La Palestina è stata distrutta in 12 mesi, ma la Nakba è andata avanti per 75 anni

di Ilan Pappe,

Middle East Eye, 15 maggio 2023.   

La Nakba ha devastato le vite e le aspirazioni del popolo palestinese. Solo un processo approfondito di giustizia restitutiva, con l’aiuto del mondo, può iniziare a riparare i torti subiti.

Una sostenitrice dei diritti della Palestina con i colori della bandiera palestinese dipinti sul viso durante una marcia in occasione del 75° anniversario della Nakba, o “catastrofe” della creazione di Israele, a Brooklyn, New York, il 13 maggio 2023 (AFP)

All’inizio del febbraio 1947, il gabinetto di governo britannico decise di porre fine al Mandato sulla Palestina e lasciare il paese dopo quasi 30 anni di governo.

La crisi economica della Gran Bretagna dopo la Seconda Guerra Mondiale aveva portato al potere un governo laburista, disposto a ridurre l’impero e a soddisfare i bisogni della popolazione delle isole britanniche. La Palestina si rivelò un peso e non più una risorsa, poiché sia i nativi palestinesi sia i coloni sionisti stavano ora combattendo contro il Mandato Britannico e ne chiedevano la fine.

Il dado fu tratto in una riunione di gabinetto del 1° febbraio 1947 e il destino della Palestina fu affidato all’ONU, un’organizzazione internazionale allora inesperta e già indebolita dall’inizio della guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’URSS.

Ciononostante, le due superpotenze acconsentirono, in via eccezionale, a permettere ad altri stati membri di offrire una soluzione a quella che fu chiamata “la questione palestinese”, senza la loro interferenza.

La discussione sul futuro della Palestina fu trasferita al Comitato Speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (Unscop), composto dagli stati membri. Questo fece infuriare i palestinesi e gli Stati membri della Lega Araba, che si aspettavano che la Palestina post-mandataria fosse trattata come qualsiasi altro stato mandatario della regione, ossia permettendo alla popolazione stessa di determinare democraticamente il proprio futuro politico.

Nessuno nel mondo arabo avrebbe accettato di permettere ai coloni europei in Nord Africa di partecipare alla determinazione del futuro dei nuovi Paesi indipendenti. Allo stesso modo, i palestinesi rifiutarono l’idea che il movimento coloniale sionista – composto per lo più da coloni arrivati solo due anni prima della creazione dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati della Palestina (UNRWA) nel 1949 – potesse avere voce in capitolo sul futuro della loro patria.

I palestinesi boicottarono l’Unscop e, come temevano, il Comitato propose la creazione di uno Stato ebraico su quasi metà della loro patria, come si legge nella risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvata il 29 novembre 1947.

La leadership sionista accettò la spartizione della Palestina (visto che accoglieva il principio di uno stato ebraico), ma non aveva intenzione di aderirvi nella pratica, poiché metà della popolazione sarebbe stata comunque palestinese e lo spazio assegnato sarebbe stato solo la metà del Paese ambito dal movimento sionista.

Piano generale della pulizia etnica

Già da più di 30 anni, gli storici hanno portato alla luce abbastanza materiale d’archivio declassificato, proveniente principalmente da Israele, per esporre la strategia sionista dal novembre 1947 alla fine del 1948. Nel corso del mio lavoro, ho definito la strategia sionista di quel periodo come un piano generale per la pulizia etnica della Palestina.

Il passare del tempo, la conoscenza di un maggior numero di materiali e i progetti palestinesi di storia orale, sempre più numerosi e cruciali, non hanno fatto che confermare l’adeguatezza di questa definizione agli eventi che i palestinesi chiamano Nakba.

Negli ultimi anni, una vecchia definizione del sionismo come movimento di insediamento coloniale è stata ripresa dagli studiosi che si occupano della storia della Palestina. Questa definizione spiega chiaramente perché la leadership sionista non avrebbe mai potuto accettare una spartizione della Palestina.

Come ogni altro movimento coloniale, si trattava di un movimento di europei che erano emarginati nel loro continente e dovevano crearsi una nuova vita altrove, di solito in luoghi già abitati da altre persone.

La necessità di eliminare le popolazioni indigene divenne il tratto distintivo di tali movimenti, portando ad esempio al genocidio dei nativi americani in Nord America.

Avere la maggior parte della nuova terra con il minor numero possibile di nativi era già un tema centrale dell’ideologia e del movimento sionista fin dalla sua nascita. Il dominio britannico aveva impedito qualsiasi acquisizione significativa di terre (meno del sei per cento delle terre della Palestina erano di proprietà sionista prima del 1948). Ma nella terra acquistata dai sionisti, soprattutto attraverso compere dall’élite palestinese e dai proprietari terrieri assenti che vivevano fuori dalla Palestina, i contadini locali furono ripuliti etnicamente con l’approvazione delle autorità britanniche.

La leadership sionista iniziò a pianificare la pulizia etnica della Palestina nel febbraio 1947 e le prime operazioni ebbero luogo già un anno dopo sotto il naso delle autorità britanniche mandatarie.

Nel febbraio 1948, la leadership sionista doveva affrettare le operazioni di pulizia etnica contro i palestinesi, iniziando con lo sgombero forzato di tre villaggi sulla costa tra Jaffa e Haifa. Gli Stati Uniti e altri membri delle Nazioni Unite avevano già iniziato a dubitare della saggezza di un piano di spartizione e cercavano soluzioni alternative. Il Dipartimento di Stato americano propose un’amministrazione fiduciaria internazionale di cinque anni sulla Palestina per dare più tempo a ulteriori negoziati.

Fatti sul campo

Quindi, la prima cosa che la leadership sionista fece fu quella di stabilire fatti sul terreno, anche prima della fine ufficiale del mandato (prevista per il 15 maggio 1948). Ciò significava ripulire i palestinesi dalle aree assegnate dall’ONU allo Stato ebraico e di conquistare il maggior numero possibile di città della Palestina.

I palestinesi non erano militarmente all’altezza dei gruppi paramilitari sionisti. Arrivarono alcuni volontari arabi, ma poterono fare ben poco per difendere i palestinesi dalla pulizia etnica. Il mondo arabo attese fino al 15 maggio prima di inviare truppe in Palestina.

Il fatto che i palestinesi fossero del tutto indifesi tra il 29 novembre 1947 (quando fu adottata la risoluzione di spartizione delle Nazioni Unite) e il 15 maggio 1948 (giorno in cui terminò il mandato e arrivarono le unità degli Stati arabi confinanti per cercare di salvare i palestinesi) non è un mero fatto cronologico. Sfata categoricamente la principale affermazione della propaganda israeliana sulla guerra, secondo la quale i palestinesi sarebbero diventati rifugiati perché il mondo arabo ha invaso la Palestina e ha detto loro di andarsene; un mito che troppe persone nel mondo accettano ancora oggi.

Secondo questa narrazione, se il mondo arabo si fosse astenuto dall’attaccare Israele, i palestinesi avrebbero potuto sfuggire al destino di rifugiati ed esiliati.

Quasi un quarto di milione di palestinesi erano già rifugiati prima del 15 maggio 1948 e un mondo arabo riluttante inviò i suoi eserciti per cercare di salvare i rimanenti.

Quasi tutti i palestinesi che vivevano ad Haifa e Giaffa furono rimossi con la forza dalle loro case e le città di Bisan, Safad e Acri furono completamente spopolate. I villaggi circostanti subirono un destino simile. Nell’area intorno alle pendici occidentali delle montagne di Gerusalemme, decine di villaggi furono sottoposti a pulizia etnica e a volte, come accadde a Deir Yassin il 9 aprile 1948, le espulsioni furono accompagnate da massacri.

Le peggiori atrocità di Israele

L’ingresso degli eserciti arabi – Egitto, Siria, Giordania e Libano – nel maggio 1948 rappresentò una seria sfida per il nuovo Stato di Israele. Ma a quel punto la capacità militare della comunità ebraica era aumentata considerevolmente, con l’aiuto di armi provenienti dal blocco orientale, acquistate -con l’approvazione sovietica- dalla Cecoslovacchia che possedeva un gran numero di armi in eccedenza della Seconda Guerra Mondiale, lasciate dagli eserciti tedesco e russo. (All’epoca, Gran Bretagna e Francia avevano posto l’embargo sulle forniture di armi a tutte le parti interessate).

Di conseguenza, le forze israeliane sono state in grado di portare avanti missioni su due fronti: in primo luogo, contro gli eserciti arabi; in secondo luogo, continuando le operazioni di pulizia etnica, prendendo di mira soprattutto le aree concesse allo Stato arabo dalla risoluzione di spartizione delle Nazioni Unite.

L’operazione in Alta Galilea, in particolare, ha registrato alcune delle peggiori atrocità commesse dall’esercito israeliano durante la Nakba: in parte a causa della fiera resistenza di chi già conosceva il destino che li attendeva sotto l’occupazione israeliana; in parte a causa della stanchezza delle forze di occupazione, che hanno eliminato ogni precedente inibizione nel modo in cui trattavano la popolazione civile.

Nel massacro di al-Dawayima, vicino a Hebron, il 29 ottobre 1948, si stima che 455 palestinesi, metà dei quali donne e minori, siano stati giustiziati dai soldati israeliani.

Due aree della Palestina storica sono sfuggite al destino della pulizia etnica. L’area che divenne nota come Cisgiordania fu conquistata quasi senza combattere dalle forze giordane e irachene. Si trattava in parte di un tacito accordo tra Israele e Giordania, secondo il quale, in cambio di questa annessione, la Giordania avrebbe svolto un ruolo militare minimo nello sforzo complessivo degli arabi per salvare la Palestina.

Tuttavia, sotto le pressioni israeliane dopo la guerra, la Giordania concesse, durante i negoziati per l’armistizio, una parte di quella che avrebbe dovuto essere la sua Cisgiordania. Quest’area si chiama Wadi Ara e collega il Mediterraneo al distretto di Jenin.

Questa annessione poneva un problema a uno Stato coloniale di insediamento come Israele. Avere più territorio significava avere anche più palestinesi nello Stato ebraico. Così, furono effettuate alcune operazioni minori di pulizia etnica, per ridurre il numero di palestinesi che vivevano nel Wadi Ara.

Questa connessione tra geografia e demografia portò il primo Primo Ministro israeliano, David Ben-Gurion, a rifiutare le pressioni dei suoi generali per occupare la Cisgiordania (questi generali sarebbero diventati i politici che spingevano per l’acquisizione della Cisgiordania nella guerra del 1967 per compensare l'”errore” di non averla occupata nel 1948).

La Nakba in corso

Israele lasciò in pace anche un’altra zona, che divenne nota come Striscia di Gaza. Si tratta di un rettangolo artificiale di terra che Israele creò come enorme ricettacolo per le centinaia di migliaia di profughi che aveva ripulito dalla parte meridionale della Palestina e permise all’Egitto di mantenerla come area occupata militarmente.

Sulle rovine dei villaggi palestinesi, Israele ha costruito insediamenti (spesso utilizzando una versione ebraica del nome arabo – per cui Saffuriya è diventata Tzipori e Lubya è diventata Lavi) o ha piantato parchi, cercando di cancellare ogni traccia della cultura, della vita e della società che ha distrutto in nove mesi nel 1948.

Metà della popolazione palestinese è diventata profuga e centinaia di villaggi sono stati demoliti e le città de-arabizzate dalle forze di occupazione.

La Nakba ha distrutto un Paese, ma anche vite e aspirazioni del suo popolo. L’enorme capitale umano che la società palestinese aveva sviluppato è stato investito, attraverso i rifugiati, in altri Paesi arabi, contribuendo al loro sviluppo culturale, educativo ed economico.

Il messaggio del mondo a Israele era che la pulizia etnica della Palestina, ben nota in Occidente, era accettabile, soprattutto come risarcimento per l’Olocausto e per i secoli di antisemitismo che avevano afflitto l’Europa.

Quindi, Israele ha continuato la sua pulizia etnica dopo il 1967, quando un altro spazio occupato ha portato più persone “indesiderate”. Questa volta la pulizia etnica è stata incrementale e continua fino ad oggi.

Tuttavia, i palestinesi sono ancora lì, dimostrando un’incredibile resilienza e resistenza: accanto alla Nakba in corso, c’è un’intifada in corso e, finché Israele non renderà conto di ciò che ha fatto e sta facendo, la colonizzazione continuerà, così come la lotta anticolonialista contro di essa.

L’unico modo possibile per rimediare ai mali del passato è il rispetto del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e la creazione di un unico Stato in tutta la Palestina storica, basato sui principi di democrazia, uguaglianza e giustizia sociale.

Questo deve essere costruito attraverso un processo di giustizia restitutiva che compensi le persone per la perdita di terre, carriere e vite da parte del nuovo Stato e con l’aiuto del mondo.

Ilan Pappe è professore di storia, direttore del Centro Europeo di Studi sulla Palestina e condirettore del Centro di Studi Etnopolitici di Exeter presso l’Università di Exeter.

https://www.middleeasteye.net/opinion/israel-palestine-nakba-destroyed-twelve-months-gone-on-75-years

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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