di Patrizia Cecconi,
L’Antidiplomatico, 4 luglio 2024.
“Ogni parola e ogni immagine potrebbe essere un’altra parola e un’altra immagine” scrive Raffaele Oriani nell’introduzione al suo piccolo, prezioso libro che servendosi di esempi reali spiega con chiarezza didascalica in cosa consiste la pratica giornalistica definita “scorta mediatica”.
La scorta mediatica è il potere della stampa libera di proteggere chi viene preso di mira da un gruppo criminale, e si fa mantenendo l’attenzione dell’opinione pubblica sull’individuo a rischio. Il silenzio, infatti, lo lascerebbe scoperto e facile preda dei criminali. Quindi, prosegue l’autore riferendosi allo sterminio in corso a Gaza, se non ci facciamo sentire, se evitiamo che i nostri lettori conoscano la realtà che anche lo storico israeliano Raz Segal ha definito “Un caso da manuale di genocidio” noi, che ci definiamo stampa libera dell’Occidente, ci facciamo complici poiché “abbiamo in mano l’interruttore per fermare o mitigare i massacri. E non lo stiamo usando”. Oriani ci fa sapere che un imperativo etico l’ha spinto a dimettersi dalla collaborazione con il Venerdì di Repubblica proprio per non sentirsi complice dello sterminio in atto.
La decisione si era fatta inderogabile quando l’importante quotidiano per cui lavorava aveva relegato l’ennesima orrenda strage di civili palestinesi in quindicesima pagina, lasciando campeggiare in prima una non notizia. Era la conferma che l’obiettivo di Repubblica, al pari di quello di quasi tutti gli altri media importanti, fosse semplicemente distrarre l’opinione pubblica da “quell’elefante dell’orrore”, attuando la scorta mediatica al carnefice e non alla vittima. Nella sua lettera di dimissioni – che senza i social difficilmente avrebbe avuto diffusione – affermava: “questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi.” La sua lettera voleva essere un sasso nello stagno, ma non avrebbe generato altri cerchi se non quelli dei social poiché “L’impeto etico che pure aveva impregnato il racconto della guerra in Ucraina”, scrive, non si è ripetuto per Gaza perché questa volta “i massacri sono in capo ai nostri amici, alleati, fratelli; in capo a reti economiche, politiche e culturali che dai nostri giornali arrivano fino alle stanze di chi può fermare o rilanciare la strage”.
Oriani non è un difensore di Hamas, tutt’altro, quindi il suo lavoro non muove da una posizione di parte; non è neanche un difensore di Putin eppure nota, e lo dimostra con esempi inequivocabili, il doppio standard, professionalmente ed eticamente vergognoso, usato dai media nel diverso modo di trattare Ucraina e Striscia di Gaza. I silenzi ad hoc e il gioco delle parole sono fondamentali, non è una novità, sappiamo quanto sia importante il lessico usato affinché la narrazione crei o cancelli quell’empatia che può rendere l’opinione pubblica un ostacolo o un supporto alle decisioni dominanti.
Oriani lo riafferma e mostra l’uso del linguaggio come arma, “come terreno di conquista” a partire dalla BBC che, nel primo mese di bombardamenti, ha usato 52 volte il termine “assassinio” per le vittime israeliane e neanche una sola volta per le vittime palestinesi. Idem per i termini “carneficina” o “massacro” riservati soltanto alle vittime civili israeliane e mai alle decine di migliaia di vittime palestinesi per le quali, tutt’al più, si è detto “troppi morti” e si è definita genericamente “dramma” la strage continua di adulti e bambini, la distruzione di ospedali, scuole, chiese, moschee, campi coltivati, strutture igieniche, centinaia di migliaia di case palestinesi e di tutto il possibile. Ma la carneficina, fa notare Oriani, è solo quella di Putin in Ucraina, mentre allo sterminio della popolazione palestinese si riserva l’espressione “operazioni di Netanyahu a Gaza“. O, ancora, a Putin si è attribuito il reato di genocidio quando le sue armi avevano ucciso 260 bambini, ma guai a parlare di genocidio a Gaza nonostante solo nei primi cento giorni di massacri i bambini assassinati erano già 10.000.
Oriani trae dai mezzi d’informazione di massa un numero impressionante di casi che rappresentano quella che definisce “cintura di sicurezza verbale” verso i crimini israeliani, attuata dalla maggioranza dei media mainstream mediante tecniche narrative di conclamato razzismo. Lo dimostra facendo nomi e cognomi, non solo di testate giornalistiche e televisiva ma anche di singoli opinion maker quali Paolo Mieli, Michele Serra, Mattia Feltri, Ernesto Galli della Loggia il quale, ultimo, senza un filo di decoro mostra, forse ancor più degli altri, la sua proskynesis al potere del momento, pubblicando in prima pagina sul fido Corriere della Sera un editoriale nel quale ribadisce la necessità di garantire sicurezza assoluta a Israele. Lo scrive ignorando, con l’indifferenza tipica del razzista, che le vittime civili palestinesi erano già 30.000 di cui circa 12.000 bambini.
Una pagina intera, poi, l’autore la dedica a Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio al quale riconosce – e non è certo un merito – totale mancanza di ipocrisia, tanto che paragona i suoi editoriali alla famigerata Radio Mille Collines ruandese che istigava – purtroppo con successo – al genocidio dei Tutsi. “E’ così che si promuove uno sterminio”, commenta Oriani. Di pagina in pagina, da un esempio all’altro, viene fuori un atto d’accusa che interroga anche le coscienze – per chi ce l’ha – oltre alla deontologia professionale che sembra ormai sacrificata sull’altare dell’opportunismo vigliacco del “tengo famiglia” o dell’asservimento autocensorio propedeutico, forse, a un’ambita carriera. Asservimento che cancella la vergogna perfino davanti ad affermazioni di sicuro razzismo e di complicità palese nel genocidio che, comunque lo si chiami, tale resta. In conclusione si tratta di un piccolo libro utilissimo a far capire, esempi alla mano, l’ignominia della manipolazione mediatica e, al tempo stesso, rappresenta una lezione di onestà intellettuale perché l’avversione che l’autore manifesta tanto verso l’attacco di Hamas che verso Putin (a prescindere dal fatto che siano o meno condivisibili dal lettore) non gli impedisce di esprimere con coraggio la sua condanna verso i media mainstream, sia per il doppio standard, sia per le menzogne avallate per addomesticare l’opinione pubblica, sia per l’utilizzo della narrazione imposta e pedissequamente accettata facendosi non informatori, bensì accompagnatori del genocidio, quindi scorta mediatica dei suoi esecutori.
Il libro si chiude con le parole del reverendo Munther Isaac, pastore luterano di Betlemme che sono insieme un’ode al popolo palestinese che sta subendo l’orrendo sterminio e una condanna morale verso chi di quello sterminio si è fatto complice: “Noi palestinesi ci risolleveremo. Ma voi… non so se potrete mai risollevarvi”.
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