Il cessate il fuoco a Gaza rivela la fragilità di Israele e il potere di trasformazione della resistenza

di Abdaljawad Omar

Mondoweiss, 17 gennaio 2025.     

Sulla scia del cessate il fuoco, molti cercheranno di forzare il discorso in un binario di vittoria o sconfitta. Ma appena la polvere si sarà depositata, emergerà il quadro reale: quello della fragilità della colonia israeliana e del potere trasformativo della resistenza.

I palestinesi reagiscono alla notizia di un accordo di cessate il fuoco con Israele, a Deir al Balah, nella Striscia di Gaza centrale, 15 gennaio 2025. Secondo funzionari statunitensi e di Hamas, Israele e Hamas hanno concordato un accordo su ostaggi e cessate il fuoco, da attuare nei prossimi giorni. (Foto di Omar Ashtawy apaimages)

Il Ministro degli Esteri del Qatar, in un annuncio decisivo di mercoledì sera, ha confermato che Israele e il Movimento di Resistenza Islamica (Hamas) hanno finalizzato un accordo volto a fermare la guerra genocida e distruttiva di Israele nella Striscia di Gaza per almeno 42 giorni. Questo accordo è essenzialmente una rielaborazione dell’accordo di cessate il fuoco precedentemente proposto a maggio dall’amministrazione Biden, quando Hamas dichiarò di accettare l’accordo di cessate il fuoco, mentre Israele lo respinse e continuò la guerra. Si è scoperto che Israele voleva guadagnare tempo sia per portare più distruzione e più morti a Gaza, sia per usare tutte le carte che aveva in mano per sottomettere Hezbollah in Libano. In questo contesto, il Qatar emerge ancora una volta come uno dei maggiori vincitori dell’accordo, consolidando il suo ruolo di nodo critico nel quadro della diplomazia regionale. Il piccolo stato del Golfo ha imparato l’arte di destreggiarsi tra gli avversari, facendo leva sulle sue relazioni con attori apparentemente inconciliabili per mediare laddove altri vacillano. In questo modo, Doha riafferma il suo ruolo di capitale degli accordi, in grado di rivolgersi a Trump con un semplice messaggio: se volete gli accordi, è qui che si fanno.

Per Donald Trump, l’accordo non è tanto una svolta diplomatica quanto un regalo ben confezionato per la sua narrazione. Gli consegna una storia incontestabile di trionfo – il ritorno dei prigionieri israeliani, la cessazione del conflitto – perfettamente adatta alla sua politica populista. Si inserisce perfettamente nella mitologia della sua presidenza: l’abile negoziatore, il leader che riesce dove altri falliscono, il distruttore che scuote le fondamenta di impasse radicate e status quo mortali.

Per quanto riguarda Joe Biden e la sua squadra di politica estera, invece, l’accordo serve come un triste epilogo del loro mandato: un’ombra sbiadita al timone del potere, che indugia ma è impotente. Se ne vanno come figli fedeli di un’eredità politica che richiede un’inflessibile fedeltà a Israele, una storia che ha richiesto la loro lealtà anche quando li ha messi a nudo. Sono liberali tragici, non semplicemente complici ma tragicamente costretti, testimoni e partecipi a un meccanismo di distruzione che precede il loro tempo e lo supererà. La loro difesa, quando arriverà, non si appoggerà sul loro operato ma sulla necessità, come se fossero vincolati da forze che sfuggono al loro controllo. Eppure, c’era una scelta. Hanno scelto la mostruosità e lasciano l’incarico ben sapendo che avrebbe potuto essere altrimenti.

Frantumata la narrazione di Israele

In Israele, l’accordo segna il disfacimento di una narrazione e la costruzione incerta di un’altra: un tentativo precario di passare dalla fantasia di una vittoria totale al pragmatismo di una vittoria sufficiente. Israele si confronta ora con i limiti delle sue aspirazioni, costretto a consolarsi con i suoi successi geopolitici. Questi includono il successo del suo apparato di intelligence nell’infiltrare la resistenza libanese e la sua capacità di esercitare un immenso potere distruttivo a Gaza e in Libano. Tuttavia, questi tanto celebrati risultati rimangono oscurati da contraddizioni irrisolte. Sotto la retorica trionfalistica si nasconde una domanda fondamentale: cosa ha ottenuto Israele, in termini tangibili?

Nonostante le affermazioni di successo strategico – un Hezbollah indebolito, un Iran ridotto e un Hamas malconcio – Israele non ha ottenuto la vittoria totale che cercava. Hezbollah rimane una forza efficiente, l’influenza regionale dell’Iran persiste e Hamas continua a ricordare i limiti delle campagne militari di Israele, mentre lo Yemen ha dimostrato la sua capacità di interrompere il traffico marittimo globale. I media mainstream amplificano le affermazioni di trionfo strategico, ma la realtà è molto più preoccupante: l’esercito israeliano, un tempo mitizzato, appare ora brutale e altamente inefficace, la sua aura di invincibilità si è infranta sulla scena globale.

La resa dei conti si estende oltre il campo di battaglia. I fallimenti dell’esercito – la sua incapacità di anticipare le minacce o di ottenere risultati decisivi – si ripercuoteranno lentamente nella società israeliana, mettendo a nudo le tensioni da tempo covate. I ritardi nella conclusione del cessate il fuoco, la priorità -per molte forze di destra- dell’espansione degli insediamenti rispetto al recupero dei prigionieri e il rifiuto degli Haredim di arruolarsi hanno approfondito le fratture interne. Queste tensioni sono ulteriormente aggravate dai tentativi di ridisegnare il quadro giuridico dello stato e dalle conseguenze economiche e sociali della guerra. Per uno stato che lega la sua sopravvivenza al dominio militare, queste crepe rivelano i limiti dell’unità dopo la guerra. La società israeliana dovrà ora fare i conti con i suoi crimini, i suoi successi e la sua nuova immagine nel mondo.

Il risultato più straordinario di Israele non sta nel garantire la vittoria, ma nel mostrare una devastazione implacabile, una capacità di distruggere su una scala immensa. Questa persistenza nella distruzione, piuttosto che nel raggiungimento della sicurezza, sottolinea fino a che punto Israele è disposto e autorizzato a spingersi. In questo paradosso risiede il suo fallimento più profondo: il crollo della sua narrazione etica e l’erosione della sua legittimità morale agli occhi del mondo.

Il cessate il fuoco mette in luce una crescente sfiducia nella promessa di sicurezza lungo le frontiere militarizzate di Israele, sia a nord che a sud. L’illusione di una fortezza impenetrabile si sta erodendo, mentre i confini rimangono instabili e gli avversari persistono. Gli israeliani che vivono alla frontiera sono costretti a confrontarsi con l’inquietante verità che i meccanismi progettati per garantire la loro sicurezza non sono più sufficienti, la loro efficacia è minata dalle realtà durature della resistenza e dell’occupazione.

Incapace di estinguere i palestinesi o le loro rivendicazioni politiche e non disposto a impegnarsi in una grammatica di riconoscimento, Israele si è condannato a una guerra perpetua. Questa condizione, lungi dal riflettere una forza, evidenzia la forte dipendenza di Israele dal suo patrono imperiale, il cui incrollabile sostegno è diventato più che mai essenziale per la sua continua supremazia legata al suo discorso razziale nella regione. La dipendenza dalla guerra lascia Israele in un percorso che non offre né risoluzione né riconciliazione, ma solo la persistenza delle sue contraddizioni e il suo ruolo nel definire le frontiere della mostruosità nel XXI secolo. Israele esce da questa guerra con un ambiente strategico mutato; alcuni di questi cambiamenti giocheranno a suo favore e gli permetteranno di guadagnare tempo. Ma ne esce anche avendo perso molto sul piano morale, politico e delle lotte intestine sociali e politiche.

Resistenza e questioni di inutilità ed efficacia

Il discorso palestinese che circonda Tufan al-Aqsa (Alluvione di Al-Aqsa) è intrappolato in un’implacabile fissazione sul binomio vittoria-sconfitta, riducendo la violazione del muro di Gaza del 7 ottobre a un freddo calcolo di utilità e risultati.

Questo quadro prevalente, intriso della logica della ragione strumentale, riconfigura la resistenza in uno schema sterile di mezzi e fini, separandola dalle sue radici storiche ed esistenziali. Inquadrare la questione come tattica – Tufan ha raggiunto i suoi obiettivi? – nasconde una dialettica più profonda tra necessità e futilità che infesta le decisioni palestinesi. Questa dialettica non si limita a oscillare tra l’azione e la disperazione, ma espone un intrappolamento sistemico: la resistenza emerge come una sfida al colonialismo, ma rimane intrappolata dalle stesse strutture che cerca di smantellare.

Per i critici della resistenza a Israele, questo intrappolamento diventa un’accusa costante. Secondo la loro logica, la resistenza sta comunque all’interno dell’apparato coloniale a cui si oppone, ridotta a una tragica inevitabilità priva di potere trasformativo. In questa visione, la resistenza non fa altro che fornire potere e opportunità per espandersi o riaffermarsi. Attraverso questa lente, Tufan, per alcuni palestinesi, diventa un esercizio futile.

In 15 mesi di guerra, le voci di coloro che si oppongono alla necessità della resistenza e ne mettono in dubbio l’efficacia hanno chiesto ad Hamas di arrendersi, consegnare le armi e chiedere pietà. Molti di coloro che hanno lanciato questo appello hanno sostenuto che Israele non avrebbe ceduto, non avrebbe rilasciato i prigionieri palestinesi e avrebbe continuato la guerra fino a quando non avesse cacciato i palestinesi da Gaza o annesso il territorio per costruire insediamenti. Sebbene l’accordo di cessate il fuoco non precluda un ritorno alla guerra e la ripresa di questo stesso processo, il ritorno dei palestinesi dal sud al nord di Gaza e il parziale ritiro delle truppe israeliane riflettono la portata e l’ampiezza delle concessioni israeliane. Queste concessioni sono arrivate durante una settimana particolarmente difficile per le truppe israeliane, con ben 15 soldati uccisi in tutta la Striscia, anche nel nord di Gaza.

In altre parole, il fatto stesso che sia stato raggiunto un accordo di cessate il fuoco – cessate il fuoco che attenua alcune delle peggiori ansie dei palestinesi – scardina la logica di coloro che sostengono l’inutilità della resistenza, anche se non del tutto. Rivela che Israele, nonostante i suoi piani di pulizia etnica a Gaza, è stato costretto a cedere. La resistenza resiste, Hamas rimane saldamente al potere e anche se dovesse abdicare al potere, tale abdicazione dovrebbe comunque passare attraverso Hamas stesso.

Sebbene il futuro rimanga incerto – fragile, con l’accordo che potrebbe rompersi da un momento all’altro e la minaccia di una nuova guerra che incombe -, la stessa esistenza dell’accordo demolisce la scommessa dei palestinesi allineati con l’inutilità della resistenza. Nelle prossime settimane, i prigionieri palestinesi lasceranno le carceri israeliane e gli sfollati a sud di Gaza torneranno a nord. Israele ha condotto una guerra punitiva, ma ha anche raggiunto un limite, dimostrando che la questione palestinese persiste nonostante la mostruosa volontà impiegata da Israele in questa guerra.

Il progetto di liberazione e la resa dei conti esistenziale

Dall’inizio della guerra, un’ondata di intellettuali palestinesi e arabi ha invocato la tradizione dell’autocritica, una tradizione profondamente radicata nell’esperienza intellettuale araba, in particolare all’indomani della Nakba o della guerra del 1948, e poi di Al-Naksa, o della guerra del 1967. Questo momento di riflessione, che emerge con una velocità quasi urgente, attinge a una genealogia della critica forgiata all’ombra della sconfitta.

Eppure, sembra portare con sé un paradosso intrinseco: la sconfitta, sia nella sua realtà materiale che nel suo peso simbolico, non è più solo un risultato, ma è diventata la cornice, la lente stessa attraverso cui l’io collettivo percepisce la propria esistenza.

L’io collettivo viene così reso sia soggetto che oggetto di un’incessante interrogazione, che pretende di svelare le “illusioni” che oscurano la realtà o che ostacolano il raggiungimento di una possibilità più “pragmatica”. Inizia, apparentemente, come uno sforzo terapeutico, un mezzo per fare i conti con il peso di aspirazioni mal riposte. Eppure, la ricorrenza di affermazioni come “Tutto ciò in cui credevamo è crollato; tutto ciò in cui speravamo è fallito; tutto ciò che sognavamo è svanito”, rivela che questa messa in discussione non si è limitata a destabilizzare le strategie o le tattiche, ma è andata più a fondo, nell’essenza stessa della resistenza. In altre parole, si passa dall’autocritica all’auto-lacerazione.

Ciò che emerge non è una semplice critica, ma una resa dei conti esistenziale, un discorso che rimodella il rapporto tra speranza e disperazione, tra azione e significato. L’interrogazione non mira a perfezionare le tattiche, ma a destabilizzare le basi della resistenza, sollevando uno spettro ben più inquietante: il progetto di liberazione è rimasto intrappolato nell’assurdità della sua stessa lotta? Le sue contraddizioni hanno superato la capacità della storia di risolverle o contenerle? È una dialettica che ha portato alcuni a invocare il ritiro, a dire: “Concentriamoci sulla costruzione del Libano”, oppure: “Firmiamo il nostro accordo di Oslo e andiamo avanti”. Questi appelli, ammantati dal linguaggio della razionalità, nascondono una resa non solo del territorio, ma della stessa grammatica della resistenza.

In fondo, la resistenza non può essere ridotta alle sue dimensioni tattiche o strategiche. Non si tratta semplicemente di uno scontro sul campo di battaglia, ma di una rottura delle certezze ontologiche del colonizzatore. La sua essenza sta nel costringere il colonizzatore a confrontarsi con le domande che ha cercato di eludere: Il loro potere può davvero garantire una soluzione? I massacri sono definitivi o approfondiscono l’abisso?

La resistenza costringe il colonizzatore a confrontarsi con la propria contingenza, a riconoscere la fragilità delle strutture che credeva inattaccabili. In questo senso, il campo di battaglia non è solo uno spazio di violenza, ma uno spazio di interrogazione, un luogo in cui la sovranità del colonizzatore viene messa in dubbio. In altre parole, l’obiettivo della resistenza è costringere il nemico a mettersi in discussione.

Uno dei lasciti di questo momento è se Israele affronterà queste domande o rimarrà inebriato dal proprio potere. Si interrogherà sulla misura della sua dipendenza dagli Stati Uniti? Farà i conti con l’insostenibilità di controllare il destino di un altro popolo? E dopo il nucleare e il tentativo di cancellare i palestinesi per porre fine al conflitto, si accontenterà di guadagnare tempo o sceglierà una strada diversa? Sebbene questo rimanga, di per sé, un interrogativo aperto, le tendenze fasciste delle sue principali forze trainanti rendono più plausibile che Israele si giochi il futuro in un mondo che assomigli all’attuale sistemazione dei palestinesi: muri, apartheid, deportazioni, sfruttamento dei lavoratori senza documenti, supremazia etno-religiosa e un’implacabile volontà di mostruosità. Ma questo non toglie che il desiderio di vittoria totale di Israele abbia raggiunto un limite, nonostante il suo eccezionalismo, e che la sufficienza della vittoria significhi solo che la guerra continua con altri mezzi.

Il disfacimento dell’eccezionalismo israeliano

La guerra ha messo a nudo la bancarotta morale americana, il suprematismo razziale di Israele, la sua mostruosa capacità di distruzione e la sua rete profondamente intrecciata di investimenti ideologici, psichici e politici nella cancellazione e nel dominio. Non si tratta di un semplice conflitto di armi, ma di una rivelazione delle strutture che sostengono e perpetuano la macchina della violenza. La guerra ha messo a nudo l’eccezionalismo che circonda Israele, non solo nel garantire l’impunità allo stato, non solo nel mettere a tacere e reprimere il dissenso in Europa e in Nord America, non solo all’interno delle istituzioni accademiche o dei media mainstream, ma anche nella sua sfacciata capacità di commettere crimini in diretta.

Per i palestinesi, questa capacità è vista con una lente amara: è vista come una forza israeliana. Dopo tutto, Israele viene presentato come uno stato che può farla franca, una realtà opprimente quanto la violenza stessa. Tuttavia, è proprio questo eccezionalismo, questo limite imposto al discorso, a richiamare l’attenzione sul disfacimento di Israele come stato suprematista ebraico e coloniale. Questo disfacimento non è semplicemente una questione palestinese; è un appello urgente per un cambiamento radicale, non solo in Palestina, ma in tutto il mondo. Questo rimarrà infatti l’orizzonte persistente del Tufan, molto tempo dopo la cessazione del fuoco – e, cosa fondamentale, non cesserà mai in Palestina.

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Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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