di Jamal Zaqout,
Al-Quds, 25 marzo 2025.
La crisi che scuote Israele, guidata dalla lotta interna al suo sistema politico sulla cosiddetta “identità dello stato e sul suo carattere democratico”, ha raggiunto un punto in cui potrebbe andare fuori controllo. L’ex presidente della Corte Suprema Aharon Barak ha persino messo in guardia dal rischio di una guerra civile. Il governo guidato da Netanyahu ritiene di essere sul punto di realizzare il sogno sionista di risolvere in modo decisivo quello che percepisce come un conflitto esistenziale, eliminando la causa palestinese. Vede l’occasione non solo di imporre la propria sovranità sulla Cisgiordania e di effettuare la pulizia etnica a Gaza e in Cisgiordania, ma anche di estendere le proprie leggi sull’intero governo di Israele. Entrambi gli obiettivi sono due facce della stessa medaglia: gettare le basi per la “Grande Israele”, non solo attraverso la Palestina storica, ma anche sottomettendo l’intera regione.
La spinta razzista a completare ciò che il movimento sionista non è riuscito a realizzare nella Nakba del 1948 – la pulizia etnica totale – si sta intensificando, soprattutto dopo che l’estrema destra ha smantellato con successo il processo di pace, in particolare orchestrando l’assassinio di Yitzhak Rabin. L’assassinio di Rabin aveva lo scopo di bloccare qualsiasi discussione seria sulle questioni centrali del processo di pace, in particolare il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla creazione di uno stato indipendente sulle terre occupate dal giugno 1967.
Il dilemma fondamentale della crisi politica israeliana risiede nella natura intrinsecamente razzista dell’ideologia sionista. Esiste un consenso nazionale che rifiuta i diritti nazionali palestinesi, insieme all’illusione che un sistema democratico possa essere mantenuto su una base di supremazia razziale, come sancito dalla Legge sullo Stato-Nazione. Questa illusione è ulteriormente alimentata dalla profonda debolezza del movimento nazionale palestinese, che si è deteriorato fino a sfiorare il collasso. Questo deterioramento ha incoraggiato la destra israeliana a credere di poter risolvere il conflitto costringendo i palestinesi all’esilio, un’idea che è sempre stata una pietra miliare del progetto sionista fin dalla fondazione dello stato sulle rovine del popolo palestinese e dei suoi diritti nazionali. Anche le cosiddette correnti sioniste “moderate” non hanno mai visto un accordo con i palestinesi come qualcosa di più di un mezzo per gestire la minaccia demografica al futuro di Israele.
Ciò conferma che la crisi israeliana e la cosiddetta lotta sull’identità dello stato rimarranno probabilmente in un circolo vizioso, favorendo l’ascesa del neofascismo, a meno che altre fazioni della società israeliana non prendano una posizione ferma contro l’occupazione, riconoscano il diritto palestinese all’autodeterminazione e si impegnino in un duplice processo di fine dell’occupazione e di smantellamento del carattere razzista dello stato. Solo allora si potrà aprire la porta a una risoluzione storica, sia attraverso uno stato palestinese pienamente sovrano lungo i confini del 1967, sia attraverso uno stato democratico che rifiuti ogni forma di discriminazione razziale.
Nel frattempo, Israele conserva meccanismi democratici come le elezioni e l’impegno dell’opinione pubblica, che fungono da controllo contro il suo collasso interno. Al contrario, la situazione palestinese sta vivendo uno stato di frammentazione senza precedenti, che alimenta ulteriormente la voglia della destra fascista in ascesa di portare avanti i suoi piani. Da quando la Prima Intifada – radicata in profonde aspirazioni popolari e democratiche – è riuscita a creare una spaccatura all’interno della società israeliana riguardo al costo dell’occupazione, Israele ha lavorato instancabilmente per contenere questo cambiamento piuttosto che imparare da esso ponendo fine all’occupazione a beneficio di entrambi i popoli.
Nonostante il chiaro fallimento del processo di pace e il vero obiettivo di Israele di limitarsi a contenere le conquiste della Prima Intifada, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha rifiutato di condurre una rivalutazione critica che potesse rivitalizzare e unificare gli sforzi palestinesi sotto le istituzioni nazionali. Al contrario, ha continuato una strategia di pacificazione e di concessioni inutili, trascurando la necessità di costruire istituzioni in grado di rispondere ai bisogni della gente e di rafforzarne la resistenza. La divisione politica palestinese è stata una tragica conseguenza dell’assenza di una strategia unitaria che unisse i compiti di liberazione nazionale e di governance democratica. Questa divisione ha giocato direttamente nella strategia di Israele di impedire la creazione di uno stato palestinese, sia isolando Gaza dal più ampio quadro nazionale, sia tentando di spopolarla attraverso la distruzione di massa e lo sfollamento forzato, come sta accadendo oggi.
In questi anni di divisione, molto è cambiato e molto sangue è stato versato. Nonostante i numerosi tentativi di riconciliazione falliti e le politiche genocide in corso, le forze politiche palestinesi sono riuscite a formulare quella che oggi è nota come “Dichiarazione di Pechino”. Questa dichiarazione rimane una pietra miliare per uscire dall’attuale situazione di stallo, superare il fallimento del processo di pace e trovare un equilibrio tra il resistere all’aggressione israeliana e l’evitare un eccessivo ricorso ad alcune forme di azione militare.
Siamo a un bivio storico. Mentre i piani di genocidio e annessione avanzano, la soluzione non può risiedere nell’inseguire l’illusione di un accordo irraggiungibile o nell’aspettare che la società israeliana crolli sotto le sue stesse contraddizioni. La priorità assoluta deve essere quella di ricostruire e ringiovanire il movimento nazionale palestinese e il suo sistema politico, senza esclusivismo, accentramento o monopolizzazione del potere. L’autodeterminazione nazionale non è un bene privato. Non c’è alternativa all’unità e a un quadro democratico consensuale finché non si terranno le elezioni generali.
La domanda urgente per tutti i palestinesi – le fazioni politiche, i gruppi sociali e le varie iniziative popolari che rimangono attive – è: Cosa è disposto a fare ciascuno di noi per serrare i ranghi e costruire un ampio fronte nazionale che imponga un impegno collettivo per l’attuazione dell’Accordo di Pechino? Per riuscire in questa cruciale missione nazionale è necessario imparare dai fallimenti e dagli ostacoli che hanno impedito le precedenti iniziative volte all’unità nazionale. L’obiettivo finale deve essere quello di ripristinare l’OLP come un fronte nazionale veramente inclusivo che accolga tutte le forze politiche e sociali e preservi la diversità intellettuale e il pluralismo politico. Ciò riaffermerebbe l’OLP come legittimo e unico rappresentante del popolo palestinese, alla guida della lotta nazionale e democratica. Inoltre, dovrebbe fungere da autorità guida per un governo di unità transitorio, la cui missione principale sarebbe quella di fermare la guerra e prevenire lo sfollamento. Il suo slogan centrale deve essere: “Restare è resistere”.
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Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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