di Yonatan Mendel,
Sidecar, 15 novembre 2022.
Prima sono arrivate le battute. L’umorismo nero come naturale risposta alla frustrazione e alla delusione. “Com’è andata ieri?”, ha gridato dal balcone il mio vicino di casa a Tel-Aviv, anch’egli di sinistra, in pantaloncini e senza maglietta, sorseggiando il suo caffè mattutino il giorno dopo le elezioni. “Non benissimo”, ho gridato di rimando, proseguendo velocemente verso l’asilo nido. “Spero che tu ti sia divertito molto a votare”, ha detto, con una deliberata enfasi sul “divertito molto”. “Perché?”, ho chiesto. “Perché”, ha risposto, felice di aver raggiunto la battuta finale, “era la tua ultima volta!”
Le elezioni israeliane del 1° novembre sono state davvero piuttosto scioccanti. Per la prima volta dalla sua fondazione nel 1992, Meretz (il partito della sinistra sionista) è stato estromesso dal Parlamento, così come Balad (un partito arabo-palestinese che si batte per rendere Israele “uno Stato per tutti i suoi cittadini”). Contemporaneamente, abbiamo assistito alla spettacolare ascesa della lista nazional-religiosa, composta dal partito Sionismo Religioso guidato da Bezalel Smotrich (arrestato nel 2005 insieme ad altri cinque attivisti di destra per aver tramato di “far esplodere auto sull’autostrada Ayalon”, secondo il Vice capo dello Shin-Bet) e dal partito neofascista Otzma Yehudit (“Forza Ebraica”) guidato da Itamar Ben-Gvir (condannato nel 2007 per incitamento al razzismo e sostegno a un’organizzazione terroristica). La loro piattaforma comune è stata sostenuta da quasi l’11% degli elettori israeliani e ha ottenuto 14 seggi. Il partito di destra Likud dell’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ottenuto 32 seggi, mentre il partito di centro dell’attuale premier Yair Lapid ne ha ottenuti 24. Il Partito Laburista – la principale forza politica durante i primi tre decenni della storia di Israele e un importante protagonista anche in seguito– ne ha ottenuti solo 4.
Naturalmente, la democrazia israeliana non aveva nulla di cui vantarsi prima delle ultime elezioni. Il cosiddetto “governo del cambiamento” del Paese, durato dal giugno 2021 al novembre 2022, era in larga parte costituito da partiti di centro e centro-destra che erano uniti dall’opposizione a Netanyahu e che vedevano il suo processo per corruzione in corso come una vergogna nazionale. La coalizione includeva anche gli ultimi resti della sinistra israeliana e, in modo controverso, la Lista Araba Unita. Il suo programma interno ruotava attorno al buon governo, alla stabilizzazione del sistema politico e all’approvazione di un bilancio statale per la prima volta in tre anni. Ma rispetto all’occupazione, all’assedio di Gaza e al rifiuto di negoziare con l’Autorità Palestinese non era molto diverso da quello della precedente amministrazione Netanyahu. La camicia di forza sionista di Israele può consentire un certo spazio per un dibattito su questioni interne, ma i suoi confini sono chiari.
La più reazionaria Knesset della storia giurerà il 15 novembre. Tuttavia, questo non deve essere letto come uno spostamento fondamentale a destra. È piuttosto il risultato sia di varie manovre strategiche di Netanyahu sia di processi a lungo termine nella società israeliana. Questi fattori del cambiamento possono essere individuati analizzando la storia recente di due raggruppamenti politici: i partiti religiosi ebraici da un lato e i partiti arabo-palestinesi dall’altro.
Partiamo dal primo: Netanyahu molto probabilmente formerà il suo governo con la seguente composizione: Likud (32 seggi), Sionismo Religioso (14 seggi), Shas (il partito ortodosso sefardita, 11 seggi) e Yahadut Hatorah (il partito ultraortodosso aschenazita, 7 seggi). Il premier entrante può facilmente mettere insieme questo blocco di 64 seggi, in un parlamento di 120 membri, con il sostegno automatico di tutti e tre i partiti religiosi ebraici (che rappresentano sia i Mizrahi sia gli Aschenaziti), che sono ora considerati “alleati naturali” della destra sionista. Tuttavia, questa non è affatto una situazione naturale. È il risultato del piano a lungo termine di Netanyahu di far entrare i partiti religiosi, ortodossi e anche ultraortodossi – che sono in larga parte non sionisti – nel suo progetto politico, che ha definito come la quintessenza dell'”ebraicità”. Il vecchio detto dice che “la Torah ha settanta facce”, ma Netanyahu e l’estrema destra gliene hanno data una sola. Per i partiti religiosi, l’estrema destra è ora una stretta collaboratrice mentre i centristi e la sinistra sono diventati l’Altro anti-ebraico per eccellenza – il che, alla lunga, lascia poche speranze per un nuovo cambio di guardia.
In secondo luogo, ma non meno astuta, è stata la strategia di Netanyahu nei confronti dei partiti arabi e dei cittadini palestinesi di Israele. Durante il suo precedente mandato, Netanyahu ha rafforzato l’approccio “divide et impera” di Israele nei confronti dei palestinesi – provocando la disintegrazione totale della Lista Araba Unita– ed è riuscito a cementare la fantasiosa associazione tra i partiti arabi e il terrorismo, screditando così le loro critiche all’occupazione. Dopo che la Lista Araba Unita si è unita alla fragile coalizione di Lapid, Netanyahu (e la destra in generale) hanno continuamente reiterato l’affermazione secondo la quale il nuovo governo “dipendeva dai sostenitori del terrore”. L’efficacia di questa calunnia ha mostrato quanto si sia radicato il discorso sul “terrorismo”, grazie anche agli altri attori politici sionisti dal cosiddetto centro alla sinistra (Lapid, per esempio, si è rifiutato di incontrare i leader di Hadash e Ta’al, entrambi partiti arabi). Mediante questa retorica, Netanyahu ha creato una formula generale per la quale a qualsiasi arabo-palestinese è richiesto di dimostrare di non essere un terrorista. Tale delegittimazione ha un chiaro scopo strategico: rendere quasi impossibile per gli arabo-palestinesi dar voce alle proprie opinioni e distruggere le condizioni per una stabile coalizione centrista o di centro-sinistra.
In altre parole, classificando i partiti religiosi come di destra e i partiti arabi come terroristi, Netanyahu ha reso impensabile qualsiasi coalizione tra ebrei e arabi. Quel che rende questa strategia così di successo, e così pericolosa, è la sua apparente irreversibilità. Nei prossimi quattro anni, il governo adotterà misure straordinarie per blindare la sua egemonia. Ha in programma di introdurre una “clausola di annullamento” che consentirà al Parlamento di annullare le sentenze della Corte Suprema, abolendo di fatto la separazione tra i poteri e assicurando che il processo di Netanyahu si concluda senza condanna. Netanyahu sfrutterà anche l’impotenza del diritto internazionale, insieme con le buone relazioni di Israele con la nuova destra autoritaria in Europa, Asia e Medio Oriente, per realizzare il sogno dell’annessione de facto dell’Area C in Cisgiordania.
Nonostante le parole del mio vicino, è molto probabile che andremo ancora alle urne quando il nuovo governo avrà completato il suo mandato. Ma la domanda è quali opzioni avremo noi –per non parlare dei palestinesi– dopo altri quattro anni di Netanyahu e sionismo religioso.
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Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina
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