di Paola Giaculli,
Transform-Italia, 27 novembre 2024.
È con profondo orrore che siamo testimoni del genocidio che si compie per mano di Israele nei confronti del popolo palestinese. Siamo profondamente sconvolti. Proviamo dolore e siamo indignati di fronte a questo plateale disprezzo per la vita – un disprezzo che il governo tedesco pretende venga accettato come necessario e normale. Da più di un anno il governo tedesco partecipa attivamente all’uccisione e alla disumanizzazione dei palestinesi fornendo assistenza politica, finanziaria, militare e giuridica a Israele. La complicità della Germania nelle atrocità commesse da Israele deve finire. (dalla Lettera aperta al governo tedesco “Stop al sostegno all’annientamento del Popolo palestinese”)
Germania tra diritto internazionale e ragione di stato
“È interessante vedere cosa farà la Germania”, diceva il giurista palestinese Nimer Sultany (il manifesto, 23 novembre 2024). Infatti è proprio “dai crimini tedeschi commessi nella Seconda Guerra Mondiale che è nato in buona parte il diritto internazionale”. Stretta com’è la Germania nella presa della Staatsräson, la ragione di stato che difende a prescindere Israele, ha mostrato all’inizio grande imbarazzo nei confronti del mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant. Ora quella prima reazione del governo tedesco viene corretta dalla ministra degli esteri Annalena Baerbock, che, a margine del vertice dei ministri degli Esteri dei Paesi del G7, dichiara che “il governo tedesco si attiene al diritto e alla legge e nessuno è al di sopra della legge”. Per la ministra “vale l’indipendenza della magistratura, che in questo caso è giunta alla conclusione che vi siano sufficienti indizi per compiere questo passo”. Comunque fa sapere che non intende intromettersi in procedimenti in corso.
A correggere il tiro può aver forse contribuito la reazione dei media alla surreale conferenza stampa del 22 novembre preceduta da uno scarno comunicato stampa in cui il governo tedesco faceva sapere di aver “preso nota” della decisione della CPI. Nel testo si ricordava che “il governo ha preso parte alla stesura dello statuto della CPI ed è uno dei più grandi sostenitori della CPI” e che quella posizione “è anche il risultato della storia tedesca”. Al tempo stesso però si affermava che fosse anche “conseguenza della storia tedesca, il fatto che rapporti unici ed una grande responsabilità ci leghino a Israele”. Confermando l’ambiguità della prima parte, il seguito del comunicato lasciava poi intendere che non fosse così scontato che Netanyahu e Gallant sarebbero stati arrestati se avessero messo piede sul suolo tedesco: “Verificheremo con coscienza le procedure dal punto di vista della politica interna. Ulteriori considerazioni si porrebbero qualora si prevedesse un soggiorno del primo ministro Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant in Germania”.
In conferenza stampa, per quasi mezz’ora, i giornalisti avevano subissato di domande, con esiti scarsi, i portavoce del governo per avere informazioni esaustive al riguardo. Nonostante quel che sembra un cambio di passo della ministra degli Esteri, è forse interessante mettere in risalto la riluttanza dimostrata dal governo tedesco nei confronti di un eventuale arresto del primo ministro israeliano.
“Non è urgente”
Quando, nel maggio scorso, alla CPI si era valutata l’ipotesi del mandato di arresto internazionale, il Segretario di Stato in qualità di portavoce del governo Steffen Hebestreit aveva dichiarato che la Germania avrebbe agito di conseguenza. Nella conferenza stampa a un giornalista che gli chiedeva se avesse cambiato idea, Hebestreit rispondeva: “sostengo quanto affermato nel comunicato”. Poi, sotto pressione, per barcamenarsi tra “l’importanza della CPI” (ossia il diritto internazionale) e “la responsabilità storica” della Germania (leggasi ragione di stato), Hebestreit diceva di “poter esser portato a dire che mi riesce difficile pensare di eseguire arresti su questa base”. Nei vaghi giri di parole non manca l’effetto comico, per esempio quando, alla domanda se Netanyahu fosse il benvenuto in Germania, rispondeva: “non ho informazioni su programmi di viaggio del primo ministro israeliano”. Tutti i tentativi dei giornalisti di venire informati sull’applicazione della decisione della CPI sono caduti nel vuoto. Non è stato possibile sapere a quali ulteriori e “coscienziose verifiche” (che riguardano “questioni giuridiche” su cui “i giuristi non sono unanimi”) debba essere sottoposta la decisione della CPI e da parte di chi. Anche su questo punto regna il buio più totale. Per ora “è una questione astratta”, proseguiva Hebestreit, “diventa urgente nel momento in cui qualcuno voglia recarsi in Germania”. E nel caso di un’urgenza, per esempio se quel qualcuno sbarcasse in aeroporto, chiedeva un giornalista, “quale sarebbe l’autorità competente per decidere cosa?”. A questo punto Hebestreit si rivolgeva al portavoce degli Interni. Questi, però faceva sapere che, trattandosi di diritto penale internazionale, non erano gli Interni ad occuparsene. Chiamato in causa il portavoce della Giustizia, questi constatava la mancanza di appigli concreti visto che in Germania non è stato mai arrestato nessuno su mandato di cattura di questo tipo e quindi preferiva astenersi dal profferire alcunché al riguardo. La stampa continuava a martellare con domande precise sulla natura delle “questioni giuridiche” da verificare, su quanto sia “vincolante” il concetto di “vincolante” per il governo tedesco in quanto membro della CPI, sulla diversità di atteggiamento rispetto all’entusiastica reazione della ministra degli Esteri Annalena Baerbock, all’annuncio del mandato di arresto per Putin con il forte sostegno alla CPI, e di difesa dello Statuto dell’Onu (“ma la Russia non si deve difendere da un attacco esterno”, è la risposta). Sembra un caso da manuale in stile kafkiano, ma questo rispecchia la triste realtà del doppio standard in Germania. E anche se, una volta tanto, i media, anche una parte del mainstream, hanno fatto il loro dovere, esponendo in magnifica evidenza il re nudo. Se al segretario di stato riesce difficile immaginare l’arresto del primo ministro israeliano in territorio tedesco se ne poteva dedurre che in Germania il diritto internazionale è carta straccia.
Tra le reazioni di esponenti politici vi sono state quella prevedibile del leader cristiano-democratico e candidato alla cancelleria Friedrich Merz, per cui la CPI compie un “rovesciamento tra vittima e carnefice”, e del suo alleato della CSU e capo del governo bavarese Markus Söder che dice di sostenere Israele e “il suo diritto all’autodifesa”. Particolarmente degna di nota (sic) l’esternazione di Michael Roth (SPD), presidente della commissione Affari Esteri al Bundestag in due post su X: “La CPI fa un cattivo servizio al diritto internazionale mettendo sullo stesso piano terroristi sanguinari e una democrazia in stato di diritto” e “non si può ignorare un mandato di arresto se ci si sente obbligati dal diritto internazionale. Ma un mandato contro il capo di governo di uno stato di diritto democratico fa sorgere dubbi fintanto che dittatori sanguinari ne sono risparmiati”. L’apoteosi del doppio standard, senza che ci si renda conto che in questo modo si prende a picconate il diritto tout court.
“Cosa hai imparato Germania?”
Poche ore dopo, la rinomata fotografa e attivista statunitense Nan Goldin è stata invitata ad inaugurare la mostra retrospettiva This Will Not End Well che le dedica la Neue Nationalgalerie, nell’iconica struttura di Mies van der Rohe. L’artista partecipa attivamente alle manifestazioni contro la guerra in Medio Oriente e in ottobre è stata fermata dalla polizia durante un’iniziativa degli ebrei progressisti di Jewish Voice for Peace a Wall Street. A Berlino intende fare di questa occasione di parola, per cui ringrazia gli organizzatori, una cassa di risonanza per l’indignazione morale nei confronti del genocidio in corso a Gaza e in Libano. “Faccio qui un esperimento su me stessa”, dice Goldin, “se come artista mi lasciano esprimere la mia posizione politica, spero allora di spianare la strada ad altri”. Si rammarica del fatto che nella mostra manchi quanto realizzato nell’ultimo anno (“il mio corpo vive la catastrofe e qui non si vede”), perché “gli organizzatori pensano erroneamente che il mio attivismo e la mia arte siano cose separate”. Nei social, il suo intervento, anticipato da quattro minuti di silenzio (1 centesimo di secondo per ognuna delle vittime palestinesi, libanesi e degli israeliani uccisi il 7 ottobre 2023), rimbalza in tutto il mondo: il j’accuse da parte di un’artista del pari di Goldin nel vivo della capitale tedesca potrebbe costare definitivamente il prestigio culturale, già pericolosamente intaccato, a livello internazionale della Germania. A questa l’artista rivolge ripetutamente i suoi interrogativi. Goldin lancia una critica potente e appassionata contro Israele, contro la censura della solidarietà con la Palestina ed insieme un appello alla mobilitazione: “Perché ti parlo Germania? Perché il governo e la polizia ha messo il bavaglio alla cultura, è un fallimento per questa città che era considerata un rifugio, e ora le iniziative vengono cancellate anche per un ‘mi piace’ su Instagram”. Ma l’antisionismo non ha niente a che vedere l’antisemitismo. Questo viene strumentalizzato contro la comunità palestinese che qui è la più numerosa in Europa (mentre si ignora l’islamofobia)”. Se qualsiasi critica a Israele viene considerata antisemitismo, “allora è difficile definire e fermare l’antisemitismo”. Goldin ricorda: “Ciò che vedo a Gaza mi ricorda i pogrom russi da cui fuggirono i miei nonni, io sono cresciuta nella memoria dell’Olocausto. Mai più vuol dire mai più per chiunque! (…) La CPI parla di genocidio, l’Onu parla di genocidio, persino il Papa parla di genocidio. Perché si pretende da noi che non lo si definisca tale? Di cosa hai paura Germania? (…) Questa è una guerra contro i bambini! (…) Non ci si può girare dall’altra parte di fronte ad un genocidio trasmesso in diretta da quattordici mesi (…) come fai a non vederlo, Germania?”, insiste l’artista che denuncia i crimini, la devastazione anche culturale e delle infrastrutture, l’imbarbarimento di Israele e i profitti dell’Industria bellica. “Questa non è solo una guerra di Israele, ma anche degli USA che pongono veto su veto su qualsiasi risoluzione (…) Perché parlo? Perché difendere i diritti umani non può essere antisemita, perché uso parole per cui altri temono di mettersi in pericolo pronunciandole; perché Israele e la Germania usano l’Olocausto e la cultura della memoria per inventarsi uno stato di innocenza, parlo per porre fine alla morte per fame e all’occupazione della Palestina (…) Milioni di persone manifestano in tutto il mondo per il cessate il fuoco e l’embargo di armi, ma i loro governi non li ascoltano (…) dobbiamo trasformare la nostra sofferenza e la nostra rabbia in mobilitazione e scendere in piazza”. Accompagnato dalle grida di sostegno di molti attivisti il discorso di Goldin è stato seguito dal contestatissimo intervento del direttore della Neue Nationalgalerie Biesenbach, che si è ritenuto in dovere di dissociarsi dalle parole dell’artista, tuttavia rispettando la libertà di parola. Occasione persa per tacere, e questo vale anche per esponenti politici come la ministra della Cultura, Claudia Roth (Verdi) che condanna l’unilateralità di Goldin, ciechi di fronte al danno che stanno infliggendo anche alla cultura e al prestigio della Germania.
Libertà condizionata
La decadenza morale e culturale è stata del resto istituzionalizzata, come si temeva, da una risoluzione “per la protezione della vita ebraica”, che in realtà punta alla repressione delle voci critiche nei confronti di Israele. Il testo è stato approvato al Bundestag il 7 novembre, il giorno dopo la rottura della coalizione di governo SPD-Verdi-Liberali, in un calendario che sembra segnare plasticamente le marce forzate di un declino generalizzato, quasi fosse ineluttabile, del paese. L’unico voto contrario è quello dell’Alleanza di Sahra Wagenknecht (BSW), la Linke invece si è astenuta, irretita anch’essa dalla ragione di stato. Ignorando le obiezioni sollevate da società civile, mondo giuridico, culturale e della ricerca, i gruppi politici fatta eccezione per Linke, BSW e l’estrema destra di AfD hanno lavorato a porte chiuse alla stesura del testo, che si era pensato in risposta all’attentato di Hamas del 7 ottobre 2023, come strumento di lotta all’antisemitismo. Ma in realtà né di questo né di misure a favore della protezione della minoranza ebraica in Germania si tratta, bensì si prende di mira la libertà di arte, cultura e ricerca, limitandone le espressioni di critica a Israele e di solidarietà con la Palestina, in particolare avallando l’adozione, da parte delle istituzioni e degli enti locali (ed erogatori di fondi pubblici) della quanto mai discussa definizione IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), per cui qualsiasi critica a Israele equivale ad antisemitismo. Nel testo (non vincolante, ma sicuramente nella “libera” applicazione ispirata alla ragione di stato molto più vincolante di quanto lo sia il mandato di arresto della CPI, che, almeno sulla carta, vincolante lo è) rimane il dubbio su chi sia tenuto a verificare cosa si debba definire come antisemitismo. Nel testo anche si parla di “antisemitismo riferito a Israele e quello di sinistra-antiimperialistico”, e si mette in evidenza l’acuirsi del fenomeno “di un antisemitismo derivato dalla migrazione proveniente da paesi nordafricani e del Medio Oriente, (…) e di ostilità nei confronti di Israele a causa di indottrinamenti statali islamisti e antiisraeliani”. Va da sé che il testo sia stato votato anche da AfD, la cui esponente Beatrix von Storch (nipote del Conte von Grosigk, ministro delle finanze del Reich dal 1932 al 1945) in aula ha addirittura ringraziato i Verdi per essersi particolarmente attivati nella risoluzione. Per una buona metà il testo si concentra sui criteri nell’assegnazione di fondi pubblici per arte, cultura e ricerca, dove ci si “deve assicurare che non vengano finanziate organizzazioni, progetti che mettano in discussione il diritto di esistere di Israele, non incitino al boicottaggio, non sostengano il movimento BDS” e si chiede al governo di impegnarsi affinché “si colmino lacune legislative e si sfruttino a fondo le possibilità repressive in tema di permessi di soggiorno, diritto di asilo e cittadinanza”. Si fa appello a scuole e università per la protezione di professori e studenti ebrei e quelli “solidali con Israele” (da intendersi contro le contestazioni studentesche). Tante sono le perplessità anche dal punto di vista costituzionale che un gruppo di autorevoli giuristi, sociologi e storici aveva preparato un testo alternativo per scongiurare quello elaborato al Bundestag, sostenuto da circa 5.000 firme di esponenti di vari settori della società, tra i primi firmatari Amnesty International tra molte altre associazioni umanitarie e tra le singole personalità Daniel Cohn-Bendit e Luisa Neubauer (Fridays for Future), ma respinto al Bundestag con il solo sostegno di Linke e BSW. 5.000 sono per ora anche le adesioni ad una lettera aperta di artisti come Michael Barenboim, intellettuali e ricercatori (come Thomas Piketty) tra i primi firmatari, al governo tedesco affinché non sostenga più l’annientamento del popolo palestinese.