di Daoud Kuttab,
The Washington Post, 9 ottobre 2023.
Quello che è accaduto sabato in Israele non avrebbe dovuto sorprendere nessuno.
I funzionari palestinesi avevano ripetutamente parlato di un’esplosione se non ci fossero stati progressi politici nell’alleviare le sofferenze del loro popolo. Rivolgendosi all’Assemblea Generale dell’ONU, Re Abdullah II di Giordania ha detto: “Senza chiarezza sul futuro dei palestinesi, sarà impossibile trovare una soluzione politica a questo conflitto. Cinque milioni di palestinesi vivono sotto occupazione – senza diritti civili, senza libertà di movimento, senza voce in capitolo sulle loro vite”. Recentemente, l’intelligence egiziana avrebbe avvertito Israele di una catastrofe in assenza di progressi politici.
I leader palestinesi, il re di Giordania e i funzionari egiziani sapevano che, senza speranza, qualcosa avrebbe ceduto.
Il defunto presidente israeliano Shimon Peres era solito citare un proverbio arabo: Fil haraka baraka – il movimento è una benedizione. Purtroppo, da anni non c’è movimento sul fronte politico. Gli ultimi colloqui pubblici tra israeliani e palestinesi si sono conclusi nel 2014 e, all’epoca, il Segretario di Stato americano John F. Kerry ha dato la colpa agli israeliani per la loro sospensione.
Da allora non ci sono stati colloqui, anche se tre presidenti degli Stati Uniti – Barack Obama, Donald Trump e Joe Biden – hanno invocato l’inutile mantra della soluzione a due Stati.
L’assenza di un processo politico è stata aggravata dalle recenti tensioni religiose. Tre giorni prima dell’attacco di Hamas, la Giordania, custode riconosciuta dei luoghi santi di Gerusalemme, ha inviato una lettera all’ambasciata israeliana ad Amman protestando per il fatto che “visitatori” ebrei avevano iniziato a pregare ad alta voce sull’area della Moschea di al-Aqsa. Allo stesso tempo, la polizia israeliana ha imposto una restrizione di età che impedisce ai giovani musulmani palestinesi di entrare nella moschea stessa. Mentre i leader laici palestinesi potrebbero essere aperti a un compromesso politico, i leader religiosi sono molto meno flessibili quando sono in gioco questioni di fede.
I nazionalisti ebrei israeliani stanno mettendo a repentaglio un accordo sullo status quo, da tempo accuratamente orchestrato riguardo ai luoghi santi musulmani, e le loro azioni hanno danneggiato anche la comunità cristiana di Gerusalemme. Il mese scorso a Roma, il patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha sollevato la situazione con Papa Francesco e ne ha parlato nelle conferenze stampa e durante la sua prima omelia. Ha persino detto che Gaza è una “prigione aperta” – un’affermazione che ha fatto arrabbiare gli israeliani che sono stati ciecamente indifferenti per così tanto tempo da non essere in grado di ascoltare i consigli nemmeno dei loro amici.
Gli attacchi di sabato 7, accuratamente pianificati, hanno prodotto atrocità che non possono essere negate o giustificate. Nessuna giusta causa può legittimare il massacro di innocenti dall’altra parte. Ma hanno anche rivelato una verità fondamentale: i popoli vogliono sempre essere liberi da occupazioni e insediamenti coloniali stranieri sulla propria terra.
I palestinesi non sono riusciti a liberare la loro terra con mezzi politici. Gli sforzi negoziali di Mahmoud Abbas, presidente della laica Autorità Palestinese, sono andati a vuoto, così come ha fallito l’attivismo non violento per boicottare Israele. Di conseguenza, ai palestinesi religiosi non è rimasta altra scelta che tentare di affrontare direttamente l’oppressione del proprio popolo.
Non c’è alcun mistero su ciò che deve accadere in seguito. Anche se è più basso di prima, il sostegno alla soluzione dei due Stati sia tra gli israeliani sia tra i palestinesi è più alto che per qualsiasi altra alternativa. Ma per avere uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele è necessario il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti hanno ripetutamente esercitato il loro veto contro la stessa soluzione a cui rendono omaggio a parole.
Non appena la violenza si placherà, il Presidente Biden dovrebbe coraggiosamente riconoscere uno Stato palestinese indipendente e democratico che viva in pace accanto a un Israele sicuro. Questa mossa non avrebbe bisogno della benedizione del Congresso. Una volta che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU avesse riconosciuto uno Stato palestinese sotto occupazione, i colloqui produttivi tra i rappresentanti dello Stato di Israele e quelli dello Stato di Palestina potrebbero iniziare seriamente.
Questo tipo di proposta può sembrare una cosa velleitaria al momento, ma non c’è altra strada da percorrere.
Daoud Kuttab, giornalista palestinese, è stato professore di giornalismo alla Ferris University di Princeton.
https://www.washingtonpost.com/opinions/2023/10/09/gaza-war-israel-palestinians-recognition/
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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