di Tareq Baconi,
The New York Times, 10 luglio 2023.
LONDRA – I nostri schermi si riempiono ancora una volta di immagini di donne, bambini e anziani in lacrime che marciano per strada con le mani alzate o agitano indumenti bianchi da auto che procedono al passo. I palestinesi hanno già visto tutto questo, avendo vissuto una lunga storia di espulsioni dalle loro case e dai loro villaggi sotto la minaccia delle armi da fuoco.
Le immagini più recenti sono arrivate la scorsa settimana durante l’invasione israeliana del campo profughi di Jenin nella Cisgiordania occupata. Reporter e ambulanze della Mezzaluna Rossa palestinese faticavano a raggiungere i feriti, perché impediti da ostacoli militari.
In una celebrazione del 4 luglio (Independence day in USA) a Gerusalemme, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato che l’esercito israeliano ha attaccato “l’obiettivo più legittimo del pianeta: persone che annienterebbero il nostro paese”. Si riferiva a mesi di resistenza armata contro i coloni israeliani da parte di giovani del campo profughi di Jenin.
Più di 20 anni fa, un altro primo ministro di destra, Ariel Sharon, condusse una vasta campagna militare contro lo stesso campo profughi. Erano trascorsi due anni dalla seconda Intifada palestinese. Gli attentatori suicidi palestinesi, alcuni dei quali provenivano da Jenin, avevano sconvolto le strade israeliane. In risposta, l’esercito israeliano invase la Cisgiordania e devastò il campo profughi di Jenin, allora, come oggi, centro della resistenza palestinese.
Le due invasioni si sono svolte in contesti molto diversi. L’illusione di dividere il territorio in due stati si è disintegrata tra il 2002 e il 2023. Esiste ora solo nei discorsi diplomatici, svuotati di ogni significato e sostituiti invece da un consenso tra le organizzazioni internazionali e israeliane per i diritti umani, tra cui B’Tselem, Human Rights Watch e Amnesty International, che Israele sta praticando il crimine dell’apartheid contro i palestinesi, confermando così ciò che i palestinesi sostengono da lungo tempo.
Per la maggior parte degli ebrei israeliani, questo cambiamento è appena percettibile, poiché continuano a essere efficacemente tenuti all’oscuro del costo pagato dai palestinesi per le politiche del loro governo. I palestinesi, nel frattempo, stanno vivendo una crescente disperazione e stanchezza, schiacciati da una violenza strutturale e quotidiana. Mancando qualsiasi speranza di un proprio stato e senza una guida politica capace di guidare la lotta, alcuni affrontano la situazione con varie forme di resistenza armata o disarmata, altri sono apatici o preoccupati dallo sforzo paralizzante di sostenere le loro famiglie, e molti vivono nella paura.
Nel 2002, sebbene i negoziati mediati dagli americani avessero vacillato un round dopo l’altro, c’era ancora la speranza – e l’aspettativa – che un processo di pace riprendesse. La soluzione dei due stati veniva pubblicizzata come l’unica opzione per la pace. Il quadro della spartizione territoriale – secondo cui Israele si sarebbe ritirato dai territori che aveva occupato nel 1967 in cambio della pace con i palestinesi e con i suoi vicini arabi – era l’approccio politico dominante.
Ma con la fine della Seconda Intifada, Israele ha intensificato le sue misure pratiche per espandere l’occupazione e minare la soluzione dei due stati, pur mantenendo la pretesa diplomatica di impegnarsi negli sforzi di pace. Con il finanziamento di donatori occidentali e arabi, Israele ha pacificato la Cisgiordania con incentivi neoliberisti anche se stava svuotando il fulcro della sua economia e ha frammentato il territorio palestinese con l’espansione degli insediamenti. Ha messo in atto misure di coordinamento della sicurezza con l’Autorità Palestinese, trasformando il governo palestinese in un partner chiave per controllare la resistenza locale. L’Autorità Palestinese, da parte sua, ha avviato un vasto programma di costruzione dello stato, nel tentativo di proiettare l’immagine di un’autorità in pieno controllo e in procinto di gettare le fondamenta di un futuro stato palestinese.
Sotto Sharon, Israele ha anche riconfigurato unilateralmente la sua occupazione della Striscia di Gaza, smantellando i suoi insediamenti e avviando un disimpegno territoriale che i fautori della soluzione dei due Stati hanno celebrato – forse credendoci, ma ingenuamente – come un passo verso la pace, che dimostrava la possibilità di un ritiro territoriale israeliano che spianasse la strada a un eventuale stato palestinese.
Come Jenin, anche la Striscia di Gaza ha una storia di resistenza contro l’occupazione israeliana. Con l’ascesa al potere di Hamas nel 2006, Israele, in coordinamento con l’Egitto, ha rafforzato un blocco ermetico sulla Striscia, separandola di fatto dal resto della Palestina, e ha sperimentato tecniche militari per costringere la popolazione alla sottomissione.
Accanto alle politiche di restrizione alimentare e al soffocamento economico, ciò ha assunto la forma di ripetuti e devastanti assalti militari. I militari si riferivano a questa dottrina come “falciare il prato“, cioè l’uso di una forza militare sproporzionata per indebolire periodicamente la resistenza palestinese e gestire una popolazione irrequieta e intollerante del controllo israeliano.
La scorsa settimana, Israele ha riportato in Cisgiordania questo approccio militare perfezionato nella Striscia di Gaza, isolando il campo profughi di Jenin, colpendolo dal cielo e dal suolo e distruggendo infrastrutture cruciali per l’acqua e l’elettricità come forma di punizione collettiva.
Nel periodo intercorso tra le due invasioni di Jenin, i palestinesi di tutta la Cisgiordania sono stati sistematicamente incanalati – attraverso l’espropriazione di terreni, la demolizione di case e l’espansione degli insediamenti – in centri urbani isolati e circondati da terre occupate da Israele. Proprio come a Gaza, la maggior parte dei centri urbani della Cisgiordania può ora essere, da un giorno all’altro, completamente separata dall’ecosistema che li circonda, come si è visto a Jenin.
Oggi non c’è bisogno che i funzionari israeliani addolciscano le loro politiche per paura di rappresaglie diplomatiche, o per scongiurare un’eventuale divisione in due stati. La trasformazione della cultura politica israeliana, accelerata dopo la violenza della Seconda Intifada e l’impunità di cui Israele gode a livello internazionale, è culminata nel governo più di destra della storia israeliana.
Nei due decenni intercorsi tra queste invasioni, i funzionari israeliani hanno reso esplicito il loro desiderio di consolidare quello che il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha definito “un regime di supremazia ebraica” in tutte le aree sotto il loro controllo. Meno di due settimane prima dell’ultima invasione a Jenin, il ministro israeliano della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, ha incitato il governo a lanciare un’offensiva militare, sollecitando un’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. “Ci deve essere un insediamento completo qui”, ha detto. “Dobbiamo insediarci nella terra di Israele e allo stesso tempo dobbiamo lanciare una campagna militare, far saltare in aria edifici, assassinare terroristi. Non uno o due, ma dozzine, centinaia o, se necessario, migliaia”.
Nel frattempo, l’Autorità Palestinese, vacillante per il naufragio dei piani per un suo stato, è stata irreversibilmente integrata nella struttura dell’apartheid israeliano, mantenendo un’autorità simile a un bantustan, che aiuta a pacificare la sua popolazione a beneficio degli israeliani.
Al di sotto di questo contesto in evoluzione c’è una singolare costante: la capacità di Israele di sostenere il suo insediamento nel territorio palestinese senza doverne assumere alcuna responsabilità, ed equiparando la resistenza palestinese al terrorismo. Il fatto che questa situazione sia stata a lungo accettata dalle maggiori potenze occidentali è particolarmente irritante per i palestinesi all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, dove la resistenza all’occupazione illegale è salutata come eroica e viene sostenuta con armi e addestramento militare occidentali.
La comunità internazionale ha lasciato i palestinesi in una condizione permanente di popolo senza stato, negando loro il diritto all’autodeterminazione e all’autodifesa. Mentre i funzionari israeliani usano dichiarazioni apertamente razziste, dicendo, ad esempio, che Israele dovrebbe “spazzare via” un’intera città palestinese, l’amministrazione Biden sta spingendo per l’integrazione di Israele nella regione attraverso accordi di pace bilaterali, basandosi sugli Accordi di Abramo dell’amministrazione Trump, con appena un cenno ai diritti dei palestinesi.
I residenti del campo di Jenin, alcuni dei quali nel 1948 erano fuggiti dalle loro case che si trovavano in quello che oggi è Israele, sono di nuovo rifugiati. E alcuni dei bambini che erano nel campo nel 2002 sono ora i giovani della resistenza palestinese. Come ci ha insegnato la storia di altre lotte contro l’apartheid e la violenza coloniale, i bambini di oggi prenderanno senza dubbio le armi per resistere a una simile dominazione in futuro, finché queste strutture di controllo non saranno smantellate.
Tareq Baconi è l’ex analista senior per Israele/Palestina presso l’International Crisis Group e autore di “Hamas Contained”. È presidente del consiglio di al-Shabaka: The Palestine Policy Network.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
.