Trump e Gerusalemme: una valutazione legale e storica.

Mag 23, 2018 | Riflessioni

Proprio come Lord Balfour prima di lui, Trump sta cercando di imporre una visione unilaterale della complessa realtà di Gerusalemme.

di Lorenzo Kamel

Al Jazeera, 6 dicembre 2017

La Cupola della Roccia e la Città Vecchia di Gerusalemme dalla torre di David [Ronen Zvulun/Reuters]

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha affermato che è l’ora di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. La decisione arriva settant’anni dopo la Dichiarazione della fondazione di Israele, che fu annunciata unilateralmente il 14 maggio 1948 da David Ben-Gurion. All’epoca non furono fissati confini per il nuovo stato. È anche per questo motivo che l’ingresso di Israele nelle Nazioni Unite (ONU) divenne ben presto una priorità strategica. L’ingresso nell’ONU, infatti, era e rimane “il modo più sicuro e rapido” per ottenere un riconoscimento ampio o addirittura universale.

Eppure, la richiesta iniziale di ammissione d’Israele all’ONU venne rifiutata dal Consiglio di Sicurezza il 17 dicembre 1948. Il secondo tentativo di ammissione avvenne il 24 febbraio 1949. “Le trattative”, assicurò l’allora Ministro degli Affari Esteri israeliano Abba Eban all’Assemblea Generale dell’ONU, “non avrebbero comunque riguardato lo stato giuridico di Gerusalemme, che sarebbe stato definito da un accordo internazionale”.

Queste impegnative rassicurazioni –che furono la base per l’ingresso di Israele nelle Nazioni Unite– venivano fatte un anno dopo la guerra del 1947-48 (vedi i “mantra sacri” di Uri Aynery circa l’ostinato rifiuto [degli Arabi]): nessuno degli eventi storici dei successivi settant’anni le può legalmente cancellare. Tanto più che, quando nel 1980 Israele approvò una legge fondamentale che dichiarava Gerusalemme “intera e unita” come “la capitale di Israele”, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottò la Risoluzione 476 in cui si afferma che “provvedimenti che hanno alterato il carattere geografico, demografico e storico della Città Santa di Gerusalemme sono dichiarati nulli”.

Questa Risoluzione era in linea con i principi giuridici affermati 35 anni prima. Nel giugno 1945, infatti, la Conferenza di San Francisco, nell’articolo 80 dell’Atto Costitutivo dell’ONU, stabiliva che l’organizzazione ha il potere necessario per concludere accordi fiduciari che potrebbero alterare diritti in essere pattuiti sotto il precedente Mandato per la Palestina. Nel Piano di Partizione (Risoluzione 181, 29 novembre 1947), l’Assembla Generale dell’ONU specificò chiaramente la decisione di stabilire un governo fiduciario internazionale a Gerusalemme.

L’importanza della storia

Ferme restando queste considerazioni, gli aspetti giuridici da soli non riescono a spiegare perché qualsiasi atto relativo a Gerusalemme finisce solo per innescare ulteriori polarizzazioni. Infatti è la storia a mostrarci le ragioni di fondo per cui la decisione unilaterale di Trump, o i suoi tentativi, sono destinati a produrre disastri.

Nonostante le crescenti rivendicazioni dogmatiche israeliane, “Uru-Shalem” (la città “fondata da Shalem”, una divinità venerata dai Cananei) edificata dagli stessi Cananei circa 5.000 anni fa, non è mai appartenuta a una singola popolazione in tutta la sua storia. Questa rappresenta una ulteriore ragione per cui, per sua natura, Gerusalemme deve essere condivisa internazionalmente, o almeno bilateralmente.

Molto tempo prima delle tre religioni monoteiste, Al-Haram al-Sharif, l’area in cui si trovava il tempio di Salomone, ospitava un luogo di devozione per i Cananei. È da notare che, nell’uso biblico, Gerusalemme è spesso chiamata “Sion”, l’altura dove i suoi abitanti originari costruirono la fortezza dell’attuale città. “Siyon” è un termine di origine cananea che può essere tradotto come “collina” o “altura”.

All’inizio del secolo scorso, quasi l’80 per cento degli abitanti della città vivevano in rioni e quartieri misti. Nelle memorie di Yaacov Yehoshua, Yaldut be-Yerushalayim ha-yashena, l’autore ricorda che nella città “c’erano quartieri comuni di ebrei e arabi. Eravamo come un’unica famiglia […] I nostri bambini giocavano con i loro bambini [dei musulmani] nel cortile e, se i bambini del vicinato ci facevano del male, i bambini arabi che vivevano nella nostra zona ci proteggevano. Erano nostri alleati.”

Tutto ciò non vuol dire che i conflitti interreligiosi e/o confessionali fossero storicamente sconosciuti. Alcuni scontri sono stati documentati già dal medioevo. Però la loro natura e la loro estensione sono difficilmente paragonabili a quelle dei tempi più recenti. E soprattutto, essi non rispecchiano la storia autentica della maggior parte del passato di Gerusalemme (e delle regioni confinanti).

È vero, la “storia autentica” e gli equilibri locali, soprattutto nell’era tardo ottomana, non sono stati percepiti da tutti gli osservatori allo stesso modo, soprattutto da quelli esterni. Nel 1839, William T. Young, primo vice-console britannico a Gerusalemme, notò, ad esempio, che un ebreo a Gerusalemme era considerato “poco più di un cane”. Young stesso, comunque, dovette riconoscere che, in caso di necessità, un ebreo avrebbe trovato rifugio “piuttosto nella casa di un musulmano che in quella di un cristiano”.

Inoltre, gli osservatori esterni erano soliti fornire opinioni molto diverse e, a volte, contraddittorie. Solo pochi anni dopo Young, nel 1857, il Console britannico a Gerusalemme James Finn, segnalò, ad esempio, che “ci sono pochi paesi al mondo dove, nonostante le apparenze, vi sia tanta effettiva tolleranza religiosa come in Palestina”.

Ma è soprattutto negli atti giudiziari che si può valutare fino a che punto le comunità locali si percepissero, durante gli anni di Finn e negli altri periodi della storia ottomana, come elementi costitutivi del contesto ottomano. Lo storico americano Amnon Cohen, che spese anni a studiare i documenti conservati negli archivi del Tribunale religioso della Sharia (la legge islamica) della Gerusalemme ottomana, trovò 1000 casi promossi da ebrei tra il 1530 e il 1601.

Gli ebrei preferivano usare il Tribunale islamico della Sharia piuttosto che la loro corte rabbinica: “I sudditi ebrei del Sultano”, afferma Cohen, “non avevano motivo di lamentarsi del loro status o risentirsi per le loro condizioni di vita”. Gli ebrei della Gerusalemme ottomana godevano di autonomia religiosa e amministrativa all’interno di uno stato islamico e, in quanto soggetti utili e dinamici per l’economia locale e la società, potevano –e lo fecero per davvero– contribuire al suo funzionamento.

Punti di vista esterni: uno schema che si ripete

Arthur Balfour, che diede il suo nome alla Dichiarazione del 1917, visitò la Palestina per la prima volta in vita sua nel 1925. In quell’occasione, presiedette all’apertura dell’Università Ebraica di Gerusalemme, accompagnato da Chaim Weizmann e da sua moglie Vera.

Nonostante Balfour avesse una conoscenza assai limitata della realtà locale, la sue azioni si basavano sull’assoluta convinzione che le idee che stava abbracciando erano “radicate in tradizioni di lunga data, nelle necessità del presente, in speranze future di ben più profonda importanza dei desideri e pregiudizi dei 700.000 Arabi che ora abitavano quelle antiche terre”.

Ogni osservatore e storico può avere un’opinione diversa di questi aspetti e della strategia di Balfour. “La verità”, affermò Oscar Wilde, “è di rado immacolata e non è mai semplice”. Ciononostante, rimane il fatto che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, non diversamente da Arthur Balfour un secolo fa, sta imponendo una visione unilaterale della realtà locale, senza conoscere molto del suo complesso passato e del presente. A pagare il prezzo di tutto questo saranno, ancora una volta, sia gli Israeliani che i Palestinesi.

Lorenzo Kamel

Lorenzo Kamel insegna Storia degli Spazi Coloniali all’Università di Bologna ed è membro senior dell’Istituto Affari Internazionali (IAI).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/trump-jerusalem-legal-historical-appraisal-171206150511502.html

Traduzione di Gigliola Albertano

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