“I Territori palestinesi sono diventati una prigione a cielo aperto”

Intervista di Anna Maria Selini,  

Altreconomia, 1 settembre 2023. 

Il secondo rapporto della Relatrice Speciale Francesca Albanese denuncia gli arresti su larga scala, la violazione dei diritti e il pervasivo controllo delle autorità israeliane sugli abitanti dei Territori occupati. L’abbiamo intervistata.

Un uomo cammina lungo le strade del campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, devastato da un violento raid militare dell’esercito israeliano a inizio luglio. © Epa/Alaa Badarneh

Ha coniato un neologismo Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, nel suo secondo report, per spiegare il sistema al quale sono sottoposti i palestinesi: carcerialità (dall’inglese carcerality di memoria foucaultiana). “Un carcere a cielo aperto -spiega- in cui tutti i palestinesi, detenuti o meno, sono sottoposti a un controllo costante, parte di un’occupazione votata a permettere la colonizzazione”. Il documento, presentato ufficialmente lo scorso luglio al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, è il secondo report ufficiale presentato da Albanese da quando ha assunto l’incarico di Relatrice speciale nel maggio 2022.

Relatrice, perché ha scelto di dedicare il suo secondo Rapporto a questo tema?
FA
 Innanzitutto perché i numeri destano grave preoccupazione. Tra il 1967 e il 2006 Israele ha incarcerato più di 800mila palestinesi nei Territori occupati. Circa settemila (di cui 882 bambini) sono stati arrestati nel 2022 e attualmente ci sono cinquemila palestinesi (di cui 155 minori) detenuti: 1.014 senza processo o accusa, in regime di detenzione amministrativa. E tutto questo in un’occupazione anormale dal punto di vista della durata, dell’intensità e di ciò di cui si è fatta veicolo, ovvero la protezione delle colonie, che per le Nazioni Unite ammontano a circa 300, abitate da oltre 700mila persone.

La documentazione degli abusi contro i palestinesi detenuti dalle autorità israeliane è massiccia già dai primi anni dell’occupazione, ma in modo sistematico dalla prima Intifada (1987-1993): parliamo di maltrattamenti e di uso regolare della tortura, che è stata in qualche modo regolamentata dalla Corte suprema israeliana, mai messa al bando, come il diritto internazionale vorrebbe. Negli ultimi anni le detenzioni amministrative sono aumentate, così come gli arresti di minori in condizioni estremamente violente. Penso alle incursioni notturne di soldati in assetto da guerra che invadono, con una caratteristica persecutoria, interi villaggi, svegliando famiglie, violando l’intimità della casa, picchiando e umiliando adulti e bambini, per poi portare via questi ultimi. Insomma, ho deciso di capire un po’ meglio di che cosa si trattasse.

Lei scrive che i Territori occupati palestinesi si sono trasformati in un panopticon, cioè un carcere sorvegliato completamente e permanentemente. Che cosa significa?
FA
 Il concetto di panopticon non mi era venuto in mente prima della ricerca per questo report. Con questo studio mi è parso di unire i puntini e la cosa più esorbitante per me è stata capire quali sono i motivi, le ragioni “legali” che portano all’arresto e alla detenzione dei palestinesi su larga scala. E, sottolineo, solo dei palestinesi. Perché ai civili israeliani e ai coloni che vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non si applica la legge militare, come ai palestinesi, ma tutt’altro regime. Ed è chiaro che anche questo “dualismo legale” è una manifestazione di apartheid. Quando parlo di carcere a cielo aperto intendo il contesto generale di ingabbiamento dei palestinesi, di cui l’incarcerazione è uno degli strumenti. Ci sono barriere fisiche ovunque, che non sono quelle di una prigione, ma che ne hanno l’estetica.

Basti pensare ai checkpoint, al muro, alle barriere che circondano le colonie che a loro volta circondano villaggi e città palestinesi, impedendo loro di crescere. La realtà fisica del territorio occupato è frammentata, davvero un arcipelago di “palestinità”. Siamo abituati a definire Gaza come la più grande prigione a cielo aperto, ma è solo la parte sottoposta a un regime carcerario di massima sicurezza, rispetto al resto. Alla fisicità dell’ingabbiamento, inoltre, si somma un’altra forma di controllo, meno visibile, ma altrettanto pervasiva: quella della burocrazia. I palestinesi devono fare domanda per qualsiasi istanza di vita civile: dalla costruzione di una casa, alla scelta di dove risiedere. Si pensi che è impossibile per loro trasferirsi in Cisgiordania o per uno di Gaza andare a vivere a Gerusalemme. Quella in cui sorgono i villaggi di Masafer Yatta è considerata zona militare: anche andare a scuola o coltivare la propria terra sono atti considerati illegali.

Per finire, c’è un controllo digitale estremamente pervasivo, attraverso migliaia di telecamere a circuito chiuso che riprendono qualsiasi spazio pubblico palestinese. C’è il monitoraggio dei social media e delle connessioni telefoniche, non tanto per spiare le conversazioni, ma per mappare tutti i dati esistenziali. Questo ha portato a un aumento degli arresti e delle detenzioni amministrative, in base al mero sospetto che il palestinese sia implicato in un’attività “ostile”. Ma quasi tutto è considerato tale nell’ottica delle forze di occupazione: 411 organizzazioni, inclusi i maggiori partiti palestinesi, le principali organizzazioni di volontariato e le Ong che si occupano di diritti umani sono registrate come “ostili” dall’apparato militare. Alcune addirittura sono state definite terroriste. Lo chiamo un panopticon, perché è una prigione controllata proprio dall’interno.

Quali sono gli strumenti che permettono al sistema di funzionare?
FA
 Gli ordini militari, che vengono applicati in base all’occupazione, che di per sé nel diritto internazionale non è illegale. La potenza occupante può “legiferare”, ma non stravolgendo l’ordine normativo locale e soprattutto non violando gli interessi della popolazione occupata, che invece è quello che Israele fa in quanto potenza occupante, abusando dello strumento normativo. E poi c’è la forza fisica, il dispiegamento di un intero esercito contro una popolazione civile che poi si difende opponendosi all’occupazione, generalmente in modo pacifico, a volte come resistenza armata (ma questa è decisamente una parte minoritaria).

È nella natura stessa di un’occupazione brutale e che dura da 56 anni che il popolo che vi è sottoposto si ribelli: in questo contesto i palestinesi hanno fatto ricorso e potrebbero ancora ricorrere all’uso della forza, nei confronti dell’occupazione che li opprime. È per questo che è necessario rivedere la situazione, alla luce delle norme internazionali. Eliminare tutto ciò che non vi si conforma. E riportare la situazione a un ordine che sia in linea con lo stato di diritto e la giustizia per tutti: palestinesi e israeliani.

Nel maggio 2022 Francesca Albanese ha assunto il mandato di Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967. Quello presentato lo scorso luglio è il suo secondo report.

Quali codici o convenzioni vengono violati attraverso questo sistema?
FA Il rapporto considera tre branche del diritto: umanitario, penale internazionale e diritti umani. Sulla base di questa analisi, ho individuato sei crimini: dalla privazione di un processo regolare e giusto, fino all’apartheid.

Lei scrive che i palestinesi vengono puniti quando cercano di esercitare i loro diritti fondamentali. Può fare degli esempi?
FA
 Succede a partire dal diritto più banale, la libertà di movimento: cioè poter entrare e muoversi come e quando si vuole nel territorio. L’architettura burocratica prevede un sistema di “etichettamento” di ogni palestinese in base a un possibile rischio sicurezza. A decidere dei diritti civili, in ultima battuta, sono i servizi segreti israeliani (lo Shin Bet) che hanno un potere assoluto e soprattutto inappellabile di determinare chi rappresenti un pericolo. Inoltre gli ordini militari sono vaghi e generici e proprio la vaghezza li rende soggettivi. C’è una norma che impedisce qualsiasi forma di assembramento, inclusa una veglia funebre, una protesta o qualsiasi cosa che non sia autorizzata dall’esercito. La condanna è di dieci anni di reclusione.

Come si smantella un sistema del genere?
FA Con il rispetto della legge internazionale e la volontà politica di applicarla: nel diritto internazionale c’è tutto quello che serve. Ciò significa ricorrere alle misure che la Carta delle Nazioni Unite offre: economiche, diplomatiche e politiche. Finché non attiviamo quelle, credo sia difficile immaginare un cambio di condotta da Israele.

Questo Rapporto a che cosa può servire?
FA Innanzitutto a una presa di coscienza di chi non sa o di chi fa finta di non vedere. Se veramente si vogliono la pace, la serenità e la sicurezza di tutti, in Israele e Palestina, il regime di apartheid con un’occupazione di tipo acquisitivo-coloniale deve essere superato: per questo il primo obiettivo del rapporto è la sensibilizzazione. Poi dipende molto dalla società civile, dall’uso che ne farà. Può servire alle Nazioni Unite e magari alla Corte penale internazionale, per cambiare rotta, perché fino a ora c’è stata passività e poca efficacia nell’approcciare la questione ai sensi del diritto internazionale. Infine, potrebbe contribuire a fornire un vocabolario nuovo. Mi auguro che sia di stimolo a una comprensione diversa del fenomeno, fuori dalla logica del sempiterno “conflitto”.

I report di Francesca Albanese sono disponibili sul sito dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (ohchr.org)

https://altreconomia.it/i-territori-palestinesi-sono-diventati-una-prigione-a-cielo-aperto/

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