miei genitori perché se ne fossero andati. Abbiamo dato la colpa alle generazioni dei nostri genitori: perché ve ne siete andati? È un sentimento profondamente radicato. E lo riviviamo oggi: un milione di palestinesi è esattamente lo stesso numero che se ne andò nel 1948. Quelle stesse persone sono rifugiate del ’48. Un mio amico mi ha detto: «Se gli israeliani mi dicono che bombarderanno la mia casa, prenderò le mie figlie e me ne andrò, perché sono un padre e un essere umano». In tutte le guerre la gente scappa, nessuno guarda alla morte e la aspetta. Ci saremmo aspettati che il mondo dicesse a Israele che non si possono sradicare le persone dalle loro terre senza subire condanne.
Chiedono loro di spostarsi a sud di Gaza, ma anche lì non ci sono rifugi sicuri.
Queste persone sono originarie di città venti chilometri a nord della Striscia, Ashkelon, Ashdod. Se volete proteggerli, riportateli nelle loro case, a cui appartengono. Non chiedete all’Egitto di aprire il confine. Israele vuole cacciare i palestinesi e chiede ad altri Paesi di assumersi la responsabilità dei suoi atti criminali. Abbiamo bisogno di una soluzione politica. Senza porre fine all’occupazione, all’assedio di Gaza, agli insediamenti in Cisgiordania, non ci sarà una fine. Se non avremo una soluzione politica, vi assicuro che ci sarà un altro ciclo di ostilità.
Lei viaggia molto, ha una casa in Italia, in questo momento è negli Stati uniti. Come legge la reazione internazionale?
Siamo lasciati a morire, non importa a nessuno. È il messaggio che Europa e America ci stanno inviando. Non hanno valori. Dateci una guida su come resistere e noi la seguiremo. Ciò che mi fa arrabbiare più degli attacchi israeliani è l’animosità europea e statunitense contro i palestinesi. Il mondo assiste a bombardamenti di edifici con le persone dentro e si limita a guardare. Ora sono negli Usa: il sentimento contro i palestinesi è incredibile. In Germania cancellano la partecipazione a un festival letterario di Adania Shibli, una scrittrice, una donna pacifica. La stessa cosa in America: c’è stato un festival letterario all’Università della Pennsylvania a cui ho partecipato, stanno chiedendo alla direttrice di dimettersi perché ha ospitato dei palestinesi. Qualsiasi cosa facciamo, veniamo criticati. Se andiamo a un festival letterario, veniamo attaccati. Se vinciamo un premio, veniamo attaccati. Se a Gaza la gente si impegna in manifestazioni pacifiche per mesi, nemmeno se ne parla. E ora tutto il mondo è in rivolta contro di noi: non siamo uguali nella morte e non siamo uguali nella vita.
Lei ha vissuto la prima Intifada e il processo di Oslo. All’epoca né la disobbedienza civile popolare né il dialogo funzionarono.
Prima di Oslo ho partecipato ai negoziati per tre anni con il team palestinese a Washington. Ci facevano perdere tempo. Venivano e dicevano: oggi discutiamo di come dividerci le zanzare, argomenti senza senso solo per perdere tempo. Come se noi palestinesi venissimo dalla luna. Siamo le persone che vivono in questo Paese da sempre. Qual è la nostra colpa? Quando si vive una vita senza giustizia, si impazzisce. Oslo significava transizione per cinque anni. Cinque anni sono diventati 30. Vogliono uno Stato unico? Siamo pronti. Due Stati? Siamo pronti. Ma loro no. Vogliono continuare a occuparci e pretendono che restiamo zitti. Non do la colpa agli israeliani, incolpo gli europei: la prima cosa che l’Europa ha detto dopo il 7 ottobre è stato proporre il taglio degli aiuti ai palestinesi. Come può questo aiutare la pace? Dovremmo cercare soluzioni. Non dovremmo continuare solo a condannare Hamas o a condannare Israele. Voglio che l’Europa si alzi in piedi e dica: come poniamo fine al problema?
Serve tornare alla radice?
Trattano la situazione come se fosse iniziata il 7 ottobre, come non ci fosse un’occupazione lunga decenni. Condanno sicuramente e con forza qualsiasi uccisione di civili. Ma a livello militare, gli israeliani hanno fallito tremendamente nel proteggere il loro stesso popolo. E ora, invece di mettere Netanyahu sotto inchiesta, attaccano i palestinesi. Netanyahu dovrebbe essere imprigionato per la crudeltà che esercita sulla sua stessa società e su di noi. Quanto è eroico attaccare civili dall’alto per compiacere il proprio popolo? Qual è lo scopo di tutto ciò, sbarazzarsi di Hamas? Posso assicurarvi che Hamas continuerà a esistere. Non sono una sostenitrice di Hamas, ma so leggere la realtà.
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