Questa intervista, rilasciata da Luisa Morgantini nel 2010 a Il Manifesto, potrebbe essere stata scritta oggi!
Dalla Valle del Giordano, una volta granaio della Palestina.
Dove per esistere si resiste.
Intervista a Luisa Morgantini, già Vicepresidente del Parlamento Europeo, di rientro da un viaggio in Palestina.
A cura di Barbara Antonelli. Agosto 2010
Privati dell’accesso alle risorse idriche e all’elettricità, circondati da colonie e aree militarmente chiuse, utilizzate per esercitazioni militari, sotto occupazione israeliana dal 1967, i residenti della Valle del Giordano resistono. Tra demolizioni e confisca di terra agricola, questa è una delle comunità più vulnerabili dell’intera area C della Cisgiordania, la zona sotto controllo israeliano (sia amministrativo che militare). Una popolazione ridotta all’osso, attraverso un processo di espulsioni, passato sotto il silenzio dei media, lontano dai riflettori: 56.000 residenti oggi, contro gli oltre 300.000 prima del 1967.
Una delegazione dell’Associazione per la Pace, accompagnata da Luisa Morgantini, già Vicepresidente del Parlamento Europeo si é recata in visita alla Valle del Giordano.
Luisa, in una settimana sei stata due volte nella Valle del Giordano, proprio pochi giorni dopo le ennesime espulsioni delle comunità beduine a nord. Cosa puoi dirci?
Se l’area C, il 60% della Cisgiordania occupata, è sinonimo di espulsione e di annessione coloniale, la Valle del Giordano lo è al quadrato. Una deportazione silenziosa attuata a colpi di demolizioni, sfratti forzati, furto della terra e delle risorse idriche, per far posto a oltre 30 colonie illegali: anche prima degli Accordi di Oslo, già con il Piano Allon, il governo israeliano voleva creare una zona cuscinetto di sicurezza, tra la Cisgiordania e la Giordania: annettere questa striscia di terra fertile che per 2.400 chilometri quadrati si snoda dalla Linea Verde al Mar Morto. Perché un’area epurata dai suoi residenti oggi, sarà di più facile annessione domani: del resto il Primo Ministro Netanyahu ripete da sempre che non cederà mai la Valle del Giordano, ma era anche lo stesso ritornello usato dalla campagna elettorale di Olmert nel 2006. E ritengo che questo preciso intento, per mantenere il controllo dell’area, oltre che teorizzato nel piano Allon, fosse già messo in pratica nella prima Intifada, quando ai residenti palestinesi di Nablus, imprigionati dal coprifuoco, veniva impedito di andare a mietere i loro raccolti, nelle loro terre, nella Valle del Giordano. Adesso è zona chiusa.
Dal 1967 ad oggi, il governo israeliano ha costruito le colonie, che attualmente occupano il 50% dell’area, mentre il 44% del territorio é stato dichiarato zona militare “Firing Zone”. Ai palestinesi resta un misero 6%. L’amministrazione civile (israeliana) pensa al resto, è il braccio esecutivo: emette gli ordini di demolizione, requisisce le risorse idriche, confisca anche i tank per l’accumulo dell’acqua, come é avvenuto a Bardala, o taglia le condutture, avvia i procedimenti legali per depredare le comunità beduine del poco che è loro rimasto. Un terzo delle risorse idriche di tutta la Cisgiordania sono nella Valle del Giordano: è atroce pensare che la gente che vive su questa terra senta l’acqua, un bene comune, un diritto per tutti, scorrere sotto i propri piedi, e non possa berla; crudele che debba lasciare assetate le proprie vacche, le proprie pecore, unico mezzo per la sussistenza di comunità che vogliono continuare a condurre al pascolo i propri animali. La compagnia israeliana Mekorot, scava e scava ancora, per costruire i pozzi che dissetano i coloni e irrigano le terre confiscate illegalmente. Non i palestinesi o le terre loro rimaste.
Il consumo di acqua per i palestinesi che vivono nella zona di Tubas è limitato a 30 litri al giorno, contro i 400 litri a disposizione del vicino insediamento di Beka’ot. I coloni della Valle del Giordano hanno a disposizione una quantità di acqua superiore di 6 volte a quella dei palestinesi. Nei casi in cui, come nei villaggi di Humsa e al-Hadidiya, le comunità locali hanno tentato di creare riserve d’acqua e sistemi di approvvigionamento locale, hanno subito una dura repressione da parte dell’esercito israeliano, che ha confiscato tutti i materiali e tagliato l’acqua. Così Israele mantiene il monopolio delle risorse idriche e obbliga i palestinesi a comprare l’acqua a 33 Nis al metro cubo, mentre 9.400 coloni ricevono sussidi e sconti (anche del 75%) per l’acquisto dell’acqua, e nello loro colonie nuotano nelle piscine. Lo stesso vale per la luce elettrica: i palestinesi vedono i fili della luce passare sulle loro teste e non possono utilizzarla, ogniqualvolta riescono ad agganciarsi, arrivano i coloni o i soldati ad arrestarli e a privarli dell’elettricità.
Il 19 luglio ad Al- Farisyia, a est di Tubas, l’esercito israeliano ha demolito oltre 76 strutture, lasciando senza casa intere famiglie, più della metà bambini. So che sei stata nella zona con una delegazione di giornalisti e diplomatici, organizzata dal Ministero dell’Informazione dell’ANP e dal governatorato di Tubas.
Abbiamo visto i bambini e gli uomini con i volti bruciati che ci hanno spiegato con un dolore senza lacrime la loro odissea, abbiamo visto i materassi, i mobili gettati all’aria, i forni taboun distrutti, le tende divelte: resti di quotidianità umana, famiglie oggi senza tetto costrette a spostarsi altrove per l’ennesima volta. Oltre il 30% delle comunità beduine é stata forzatamente sfollata almeno una volta dal 2000 a oggi. Ci sono famiglie che hanno spostato la loro tenda almeno 4 volte. Dove devono andare?
Nonostante da oltre 25 anni venga in Palestina, il viaggio da Tubas ad Al- Farisiya mi ha sconvolta: un paesaggio arido, brullo, pecore ammassate sotto l’ombra striminzita di un consunto telone, vacche smagrite che si fanno scudo dal sole dietro l’ennesimo blocco di cemento che avverte del pericolo “Firing Zone”, “zona dove si spara”. I blocchi di cemento messi dalle autorità israeliane sono ovunque, davanti alle tende beduine, lungo tutta la strada. E nelle esercitazioni militari israeliane, capita che i palestinesi rimangano feriti, come è avvenuto al sindaco di Al-Aqaba quando aveva 17 anni, rimasto paralizzato, sulla sedia a rotelle. E il check-point di Taysir, ignobile, per passare bisogna avere il coordinamento o i permessi; diplomatici e ministri, oltre agli abitanti, devono aspettare sotto il sole cocente (il diplomatico svizzero che era con noi non ha proprio usato parole diplomatiche per definire il comportamento dei soldati).
Un’espulsione silenziosa, ma anche una resistenza tenace.
Il comitato popolare di resistenza nonviolenta della Valle del Giordano, è un’altra esperienza straordinaria della Palestina: un movimento di pratiche nonviolente che il comitato promuove per accrescere le capacità e le competenze delle comunità locali. Una risposta all’occupazione israeliana, attraverso la mobilitazione e la solidarietà, ma anche attraverso l’impiego di tecniche di costruzione tradizionali, come la scuola che stanno realizzando nel villaggio di Jiftlik e dove andranno i bambini delle comunità beduine. L’esercito e l’amministrazione israeliana hanno già dato l’ordine di demolizione, loro distruggono e le comunità ricostruiscono: una risposta di resistenza nonviolenta all’occupazione che va valorizzata e sostenuta dai movimenti di solidarietà internazionale.
Le espulsioni della Valle del Giordano sono lontane dai media e dai riflettori, ma anche dal mondo degli aiuti umanitari e per anni anche dai vertici politici palestinesi. Cosa c’é da fare?
È vero, isolata geograficamente e politicamente, la Valle del Giordano, con alcune eccezioni, è lontana dall’attivismo militante dei gruppi di internazionali e di israeliani, che invece si sono giustamente mobilitati per la fine dell’embargo a Gaza, contro le espulsioni da Gerusalemme Est, a Sheikh Jarrah ma anche a Silwan o per la resistenza nonviolenta contro il muro e l’occupazione, accanto ai palestinesi nei villaggi della Cisgiordania. Ma é anche vero che oltre alla distanza geografica che isola le comunità, la Valle del Giordano come gran parte dell’area C è meno popolata delle altre zone della Cisgiordania; e c’è inoltre una distanza anche tra comunità, quelle stanziali e quelle seminomadi beduine.
Ma anche noi, uomini e donne dei movimenti e dei gruppi di solidarietà dobbiamo fare autocritica, perché con gli anni abbiamo abbandonato l’area C e la Valle del Giordano.
È importante lavorare perché cessi l’occupazione, e parte di questo è avviare delle campagne forti per fermare l’espansione delle colonie in questa area, dare acqua e luce alle comunità beduine, aiutare le famiglie più vulnerabili. Finalmente con il governo di Salam Fayyad anche l’Autorità Palestinese si è resa conto che la zona C è parte della Palestina occupata e quindi bisogna agire con aiuti e progetti. La scelta dell’ANP di chiedere alla comunità internazionale e alle ONG di intervenire in questa zona, sta avendo i primi risultati positivi, ma naturalmente Israele sta intensificando la politica repressiva e di distruzione.
Credo che l’ANP dovrebbe sfidare l’occupazione israeliana e la colonizzazione nella quotidianità, in ogni luogo possibile e non possibile.
La Valle del Giordano è Palestina occupata, non vi sono area A, B o C. Quanto tempo è stato perso!
E bisogna contare sulle proprie forze; è quello che il Comitato della Valle del Giordano, insieme a tutti gli altri comitati dei villaggi della Cisgiordania, stanno facendo, con una lotta popolare e nonviolenta. Come dice Fathi, dagli occhi limpidi e il viso cotto dal sole, impastando mattoni fatti con lo sterco e la sabbia, “esistere è resistere”.
Roma 7 Agosto 2010