Il genocidio nelle carceri israeliane

Giu 10, 2024 | Notizie

di Qassam Muaddi,  

Mondoweiss, 7 giugno 2024.    

Le famiglie dei prigionieri palestinesi sono tenute all’oscuro della sorte dei loro cari in un momento in cui le autorità carcerarie israeliane stanno creando per i prigionieri condizioni inadatte alla vita umana.

Palestinesi arrestati durante l’invasione israeliana del nord di Gaza ricevono cure mediche all’ospedale Al-Najjar di Rafah, dopo il loro rilascio. 24 dicembre 2023. (foto: © Abed Rahim Khatib/DPA via Zuma Press/APA Images)

Dallo scorso ottobre, la guerra genocida di Israele contro i palestinesi è andata oltre le uccisioni di massa quotidiane, lo sfollamento e la fame della popolazione civile nella Striscia di Gaza. Dietro le sbarre delle sue prigioni, Israele ha condotto una guerra anche contro i prigionieri palestinesi, creando condizioni che rendono impossibile la continuazione della vita umana. Gli effetti di questa brutale campagna si sono estesi al di fuori delle carceri alle famiglie dei prigionieri, che vedono i loro cari sistematicamente affamati, picchiati, torturati e degradati.

Poco dopo il 7 ottobre, Israele ha imposto una nuova serie di regole nei suoi reparti carcerari. In alcuni centri di detenzione, come quello di Ofer, vicino a Ramallah, l’esercito israeliano ha assunto il controllo della prigione, mentre le guardie dell’Israel Prison Services hanno avuto mano libera nel trattare con i detenuti palestinesi all’interno delle sezioni del carcere. Questo cambiamento è stato accompagnato da un drammatico aumento del numero di detenuti palestinesi arrestati dopo il 7 ottobre, con un raddoppio della popolazione dei prigionieri già a metà del mese. Tra questi c’erano anche i prigionieri di Gaza, ai quali è stata riservata la parte più dura del trattamento.

A metà maggio, la CNN ha pubblicato un reportage basato sulle testimonianze di informatori israeliani sul terribile trattamento dei palestinesi di Gaza nella base militare israeliana di Sde Teiman, che ora contiene un centro di detenzione. Le testimonianze degli informatori descrivono nel dettaglio una serie di pratiche medievali a cui sono stati sottoposti i prigionieri palestinesi, tra cui l’essere legati ai letti con gli occhi bendati e costretti a indossare pannolini, l’essere sottoposti a procedure mediche senza anestesia da parte di tirocinanti non qualificati, l’essere attaccati dai cani da parte delle guardie carcerarie, l’essere regolarmente picchiati o messi in posizione di stress per reati minori come sbirciare da sotto la benda, l’essere sottoposti a ferite da strumenti di contenzione che si sono aggravate fino a richiedere l’amputazione e una serie di altre misure orribili.

Il 6 giugno, il New York Times ha pubblicato un altro articolo su Sde Teiman, basato su interviste a ex detenuti e a ufficiali militari israeliani, medici e soldati che hanno lavorato nella prigione, portando alla luce nuovi orrori sul trattamento dei prigionieri gazawi. Le testimonianze dei detenuti hanno ripetuto molti degli stessi racconti, ma hanno anche incluso altri inquietanti resoconti di violenza sessuale, tra cui testimonianze di stupro e di costrizione dei detenuti a sedersi su bastoni di metallo che causavano sanguinamento anale e “dolore insopportabile”.

Altre depravazioni sono state documentate in molte altre carceri, spesso con compiacimento da parte dei canali di informazione israeliani che hanno trasmesso le scene degli abusi, compresi i trattamenti degradanti, con video che possono essere descritti solo come filmati amatoriali di perversione. I medici carcerari israeliani hanno assistito alle torture dei detenuti palestinesi, sia prima che dopo il 7 ottobre. Oltre a questi atti di tortura e umiliazione, le autorità carcerarie hanno limitato fortemente l’assunzione di cibo da parte dei detenuti fino a farli quasi morire di fame, dando a 20 prigionieri il cibo sufficiente per due persone.

Ne emerge un quadro in cui le autorità israeliane mettono i palestinesi nelle condizioni di animali, condizioni calcolate per torturarli, umiliarli e, in alcuni casi, portarli alla morte. A marzo, il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito che circa 27 detenuti palestinesi erano morti durante la detenzione in due strutture, tra cui Sde Teiman.

Nel frattempo, le famiglie dei detenuti palestinesi, sia di Gaza che della Cisgiordania, sono state lasciate a interrogarsi sulla sorte dei loro cari per mesi e mesi, mentre dalle carceri israeliane continuavano a trapelare storie di orrore da parte di coloro che sono stati rilasciati, alimentando ulteriormente le ansie delle famiglie.

Morte per percosse

Secondo i gruppi per i diritti dei prigionieri palestinesi, da ottobre Israele ha arrestato non meno di 8.800 palestinesi di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme. Molti sono stati rilasciati, anche nell’ambito di uno scambio di prigionieri tra Israele e Hamas a novembre. Attualmente, circa 9.300 palestinesi continuano a essere tenuti dietro le sbarre, tra cui 78 donne, 250 minori e più di 3.400 detenuti senza accusa né processo in base al sistema legale militare di detenzione amministrativa.

Thaer Taha, un palestinese di quarant’anni, era uno di loro fino allo scorso aprile, quando è stato rilasciato dopo due anni di detenzione amministrativa. Taha era stato arrestato nel maggio 2022 e gli era stato imposto un ordine di detenzione di sei mesi. Il 7 ottobre aveva trascorso quasi un anno e mezzo nelle carceri israeliane.

“Il giorno in cui è scaduto l’ordine di detenzione, ci siamo preparati ad accogliere mio padre a casa”, ha raccontato a Mondoweiss Guevara Taha, la figlia ventiduenne. “Mia madre ha preparato il suo pasto preferito, io e i miei fratelli ci siamo vestiti e amici e familiari si sono preparati a riceverlo al checkpoint”, racconta Guevara. “Ma il giorno stesso, l’avvocato ci ha chiamato per dirci che l’occupazione aveva rinnovato l’ordine di detenzione di mio padre per altri sei mesi”, ricorda la donna.

Il 7 ottobre, a Thaer Taha mancava un mese per terminare il suo secondo periodo di detenzione. Da quando era stato arrestato, riceveva le visite dei familiari una volta al mese.

Poi, tutto è cambiato. Israele ha sospeso tutte le visite ai familiari dei detenuti palestinesi e ha iniziato una serie di misure repressive senza precedenti nei loro confronti. “Anche coloro che avevano vissuto l’esperienza delle carceri dell’occupazione negli anni ‘70 e ’80 hanno detto di non aver visto nulla di simile agli ultimi otto mesi nelle prigioni dell’occupazione”, afferma Thaer Taha, riferendosi ai periodi passati che fino ad allora erano stati considerati come il punto più alto della repressione israeliana nei confronti dei prigionieri palestinesi.

“La vita quotidiana organizzata all’interno delle celle, per la quale tanti [prigionieri] avevano lottato nel corso degli anni, è improvvisamente scomparsa. Libri e altri effetti personali sono stati confiscati e non ci è stato più permesso di svolgere alcun tipo di attività o rappresentanza”, spiega Taha. “Le guardie hanno iniziato a fare irruzione con violenza nelle nostre celle ogni giorno, la qualità del cibo è diminuita immediatamente e sono state tolte le coperte. Siamo stati messi intenzionalmente nell’insicurezza, nella fame e nel freddo. Allo stesso tempo, le celle sono diventate affollate. Eravamo 12 persone in una cella di 9 metri per 4”.

Il peggioramento delle condizioni di detenzione dei detenuti palestinesi era già iniziato prima del 7 ottobre. Nel febbraio 2023, il ministro israeliano della Sicurezza Itamar Ben-Gvir ha iniziato a ridurre l’accesso all’acqua per i prigionieri palestinesi, iniziando a limitare il tempo della doccia a quattro minuti al giorno. All’epoca, questa misura ha suscitato l’indignazione dei gruppi per i diritti umani. Dopo il 7 ottobre, la situazione ha raggiunto un livello completamente nuovo.

“A metà dicembre, la nostra fornitura d’acqua all’interno di ogni cella è stata ridotta a un’ora al giorno. Abbiamo usato quest’ora per immagazzinare quanta più acqua possibile e, dato che avevamo solo una bottiglia in cella, abbiamo riempito delle lattine vuote”, racconta Thaer. “Questa situazione è continuata per tre mesi, fino all’inizio del mese di Ramadan, a metà marzo”.

A novembre, Hamas e Israele hanno concluso un accordo per lo scambio di prigionieri. Circa 150 donne e bambini palestinesi sono stati rilasciati dalle carceri israeliane in cambio di 50 prigionieri israeliani. I palestinesi rilasciati hanno testimoniato di aver subito gravi percosse e abusi sessuali da parte delle guardie carcerarie israeliane. Ad aprile, i gruppi per i diritti dei prigionieri palestinesi hanno dichiarato che 16 palestinesi identificati erano morti nelle carceri israeliane a causa dei maltrattamenti subiti dal 7 ottobre. Altri erano morti ma non erano stati identificati.

A novembre, il 38enne palestinese Thaer Abu Asab è stato dichiarato morto nella prigione del Negev, dopo essere stato picchiato dalle guardie israeliane. Un mese dopo, Israele ha ammesso che la morte di Abu Asab è stata causata dalle percosse subite contemporaneamente da 19 guardie carcerarie.

“Ero nella prigione del Negev quando Thaer Abu Asab è stato ucciso, ma in una sezione diversa”, ha ricordato Thaer Taha. “Era il 18 novembre, subito dopo la conta mattutina, quando abbiamo iniziato a sentire molte urla. Poi alcuni prigionieri sono stati spostati nella sezione in cui mi trovavo e ci hanno detto cosa era successo”.

“Le guardie erano molto aggressive durante la conta mattutina e ogni giorno picchiavano qualcuno. Quella mattina, Thaer Abu Asab ha osato chiedere a una delle guardie quali fossero le novità, se la tregua a Gaza fosse iniziata o meno”, ha continuato Taha. “La guardia lo ha raccontato al suo comandante e questi ha detto ad Abu Asab che gli avrebbe mostrato subito la tregua a Gaza, dopo di che ha ordinato di picchiarlo. Lo hanno malmenato così brutalmente che una delle guardie lo ha colpito alla testa con un pesante manico di legno, e lui ha perso immediatamente conoscenza e poi è morto dissanguato”.

Secondo quanto riferito, le guardie sospettate sono state sottoposte a “severe restrizioni” in seguito a un’indagine sull’incidente, ma sono state comunque liberate. Il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir ha dichiarato che le guardie avevano a che fare con “la feccia dell’umanità” e non dovevano essere infangate prima di un’indagine.

Tagliati fuori dal mondo

Mentre queste notizie venivano rese pubbliche, le famiglie dei prigionieri non avevano alcun contatto con i loro cari nelle carceri israeliane e non avevano alcuna idea delle loro condizioni. Guevara Taha ha descritto la situazione come “un’angoscia costante, pensando continuamente a cosa poteva accadere a mio padre, in quali condizioni si trovava, impedendoci di dormire”.

“Noi famiglie dei prigionieri abbiamo gruppi Whatsapp dove ci scambiamo informazioni, così ogni volta che un avvocato riesce a sapere qualcosa su un prigioniero in un determinato carcere, o se un prigioniero riesce ad accedere a un telefono e a mettersi in contatto, dà informazioni su coloro che sono detenuti con lui, e noi condividiamo queste notizie su Whatsapp”, ha detto Guevara. “Abbiamo passato un sacco di tempo su Whatsapp in attesa di notizie, e le notizie non erano mai incoraggianti. O non avevano accesso all’acqua, o al cibo o all’elettricità, e l’angoscia continuava”.

“Mio padre ha trascorso 13 anni in carcere, otto dei quali come detenuto amministrativo, quindi sono cresciuta conoscendo le sue notizie dalla prigione più che avendolo a casa, al punto che non mi sono abituata a chiamarlo ‘papà’, ma solo con il suo nome”, ha proseguito. “Ma questa volta è stato diverso, temevo seriamente per la sua vita, pensando se avesse mangiato o se potesse dormire la notte”.

A febbraio, un rapporto di esperti delle Nazioni Unite ha concluso che alcuni prigionieri palestinesi sono stati oggetto di abusi sessuali e che almeno due detenute sono state violentate nelle carceri israeliane. Il giorno successivo, le famiglie dei prigionieri palestinesi e i gruppi per i diritti hanno tenuto una conferenza stampa pubblica a Ramallah, dove hanno annunciato di aver interrotto ogni coordinamento con il Comitato Internazionale della Croce Rossa, accusandolo di inazione.

“La Croce Rossa ha smesso di aggiornarci sulle condizioni dei prigionieri dal 7 ottobre, e anche se ci hanno detto che era perché le autorità di occupazione avevano vietato loro di visitare i prigionieri, non hanno fatto nient’altro al riguardo e non hanno protestato”, ha esclamato Guevara.

Suo padre aggiunge: “Ai nostri avvocati è stato e continua ad essere vietato di visitare i prigionieri; sono stati intimiditi e gli è stato impedito di fare il loro lavoro, ma loro parlano, denunciano, e i prigionieri sono stati molto offesi da questo silenzio della Croce Rossa”.

A novembre, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha dichiarato pubblicamente di “non poter visitare i detenuti palestinesi dal 7 ottobre”. A gennaio, il direttore del CICR per il Medio Oriente ha dichiarato ai media che Israele e Hamas gli stavano vietando di visitare i prigionieri di entrambe le parti. Il CICR non ha mai chiesto pubblicamente di porre fine alla sospensione delle visite e ha affermato di essere “attivamente impegnato con le autorità competenti su questa questione critica nel nostro consueto dialogo bilaterale e confidenziale”.

Sebbene negli ultimi mesi Israele abbia iniziato a consentire alcune visite ai familiari, alla maggior parte dei prigionieri palestinesi rimane vietato qualsiasi contatto con le famiglie.

“Tra il 7 ottobre e il mio rilascio a fine aprile, non mi è stata concessa una sola visita familiare e il mio avvocato ha potuto visitarmi solo due volte”, racconta Thaer Taha. “Durante il mio periodo di detenzione, poco dopo il 7 ottobre, mio figlio, che ha 17 anni, è stato ferito da un proiettile israeliano alla gamba mentre partecipava a una protesta. L’ho saputo solo dopo il mio rilascio, ad aprile. Questo è il modo in cui i prigionieri sono stati tagliati fuori dal resto del mondo”.

https://mondoweiss.net/2024/06/the-genocide-in-israeli-prisons/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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