Mondoweiss, 20 gennaio 2025.
Nelle ultime ore prima del cessate il fuoco a Gaza, ho chiesto ai miei amici e familiari: “Qual è la prima cosa che farete?”. Dalle loro risposte, ho capito che la tregua non era un momento di gioia, ma un’occasione per far emergere il loro dolore a lungo rimandato.

La notte in cui è stata annunciata la tregua a Gaza è stata diversa: niente sonno, niente riposo, solo un’attesa che assomigliava alla vigilia di una festa. Ma questa volta, la festa non ha portato le risate dei bambini o le luci decorative. Tutti gli occhi erano fissi sull’orologio, in attesa dell’annuncio – la dichiarazione della fine di un bagno di sangue durato senza pausa per 15 mesi.
Tutti erano in uno stato di attesa. Ognuno aveva la propria risposta all’unica domanda che tutti facevano a parenti e amici: “Qual è la prima cosa che farai quando inizierà la tregua?”.
La mia amica Jumana ha parlato con voce roca, dicendo: “Piangerò. Sì, piangerò molto per coloro che sono partiti e non torneranno più. Per i martiri che sono andati via, lasciando dietro di sé un vuoto che nulla potrà colmare”.
La mia amica Noor ha espresso un altro volto del dolore, misto a speranza, dicendo: “Griderò e ballerò sulle macerie, non per gioia, ma perché il fiume di sangue si è finalmente fermato”.
Nada mi ha detto: “Ero seduta accanto a mia madre quando hanno annunciato la tregua. Lei ha afferrato rapidamente le foto dei miei fratelli martiri, Mahmoud e Ahmed, e ha iniziato a singhiozzare come mai prima. Non erano solo lacrime silenziose, erano pianti pieni di angoscia. Ha urlato: ‘La vita tornerà per tutti, tranne che per voi. Per me, la guerra inizia ora!”.
“Non riuscivo a calmarla: non erano semplici lacrime; erano lacrime ritardate, un dolore che era stato rinviato per troppo tempo. Mi sono unita a lei nel pianto, ma ero impotente di fronte al suo dolore”.
Mohammed Al-Rayes, un amico di famiglia, ha detto di aver atteso con ansia la tregua, non per festeggiare, ma per tornare al nord e cercare il luogo in cui le sue figlie erano state sepolte sotto le macerie.
Mervat mi ha detto: “Quando ho saputo della tregua, ho sentito un nodo alla gola. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata la mia casa distrutta. Ora non ho altro posto che questa tenda”.

Rania mi ha detto, in una telefonata dall’Egitto, che stava piangendo e ridendo allo stesso tempo. Ha detto: “Tornerò presto per abbracciare il suolo della mia patria. Una tenda nel mio paese è meglio di un palazzo in esilio”.
Ecco una conversazione che ho avuto con Amjad, il fratello della mia amica martire Hanin:
Io: “Come stai adesso? Non manca molto all’inizio della tregua e alla fine dello spargimento di sangue”.
Amjad: “Finalmente potrò recuperare i corpi della mia famiglia da sotto le macerie e seppellirli con la dignità che meritano”.
Non sono riuscita a trattenere le lacrime e ho pianto prima di lui. Hanin è stata martirizzata insieme a suo marito, alle sue figlie e a tutta la sua famiglia. Per un anno intero, i loro corpi sono rimasti sotto le rovine.
In quel momento, mi sono resa conto che la tregua non è altro che un tempo in cui riaffiora tutto il dolore e il dispiacere ritardato.
Mia cugina Hazar, ferita, mi ha parlato dall’ospedale. Mi ha detto: “Tutti qui parlano della fine della guerra e della tregua, ma io ho perso mio marito e sono rimasta sfigurata. Mio figlio, Osama, è venuto a trovarmi e non mi ha riconosciuta. Il mio corpo è bruciato, i miei arti sono frantumati e mi sottopongo a continui interventi chirurgici per impiantare placche di metallo. Quando gli ho parlato, ha urlato: ‘Voglio la mia mamma e il mio papà! Tu non sei la mia mamma, fai paura!”.
Io non riuscivo a trovare le parole per consolarla. Il suo caso è come quello di molti altri. Le ho detto: “Tutto questo passerà. Le ferite guariranno e un giorno Osama ti abbraccerà di nuovo”.
Questa stessa storia si è ripetuta altre volte e ho sentito che la tregua non è un momento di gioia. È un momento in cui le nostre lacrime represse esplodono.

Ogni risposta sanguinava dolore, emergendo da un cuore appesantito dall’angoscia. Una donna ha detto che avrebbe iniziato a liberare le strade dalle macerie per accogliere i suoi cari che erano stati sfollati a sud. Un’altra si è rifiutata di lasciare il sud prima di aver recuperato i corpi della sua famiglia da sotto le macerie, per poterli seppellire con la dignità che meritano.
Quando guardiamo alla guerra, scopriamo che i concetti di vittoria e sconfitta sono cambiati. La tregua è considerata una vittoria? Da una prospettiva religiosa, alcuni potrebbero vedere la pazienza e la resilienza come una forma di trionfo. Ma da una prospettiva umana e materiale, si tratta di una perdita amara.
La perdita non riguarda solo le case ridotte in macerie o gli ospedali e le scuole spazzati via. La vera perdita è nel bambino che ha perso le gambe e non sa più come giocare, nella ragazza il cui corpo è stato interamente bruciato e che ora ha paura di guardarsi allo specchio. La perdita è nel padre che ha perso i figli, nella moglie che ha perso il marito e nell’orfano che siede da solo, incerto su come ricostruire la sua vita.
La fine della guerra non significa la fine della sofferenza. Ci troviamo di fronte a migliaia di case distrutte, corpi non sepolti e persone con disabilità permanenti. Ora mancano ospedali, scuole e persino le basi della vita.
Ma nonostante tutto, abbiamo imparato una lezione. Il velo della paura è stato tolto dai nostri occhi. Abbiamo iniziato a elaborare lo shock e ad affrontare la realtà, per quanto amara. Non siamo più gli stessi. Siamo cambiati per sempre.
Prima dell’annuncio della tregua, gli attacchi si sono intensificati in modo selvaggio, come se la morte volesse reclamare il maggior numero possibile di vite negli ultimi momenti. Ho parlato ai miei cari, dicendo: “Aggrappatevi alla vita. State lontani dalle strade e dai raduni. Cercate di non morire negli ultimi momenti”.
Quei momenti prima della dichiarazione della tregua erano pieni di speranza e di paura, di gioia e di dolore. Sono la storia di tutti i palestinesi che hanno vissuto questa guerra, la storia di un popolo che ha sopportato il dolore, si è aggrappato alla vita di fronte alla morte ed è rimasto in piedi tra le rovine delle sue città e dei suoi sogni, cercando di ricostruire ciò che la guerra ha distrutto, anche se la sua anima rimane appesantita da ricordi e ferite.
Soha Ahmed Hamdouna è una 27enne palestinese di Gaza, moglie e madre di due figlie. Si è laureata presso la Facoltà di Ingegneria e Tecnologia dell’Informazione dell’Università Al-Azhar.
https://mondoweiss.net/2025/01/what-is-the-first-thing-you-will-do-after-the-truce/
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.