Israele e Palestina nel 2018: decolonizzazione, non pace

di Ilan Pappe

A 70 anni dalla creazione dello stato di Israele, non possiamo più parlare di un conflitto israelo-palestinese 

Al Jazeera, 14.05.2018

I fondatori dello stato di Israele si stabilirono in Palestina all’inizio del novecento. Arrivavano per lo più dall’Europa orientale, ispirati da ideologie nazionali romantiche molto difuse nei paesi di provenienza, delusi dall’impossibilità di essere integrati in quei nuovi movimenti nazionalisti e incoraggiati dalle prospettive del colonialismo moderno.

Alcuni erano veterani dei movimenti socialisti e speravano di fondere nelle nuove colonie nazionalismo romantico ed esperimenti socialisti. La Palestina non era sempre stata la loro unica opzione, ma diventò la scelta privilegiata quando fu chiaro che si adattava bene alle strategie dell’impero britannico e alla visione dei potenti cristiani sionisti su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Dalla dichiarazione balfour del 1917 (con cui il governo di Londra afermava di sostenere la fondazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina) e per tutto il periodo del mandato britannico tra il 1918 e il 1948, i sionisti europei cominciarono a costruire l’infrastruttura di un futuro stato con l’aiuto dell’impero britannico. oggi sappiamo che questi fondatori del moderno stato ebraico erano consapevoli della presenza di una popolazione autoctona, con una sua visione e le sue aspirazioni per il futuro.

Per i padri fondatori del sionismo la soluzione a questo “problema” consisteva nel dearabizzare la Palestina per spianare la strada all’ascesa del moderno stato ebraico. che fosse socialista, nazionalista, religiosa o laica, la leadership sionista già dagli anni trenta prese in considerazione l’idea dello spopolamento della Palestina. Verso la fine del mandato britannico, diventò chiaro ai leader sionisti che lo stato democratico che immaginavano poteva esistere solo sulla base di un’assoluta predominanza di ebrei nel suo territorio.

Pur accettando uicialmente la spartizione imposta il 29 novembre 1947 dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (consapevoli che sarebbe stata riiutata dai palestinesi e dal mondo arabo), i sionisti la consideravano disastrosa, perché prevedeva all’interno dello stato ebraico un numero quasi equivalente di palestinesi ed ebrei. Anche il fatto che la risoluzione concedeva allo stato ebraico solo il 54 per cento della Palestina era considerato del tutto insoddisfacente.

Successi e sconfitte

La risposta dei sionisti a questa situazione fu un’operazione di pulizia etnica che espulse metà della popolazione palestinese, distruggendo metà dei villaggi e la maggior parte delle città. Una reazione panaraba inadeguata e tardiva non impedì la conquista sionista del 78 per cento dei territori palestinesi.

Ma neanche questi “successi” potevano risolvere il “problema della Palestina” per lo stato d’Israele appena nato. All’inizio la questione sembrava gestibile: la minoranza palestinese all’interno di Israele fu sottoposta a un duro regime militare, mentre il mondo sembrava non mettere in discussione la pretesa israeliana di essere l’unica democrazia in Medio oriente. oltretutto, l’organizzazione per la liberazione della Palestina (olp) fu fondata solo nel 1964 e faticò a far sentire concretamente la sua presenza sul terreno.

All’epoca l’impressione era che i leader del mondo arabo, come il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, sarebbero accorsi in aiuto della Palestina. Ma il momento storico di speranza fu breve. La sconfitta dell’esercito egiziano nel giugno del 1967 e il suo parziale successo nell’ottobre del 1973 contribuirono a ridurre l’impegno egiziano per la causa palestinese. Da allora, nessun regime arabo si è più interessato realmente alle sorti della Palestina, nonostante la causa sia stata invece abbracciata in pieno dalle società civili di quei paesi.

La guerra del giugno 1967 consentì a Israele di prendere il controllo di tutta la Palestina mandataria, ma questo rese ancora più complicato il dilemma coloniale: più territorio signiica anche più popolazione autoctona.

La guerra trasformò anche la leadership dello stato ebraico: il pragmatico partito laburista fu sostituito da revisionisti e nazionalisti di destra meno preoccupati della reputazione internazionale di Israele. Al contrario, erano determinati a tenere i territori occupati come parte dello stato di Israele, continuando con altri mezzi la pulizia etnica avviata nel 1948: attraverso il trasferimento e l’isolamento della popolazione locale, la privazione di tutti i suoi diritti umani e civili fondamentali, e l’istituzionalizzazione di un nuovo quadro giuridico per la minoranza palestinese all’interno di Israele che perpetuava il suo status di cittadinanza di serie b.

La resistenza palestinese, che ha portato a due intifade e a continue proteste nel paese, non ha impedito a Israele di creare all’inizio di questo secolo uno stato che discrimina chi non è ebreo in tutta la Palestina storica. Ignorata dai paesi arabi e dal resto del mondo, la resistenza dei palestinesi ha provocato una reazione talmente feroce da parte di Israele da intaccarne il prestigio morale internazionale.

Ma la “guerra al terrore” seguita agli attacchi dell’11 settembre 2001, le conseguenze negative dell’invasione angloamericana dell’Iraq prima e delle primavere arabe poi hanno permesso a Israele di mantenere le sue alleanze strategiche con le élite politiche ed economiche in occidente e non solo (anche in cina, in India e perino in Arabia Saudita).

Questo ambiguo ruolo internazionale non ha compromesso inora la situazione economica di Israele, che resta un paese altamente tecnologico, con un’economia neoliberista che ha superato senza diicoltà la crisi economica del 2008, ma ha uno dei più alti livelli di disuguaglianza tra i paesi dell’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (ocse).

Questa instabile situazione socioeconomica ha fatto nascere nel 2011 un movimento di protesta molto ampio ma piuttosto inefficace.

I presupposti per una nuova grande ondata di protesta ci sono ancora, e a scatenarla potrebbe bastare un’altra rivolta dei palestinesi o una guerra causata dalle politiche irresponsabili del presidente statunitense Donald Trump e del primo ministro israeliano benjamin Netanyahu. Entrambi al momento stanno facendo del loro meglio per trascinare Israele in un conflitto con l’Iran e con Hezbollah.

Una nuova visione

A settant’anni dalla sua fondazione, Israele è uno stato razzista che pratica l’apartheid, e la sua oppressione strutturale dei palestinesi resta il principale ostacolo alla pace e alla riconciliazione.

Israele è riuscito molto bene a fondere comunità ebraiche provenienti da tutto il mondo in una nuova cultura ebraica e ha creato il più potente esercito della regione. Ma per molti tutti questi successi non l’hanno legittimato agli occhi del mondo.

Paradossalmente solo i palestinesi, lavorando per la soluzione dello stato unico, potrebbero dare piena legittimità a uno stato simile o accettare come legittima la presenza di milioni di coloni ebrei.

Il processo di pace guidato dagli Stati Uniti dal 1967 ha completamente ignorato la questione della legittimità di Israele e la prospettiva palestinese del conlitto. Questa mancanza, insieme a una diplomazia che non ha mai messo in discussione l’ideologia sionista della maggior parte degli ebrei israeliani, è una delle principali ragioni del fallimento del processo di pace.

Nel 2018 ormai non si può più parlare di conflitto arabo-israeliano. I regimi arabi aspirano a stabilire relazioni strategiche con Israele nonostante l’opposizione dei loro cittadini. E anche se c’è ancora il rischio di una guerra tra Israele e Iran, in questo momento sembra che non coinvolgerà nessun paese arabo.

Ormai è inutile anche parlare di conflitto israelo-palestinese. Per descrivere correttamente l’attuale situazione bisognerebbe parlare di colonizzazione a oltranza della Palestina storica, o come la chiamano i palestinesi al nakba al mustamirra, la catastrofe perenne. così, dopo settant’anni, dobbiamo ricorrere a un termine apparentemente obsoleto per descrivere il processo che potrà davvero portare pace e riconciliazione in Israele e in Palestina: decolonizzazione. In che modo esattamente avverrà è ancora tutto da vedere. richiederà prima di tutto una posizione palestinese più unita e più chiara sulla soluzione politica o una nuova visione del progetto di liberazione.

Una visione simile sarà appoggiata dagli israeliani progressisti e dalla comunità internazionale, che dovranno fare la loro parte. Dovranno impegnarsi per creare una democrazia per tutti, basata sulla restituzione dei diritti negati ai palestinesi negli ultimi settant’anni, primo tra tutti il diritto dei rifugiati a tornare nelle loro terre.

Non è un piano a breve termine, e richiederà una continua pressione sulla società israeliana ainché rinunci ai suoi privilegi e afronti la realtà, l’unico modo possibile di arrivare alla pace e alla riconciliazione in un paese dilaniato.

Ilan Pappe

Ilan Pappe è uno storico israeliano. È il direttore dell’European center of Palestine studies all’Università di Exeter, nel Regno Unito.

Traduzione da Internazionale n.1256

https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/israel-palestine-2018-decolonisation-peace-180514073500781.html

 

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