di Lama Ghosheh,
Palestine studies, 31 ottobre 2023.
Come donne palestinesi, guardiamo i telegiornali con gli occhi e il cuore di madri, temendo costantemente per i nostri figli e cercando di proteggerli dai missili e dai proiettili dell’occupazione che mirano ai loro volti e ai loro piccoli corpi innocenti. Ci chiediamo costantemente: perché le madri di Gaza e della Palestina devono sopportare un tale dolore? Cosa significa essere madre nella Palestina occupata? Partorire in questa terra è un crimine contro i nostri figli?
La maternità nella Palestina occupata può essere definita come uno “stato costante di paura, dolore e rabbia”. Significa prepararsi continuamente alla perdita e imparare a controllare le emozioni. Significa preparare i nostri figli ad assenze forzate, morti improvvise, arresti inaspettati, ferite critiche e altro ancora. Le fonti di dolore sono numerose e ci tengono costantemente in tensione. E i motivi di speranza scarseggiano. Come madri palestinesi, il nostro ruolo è quello di mantenere un equilibrio tra dolore e speranza nei cuori e nelle menti dei nostri figli, rendendo la vita possibile e sopportabile.
In questo articolo mi propongo di condividere le esperienze delle donne di Gaza durante la guerra in corso, portando le loro voci in primo piano mentre le nostre fanno un passo indietro. Il mio obiettivo è fare luce sulle sofferenze invisibili e non raccontate che sopportano. Desidero narrare le loro storie, quelle che sono state trascurate dagli obiettivi delle telecamere e non raccontate dai giornalisti in televisione. In mezzo al travolgente spargimento di sangue e all’orribile bilancio delle vittime, è rimasto poco spazio per il dolore, il lutto e la catarsi.
Politiche di negazione della maternità durante la guerra a Gaza
Dal 7 ottobre, le donne di Gaza sono state sottoposte a sofferenze insopportabili e inimmaginabili, che le hanno rese vulnerabili a varie forme di oppressione da parte delle forze di occupazione. Hanno sperimentato ogni tipo di dolore, oppressione e perdita. I loro sensi sono stati intorpiditi, i loro corpi violati, i loro ricordi distrutti e la loro maternità negata. Gaza sta vivendo un genocidio di massa che trascende il tempo e rivela una morte incombente che minaccia tutti gli esseri viventi in uno scenario privo di qualsiasi parvenza di umanità.
Heba Abu Nada, una martire di Gaza ha scritto sulla sua pagina Facebook il 9 ottobre, pochi giorni prima della sua morte, avvenuta il 23 ottobre, descrivendo questa guerra rispetto alle precedenti guerre condotte dalle forze israeliane su Gaza negli ultimi anni: “In ogni guerra precedente, Israele aveva uno schema specifico di obiettivi: a volte erano famiglie, a volte moschee, a volte strade, a volte zone di confine o centrali, a volte torri residenziali. C’era un piano per il bombardamento che noi, quelli sotto tiro, capivamo e sulla base del quale potevamo prevedere gli obiettivi, gli attacchi aerei e la durata prevista della guerra. Ma questa volta non c’è uno schema specifico; tutto è sotto attacco, come se tutte le guerre precedenti fossero ora concentrate in una sola. Gaza, da nord a sud, è sotto un fuoco indiscriminato e incessante, un massacro di massa e di uccisione arbitraria di ogni cosa”.
Allo stesso modo, una donna incinta di cinque mesi chiede attraverso una pagina Facebook dedicata all’assistenza materno-infantile: “La situazione qui è pericolosa e il boato dei missili che esplodono è terrificante. Corro freneticamente per la casa ogni ora, vengo spaventata dai rumori dei missili e di notte mi sveglio terrorizzata. Da due giorni non sento più il mio bambino scalciare dentro di me. Come faccio a sapere se il mio bambino è ancora vivo?”.
Questa domanda piena di paura tormenta migliaia di donne. Attualmente a Gaza ci sono più di 493.000 donne e ragazze sfollate a causa della guerra, e il numero è in aumento. Tra di loro ci sono 900 donne vedove che sono ora responsabili del mantenimento della famiglia dopo la morte dei loro partner. Ci sono anche più di 2.187 donne martirizzate (al 31 ottobre), 50.000 donne incinte in attesa di partorire (tra cui 5.522 che dovrebbero partorire nel prossimo mese), mentre ci sono 540.000 donne in età fertile a Gaza. Le madri a Gaza affrontano rischi immensi; vivono in uno stato di paura e trauma quotidiano, con accesso limitato alle forniture mediche. Possono persino avere difficoltà ad accedere ad anestetici e antidolorifici o ad altri farmaci essenziali durante un parto o un travaglio complicato.
Le donne palestinesi di Gaza devono anche affrontare una maggiore probabilità di aborto spontaneo, di parto morto o di parto prematuro. Di conseguenza, è probabile che i tassi di mortalità materna durante il parto continuino ad aumentare. Inoltre, le donne di Gaza soffrono per la mancanza di assorbenti igienici e dell’acqua necessaria per mantenere l’igiene personale. Sono costrette a dormire per terra nei rifugi, esposte alle intemperie e con grande disagio fisico. Alcune donne sono ricorse all’assunzione di pillole anticoncezionali per interrompere il ciclo mestruale, il che potrebbe causare futuri rischi per la salute.
Questa situazione sottolinea una dura realtà: che la gravidanza, il postpartum, il parto, le mestruazioni e l’aborto non cessano durante la guerra.
Grembi sotto assedio
La ricercatrice Nadera Shalhoub-Kevorkian descrive come l’occupazione israeliana utilizzi il corpo delle donne e il loro utero come strumento di ricatto e intimidazione. Dice: “Ho parlato a lungo di come leggere la sessualità delle donne nel contesto della violenza dei coloni israeliani, e un esempio nei miei scritti è che durante la guerra a Gaza, Mordechai Kedar, un accademico che ha servito per 25 anni nell’intelligence militare israeliana, alla domanda su come affrontare la resistenza palestinese, disse: ‘L’unico modo è spaventarli e stuprare le loro donne’. Nella battaglia di Jenin, i soldati israeliani annunciavano con gli altoparlanti: ‘Popolo di Jenin, arrendetevi e risparmiate le vostre donne’”.
In modo analogo, la ricercatrice Nour Bader, in un’intervista sullo stesso tema, sottolinea il suo lavoro con le donne gazane affette da cancro al seno in fase terminale durante le riprese del suo documentario intitolato “The Edge of Death (Il bordo della morte)”. L’autrice fa luce sull’intricata rete di oppressione che le donne devono affrontare: “L’utero delle donne a Gaza è rimasto sotto assedio per diciassette anni e queste donne hanno sofferto molto a causa delle condizioni di vita estremamente dure. ‘Finché l’utero continua a lavorare, continua a partorire’. Questa frase popolare dovrebbe farci capire la crudeltà di trattare l’utero come una semplice macchina o un contenitore con il solo compito di partorire. Se si osservano le donne stesse, si capisce che questi grembi non sono mai stati semplici contenitori di bambini, ma sono le prime culle dei nostri figli. In questa culla, i sentimenti che proviamo per i nostri figli non ancora nati cominciano a prendere forma attraverso l’attesa e l’impazienza di vederne il volto e di sentirne la voce, sentimenti che poi si sviluppano in un forte legame quando, dopo la nascita, stringiamo al cuore i nostri figli “.
In risposta a una domanda sulle politiche di negazione della maternità durante la guerra, in particolare attraverso lo spettro di perdite ripetute di figli, Bader afferma: “Una perdita durante la guerra ci fa mettere in discussione il valore della vita come madri. Ecco perché negare la maternità alle donne palestinesi è la chiave del progetto coloniale. Con le perdite ripetute, le madri gridano: “Prendeteci con loro”, “Seppelliteci con loro”. Con la perdita dei loro figli, le madri perdono il senso della loro vita. Che altro significa uccidere tutti coloro che le donne amano e per cui vivono? I loro figli vengono uccisi, eppure son richieste di partorire ancora e ancora, di piangere ripetutamente. Come madre, posso dire che la gravidanza può diventare una fonte di paura anziché di gioia. In circostanze normali, la gravidanza è una fonte di felicità e di gioia. Tuttavia, nel contesto della guerra, la gravidanza può diventare una fonte di paura e confusione, poiché si teme la morte dei propri figli non ancora nati”.
Allo stesso modo, il dottor Ibrahim Matar, testimone delle peggiori atrocità di questa guerra, descrive una delle scene più dolorose a cui ha assistito: “Ho visto madri correre nei corridoi, piangendo come se il mondo fosse finito. Ansimavano e gridavano: ‘Sono vivi? Chi è ancora vivo? Dove sono i miei figli? Non ho altri che loro, oh Dio’”.
La martire Heba Abu Nada ha descritto il ruolo primario delle madri a Gaza, che è quello di preoccuparsi: “Le madri non capiscono le normali telefonate volte a rassicurarle o a chiedere informazioni sul momento in cui torneranno a casa. Nella loro mente, dietro ogni domanda c’è sempre un disastro o qualcosa di orribile che stiamo nascondendo a loro. Oh Dio, le madri smetteranno mai di preoccuparsi?”. Una domanda importante sollevata dalla martire, a cui risponde inavvertitamente in un altro post in cui scrive: “In paradiso, c’è una nuova Gaza senza assedio che si sta costruendo ora”, sottintendendo che la preoccupazione non può lasciare i cuori delle madri di Gaza se non in un universo parallelo senza occupazione israeliana.
Le teorie femministe postcoloniali evidenziano la forte relazione tra madre e nazione e indicano che al ruolo biologico delle donne viene spesso assegnato un posto centrale e importante nel discorso nazionale e nella lotta nazionale. I corpi delle donne sono sistematicamente presi di mira come parte dei meccanismi di potere coloniale per imporre il dominio razziale ed eliminare le comunità indigene. La violenza sessuale è stata commessa in contesti coloniali contro le donne indigene attraverso lo stupro, il controllo delle loro capacità riproduttive, la tortura e l’uccisione.
Shalhoub-Kevorkian sottolinea che lo squilibrio tra il potere esterno israeliano e quello interno palestinese porta a reindirizzare il potere israeliano verso i gruppi con potere limitato, di solito le donne. La sua analisi suggerisce che la violenza contro i corpi delle donne palestinesi e la loro sessualità è rafforzata dallo stato sionista per sostenere le strutture patriarcali. Lo stato israeliano ha sfruttato la minaccia di violenza sessuale contro le donne palestinesi e le concezioni patriarcali di sessualità e “onore” per reclutare i palestinesi come collaboratori e scoraggiare la resistenza organizzata.
La propaganda sionista e coloniale dipinge i palestinesi come un popolo privo della “vitamina” della maternità, mentre presentano la società israeliana come l’apice dell’umanità e delle emozioni. Si cerca di bollare la società palestinese come arretrata, discriminatoria nei confronti delle donne, odiosa. Tuttavia, la realtà dimostra che le madri sono la pietra angolare della società palestinese e il loro ruolo non può essere limitato alla sola maternità biologica. La maternità diventa una forza rivoluzionaria. Crescere i figli nella Palestina occupata fa parte della nostra resistenza collettiva, soprattutto perché l’essere madre richiede di crescere i figli come forza vitale in un mondo che può essere cambiato solo insieme a tutti loro.
La martire palestinese Jamila Al-Shanti, conosciuta come Um Abdullah, è un esempio significativo del ruolo rivoluzionario delle madri a Gaza. Al-Shanti, uccisa il 18 ottobre 2023 per un bombardamento della sua casa da parte di aerei da guerra israeliani a Gaza City, è stata la prima donna a far parte dell’ufficio politico del Movimento di Resistenza Islamica (Hamas) ed è salita alla ribalta nel 2006 quando ha guidato una marcia di donne che è riuscita a rompere l’assedio dell’esercito israeliano a una moschea di Beit Hanoun, dove erano assediati decine di combattenti della resistenza. Tre giorni dopo quell’evento, la sua casa è stata distrutta da un attacco aereo israeliano, causando il martirio della moglie di suo fratello. Nel 2013 è stata nominata ministro degli Affari Femminili e nel 2021 è diventata membro dell’ufficio politico di Hamas.
Migliaia di madri a Gaza sono state martirizzate, mentre migliaia sono rimaste vedove e altre migliaia stanno perdendo i loro figli. Ci sono anche migliaia di bambini rimasti orfani di madre e migliaia di feti uccisi nel grembo delle loro madri prima ancora di vedere la luce. Il massacro continua e la tragedia continua e straziante della perdita non si è ancora fermata. Tutto questo sta accadendo, e le donne di Gaza non hanno modo di dare voce al loro dolore se non attraverso urla, lacrime e lamenti prolungati che hanno toccato il cuore di milioni di madri dietro gli schermi di tutto il mondo. La maternità è un atto istintivo collettivo, la sua forza non conosce limiti e nessuna prosa può descriverla adeguatamente. Dietro a tutte le madri palestinesi esauste, c’è la madre che si è accollata tutti i nostri fardelli e ha sopportato tutti i nostri dolori, in un viaggio che risale a più di duemila anni fa. È la custode dei nostri ricordi e per lei è stato versato il nostro sangue. È la nostra grande madre e la nostra terra, la Palestina, dal fiume al mare.
Lama Ghosheh è una giornalista palestinese.
https://www.palestine-studies.org/en/node/1654522
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
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