Scegliere la pace non significa disertare

di Nichi Vendola

02 Marzo 2022

Non credo di essere un disfattista se immagino un’Europa che intervenga con tutta la sua energia per fermare e non per implementare la guerra. Posso dirlo o sarò fucilato come disertore?

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La guerra scoppia anche nel vocabolario, si combatte nella mobile trincea dell’immaginario, arruola e porta al fronte sentimenti, giudizi, saperi. La sua prima vittima è la pace, che non è solo violata dalle immagini atroci dei bombardamenti, delle città assediate, delle vite schiantate, dei vecchi e dei bambini stipati nei rifugi. La pace è uccisa come discorso pubblico, come paradigma politico-culturale, è bandita come codice di comportamento, banalizzata e ridotta al rango di retorica ornamentale. E da sempre la propaganda bellicista irride a chi sceglie di non indossare l’elmetto, a chi obietta e pone domande, a chi sceglie l’alfabeto e i gesti della nonviolenza.

Insomma, a ogni giro di boa torna a imperare l’atroce e fasulla saggezza del “si vis pacem, para bellum”. La pace sembra nient’altro che l’omelia domenicale, la “predica inutile” dei santi, il cinematografo dei buonisti, la musica leggerissima del “C’era un ragazzo che come me” e del “mettete i fiori nei vostri cannoni”. Il realismo del pensiero dominante rappresenta come credibile solo una pace a mano armata, pesante, cingolata, magari una pace atomica. Anche perché viviamo in un mondo in cui gli apparati industriali militari sono i dominatori del cielo e della terra, delle cose visibili e invisibili, e le carneficine di guerra sono un momento topico dei loro business. Ed è come se avessimo culturalmente delegato alla guerra la missione della pace, prefigurando il più stupefacente degli ossimori: e cioè la “guerra pacifista”. Così come in anni recenti invocammo la guerra umanitaria o la guerra esportatrice di democrazia.

Oggi la pace la possono dire solo gli strateghi militari. Il guaio è che non si compie mai un bilancio di verità delle guerre fatte, non ci sono lezioni da apprendere a Kabul o a Bagdad o a Tripoli o a Damasco, ripetiamo lo stesso copione stereotipato per il nemico di turno riducendolo alla parodia di Hitler. La guerra non ammette discorsi fondati sulla complessità del reale, riduce tutto a bene e male, rende reciprocamente caricaturali i confliggenti, inibisce quel processo concreto di pace che comincia dal riconoscimento del nemico come interlocutore da ascoltare e non più come target da abbattere.

Come tutti, ho la morte nel cuore vedendo le immagini di Kiev e delle altre città ucraine assediate dalle armate di Putin. Mi fa molta rabbia pensare che l’autocrate russo era un’icona pop o un buon amico dell’Occidente quando mandava l’esercito a massacrare i ceceni, quando faceva incarcerare o avvelenare i suoi oppositori, quando invadeva la Crimea, quando a Mosca saltavano per aria centinaia di giornalisti d’inchiesta, quando la sua “grande Russia” legalizzava la persecuzione dei gay e delle donne.

Quanta ammirazione, nei ranghi dei populisti, per l’erede degli zar e per una democrazia asfittica, stretta in una morsa infernale, limitata, censurata, con un potere oligarchico, mafioso e criminale a presidiare i propri interessi. Del resto non ci eravamo fatti mancare neppure un bivacco con Gheddafi. Del resto vendiamo armi ad Al Sisi. Com’è noto i diritti umani si vendono sulle bancarelle elettorali e si comprano solo quando chiamano in causa territori strategici per la geo-politica o per i commerci globali. Uno schifo di cui sarebbe igienico parlare.

Per i “putiniani” di ieri, oggi basta una piroetta, basta cambiare lato della storia: non sia mai a sedersi dalla parte del torto. Putin ora è il nemico e non si può fare altro che la guerra, rifondando addirittura l’Europa nel nome delle armi. Questo è oggi, prosaicamente. Eppure prima o poi sentiremo l’urgenza di fermarci un attimo a discutere della mortificante evaporazione dell’Onu e del diritto internazionale, delle alleanze politico-militari in un mondo nuclearizzato e rigonfio di pulsioni nazionalistiche e di regressioni imperialistiche, dei diritti fondamentali delle persone e dei popoli in ogni angolo di universo.

Trent’anni fa, insieme a una carovana di pacifisti di tutto il mondo, ho attraversato i Balcani in fiamme e ho visto in faccia la guerra, quella nata dal fuoco delle “piccole patrie” e dalla miopia di un’Europa che guardava alla fine della Jugoslavia come a un bottino da spartirsi. Per me fu un’esperienza indimenticabile. Portavamo soccorso alla popolazione civile accerchiata e massacrata: viveri, medicinali, tende, anche giocattoli. E Sarajevo me la porto addosso come una cicatrice. Penso al gelo che c’era allora in Bosnia. E penso al gelo che c’è oggi in Ucraina, alla gente che muore di freddo e di fame nelle città assediate, ai feriti alle famiglie spezzate, allo spavento dei bambini.

Non credo di essere un disfattista se immagino un’Europa che intervenga con tutta la sua energia per fermare e non per implementare la guerra. Posso dirlo o sarò fucilato come disertore? Sono figlio di questo Occidente liberale, amo la democrazia e amo coltivare l’etica del dubbio: ma è permesso dubitare e dissentire in tempi di leva culturale obbligatoria? Sono figlio dell’Europa nata dalla sconfitta del nazi-fascismo e sono figlio dell’Italia dell’articolo 11 della Costituzione: “l’Italia ripudia la guerra”: Mi angoscia leggere un titolo di giornale che urla: “Ci armiamo, era ora”. Così le parole diventano proiettili e la guerra ci scoppia in testa. Scegliere la pace non significa disertare.

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