COP29: Israele non ha ‘fatto fiorire il deserto’. Ha rubato la terra

di Nandita Lal,

The New Arab, 22 novembre 2024. 

Sostenendo nuovamente Israele, la COP29 ha macchiato le sue credenziali climatiche. Non c’è giustizia climatica senza la liberazione della Palestina, dice Nandita Lal.

Dipingendosi come capace di trasformare i paesaggi aridi in ecosistemi fiorenti, Israele riecheggia le narrazioni coloniali, scrive Nandita Lal Molloy [credito fotografico: Getty Images].

Invece di affrontare la crisi climatica o di confrontarsi con la ‘catastrofe ambientale‘ causata da Israele a Gaza, i governi del mondo sembrano aver trascorso la COP29 a Baku chiudendo un occhio e tappandosi le orecchie, convincendosi che quella distruzione diffusa non sta accadendo.

Come è ormai consuetudine, la conferenza era impantanata nelle polemiche e nell’ipocrisia già prima di iniziare. Questa volta, alti funzionari dell’Azerbaigian sono stati smascherati mentre cercavano di utilizzare la conferenza come forum per stipulare accordi sui combustibili fossili, minando ulteriormente le credenziali climatiche della COP. 

Tuttavia, dopo un anno di genocidio accelerato a Gaza e nella Palestina occupata, l’esposizione del Padiglione israeliano spicca come il simbolo più eclatante e vergognoso dei fallimenti collettivi della COP29. 

Questo è il terzo padiglione di Israele alla COP, dopo le presenze alla COP28 a Sharm El Sheikh, in Egitto, e alla COP29 a Dubai, a testimonianza della normalizzazione dell’occupazione con alcuni stati arabi. Con 403 delegati, Israele ha la diciassettesima delegazione più grande, subito dopo i suoi stretti alleati – gli Stati Uniti con 405 e il Regno Unito con 470 delegati. Queste cifre emergono tra le notizie di numerosi leader mondiali che hanno saltato il summit e di Papua Nuova Guinea che si è ritirata.

Come ci si aspettava, il padiglione israeliano si è articolato intorno a due illusioni: “Dal deserto all’oasi” e ‘Il clima dell’innovazione’. Questo non solo è fuorviante, ma dipingendosi come capace di trasformare i paesaggi aridi in ecosistemi fiorenti, Israele riecheggia le narrazioni coloniali – come il concetto francese di “pénétration pacifique” nel Sahara – che inquadravano i deserti come spazi di controllo, sperimentazione ed estrazione di risorse.

Come Israele utilizza le COP per sbianchettare la sua immagine

Forse il mito più noto sulla fondazione di Israele è l’idea che abbia fatto “fiorire il deserto”.

Questa narrazione incentrata sull’industria trascura le pratiche ambientali degli agricoltori palestinesi indigeni, cancellando di fatto sia la loro presenza che i loro metodi sostenibili di gestione della terra.

“Lo Stato di Israele non può tollerare un deserto all’interno dei suoi confini. Se lo Stato non dovesse eliminare il deserto, il deserto potrebbe eliminare lo Stato”. Così sentenziò David Ben-Gurion, il primo Primo Ministro dello Stato di Israele, in un documento del 1955 intitolato “Il significato del Negev”. 

Questa retorica rispecchia gli atteggiamenti coloniali visti altrove, come in Australia, dove l’allontanamento delle popolazioni indigene negli anni ’60 ha portato al degrado ecologico, compresi gli incendi incontrollati.

Allo stesso modo, l’inquadramento del deserto da parte di Israele come sito di salvataggio e di insediamento maschera le ricche storie e le pratiche di sostenibilità delle popolazioni locali. In effetti, la conoscenza indigena è fondamentale nella lotta contro il cambiamento climatico.

Il tema “Dal deserto all’oasi” della COP29 è parallelo alle storiche giustificazioni coloniali europee per il controllo della terra. Già nel 1897, il Brigadiere Generale Percy Sykes descrisse la deforestazione come un problema cruciale nelle regioni desertiche, sostenendo che la risoluzione di questo problema avrebbe determinato il loro futuro.

Questo inquadramento, come quello di Israele, non tiene conto della sostenibilità storica delle comunità locali e cerca di nascondere le disuguaglianze in atto nell’accesso alle risorse sotto la maschera del progresso tecnologico.

Il movimento sionista, un mix di nazionalismo ebraico e colonialismo d’insediamento, ha visto a lungo il deserto come una minaccia da affrontare, oltre che come uno spazio vuoto e aperto per l’insediamento e la proprietà terriera. La presenza di Israele è anche un esercizio per giustificare le sue “soluzioni di adattamento” alla “desertificazione”, come soluzioni climatiche.

In realtà, queste soluzioni ambientali servono come tattica per sviare l’attenzione e la responsabilità dai 76 anni di occupazione in corso da parte di Israele e dal genocidio del popolo palestinese – una forma di greenwashing abbracciata con entusiasmo dai funzionari e dai governi occidentali come segno di progresso. 

In particolare, l’Istituto Tony Blair per il Cambiamento Globale ha elogiato le innovazioni idriche di Israele, esaltando il condotto Kinneret-Negev, che trasporta l’acqua dal Mare di Galilea al Deserto del Negev. In realtà, però, questo sistema si basa sullo sfruttamento delle risorse, mette a dura prova gli accordi transfrontalieri di condivisione dell’acqua e aggrava la carenza idrica in Giordania. 

Le partnership di lunga data di Israele con aziende di combustibili fossili come BP e Chevron tradiscono ulteriormente la sua narrativa verde.

Queste aziende non solo forniscono il fabbisogno energetico di Israele, ma alimentano anche indirettamente i conflitti basati sulle risorse, che danneggiano in modo sproporzionato le comunità palestinesi.

Secondo Oil Change International, tali partnership minano gli obiettivi di sostenibilità della COP29, sollevando domande su chi tragga veramente beneficio da queste trasformazioni “sostenibili”.

Questo paradosso è reso più profondo dal sostegno di paesi dell’Allegato II, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, che danno priorità agli aiuti militari a Israele rispetto a finanziamenti significativi per il clima.

Nel frattempo, queste stesse nazioni si oppongono all’aumento dei contributi al Sud Globale. Il reindirizzamento dei fondi dai bilanci militari e dalle sovvenzioni ai combustibili fossili potrebbe raccogliere fino a 5.000 miliardi di dollari all’anno per il finanziamento globale del clima, evidenziando le forti disuguaglianze al centro delle discussioni della COP29 e alimentando ulteriori dubbi sulla nostra sopravvivenza collettiva. 

Nandita Lalè una ricercatrice indipendente sul cambiamento climatico e sulle popolazioni indigene. Si è presentata come candidata contro la guerra alle elezioni generali nel Regno Unito nel luglio 2024.

https://www.newarab.com/opinion/cop29-israel-did-not-make-desert-bloom-it-stole-land

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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