In Cisgiordania, l’apartheid israeliano distrugge la vita dei palestinesi

Set 29, 2023 | Notizie

di Mehdi Belmecheri-Rozental,

Orient XXI Info, 27 settembre 2023. 

Anche se non ha le stesse caratteristiche in tutta Cisgiordania, il sistema di segregazione spaziale e temporale messo in atto da Israele al di là della Linea Verde assicura la copertura dei Territori Occupati a beneficio dell’esercito israeliano e dei coloni. Con questo regime di apartheid, la popolazione palestinese, da parte sua, si vede relegata al secondo posto nelle proprie terre.

Il checkpoint di Huwara, all’ingresso meridionale di Nablus, nella Cisgiordania occupata. 26 febbraio 2023. Jaafar Ashtiyeh/ AFP

Nablus, Cisgiordania settentrionale. La città si estende su una stretta valle incastonata tra due montagne, il Monte Ebal e il Monte Gerizim. Qui, una pianificazione urbanistica invadente ha trasformato la valle in una stretta e soffocante sfilata di case. Gli edifici si aggrovigliano l’uno su l’altro, aggrappati ai fianchi delle colline, come se la città cercasse di superare i propri limiti. Va detto che intorno ad essa l’esercito israeliano ha eretto posti di blocco che possono essere ancora più impraticabili delle cime circostanti.

Nablus è circondata da decine di insediamenti, tra cui quello di Shavei Shomron a nord-ovest della città, sulla strada per Tulkarem, o Har Bracha, arroccato sul versante meridionale del Monte Gezirim. È inoltre circondata da numerosi “avamposti”, i cosiddetti insediamenti “selvaggi” creati senza l’autorizzazione del governo israeliano, come quello di Sneh Ya’akov, costruito nel 1999 su terreni agricoli palestinesi.

Più giovane della “colonia selvaggia”, Firas [nome fittizio, per lui e per gli altri] è cresciuto a Nablus. Gli chiediamo della sua vita quotidiana, visto che il checkpoint israeliano di Huwara, uno di quelli che circondano la città, è stato appena chiuso dall’esercito fino a nuovo ordine. Situato all’ingresso meridionale di Nablus, questo posto militare prende il nome da un villaggio adiacente. Nel febbraio 2023, dopo l’omicidio di due residenti di un insediamento da parte di un palestinese, circa 400 coloni hanno attaccato il villaggio e bruciato numerose case, ma anche veicoli e aziende. Questa spedizione punitiva ha lasciato una vittima tra gli abitanti del villaggio e centinaia di feriti.

Mai fidarsi del GPS

Firas ci racconta le sue impressioni riguardo a questi ostacoli alla circolazione che violano il diritto fondamentale alla libertà di movimento e riguardo alle continue minacce che gravano sui palestinesi. Per lui, questo è ciò che più simboleggia l’apartheid israeliano:

“Il mondo si rende davvero conto di quanti ostacoli dobbiamo superare ogni giorno? Dei nostri problemi di traffico per andare al lavoro la mattina e poter lavorare normalmente, ma anche per condurre la nostra vita familiare? Tutto questo deve finire.”

Intorno a Nablus, l’esercito israeliano gestisce molti altri posti di blocco. Tra i principali, troviamo Beit Furik a est, Al-Tur a ovest, che taglia fuori la città dal Monte Gerizim, e a sud la postazione militare di Awarta. Qui, di fronte alla moltiplicazione dei posti di blocco e a un arsenale di dispositivi che costituiscono una vera e propria architettura di controllo della popolazione, è meglio non fidarsi del navigatore GPS: è incapace di adattarsi alle complesse regole istituite dalle autorità di occupazione. Ed è difficile immaginare che l’applicazione Google Maps possa indicare il percorso più appropriato da seguire a seconda che si sia “palestinesi” o “israeliani”.

Dima ha 34 anni e lavora in una ONG la cui sede si trova sulle alture di Nablus. Ci racconta che se vuole andare in macchina a trovare degli amici a Tulkarem, che dista solo una cinquantina di chilometri a nord-est della città, deve viaggiare per due o tre ore. Se non ci fossero così tanti posti di blocco e ostacoli fisici eretti dall’esercito, questo stesso viaggio richiederebbe solo 30-45 minuti. Inoltre, i posti di blocco vengono regolarmente chiusi, a volte per tutto il giorno, a causa delle proteste organizzate dai coloni o con vari altri pretesti. “E intanto”, lamenta Dima, “noi palestinesi non possiamo raggiungere il nostro posto di lavoro, gli studenti non possono andare all’università… La vita si ferma. Qui, 2 km per noi o 2 km per gli israeliani non sono la stessa distanza”.

Wael è originario di Hebron (Al-Khalil). Ha studiato all’Università Al-Quds di Abu Dis, una città vicina a Gerusalemme. “Ho perso diversi esami a causa del checkpoint “Container” e, come molti studenti, sono spesso arrivato in ritardo alle lezioni”. Questo posto di blocco, situato nei pressi di Abou Dis, prende il nome da un container che si trovava lì in passato e che serviva come bancarella per vendere bevande o snack agli automobilisti.

Regole kafkiane

Oggi, questo imponente checkpoint Container taglia letteralmente in due la Cisgiordania. Per gli studenti palestinesi, lo stress è ancora maggiore perché non sanno mai cosa potrebbe accadere ai posti di blocco: “Il giorno in cui dovevo sostenere l’esame di stato a Gerico”, continua Wael, “il test era alle 9.30. Ho preso il taxi alle 6 e alle 7.40 sono arrivato al checkpoint. Un soldato mi ha chiesto di scendere dal veicolo, mi ha costretto a spogliarmi e mi ha lasciato così per due ore. Non ho superato l’esame e ho dovuto rifarlo sei mesi dopo…”.

Per cercare di anticipare i tempi, i palestinesi si stanno organizzando attraverso gruppi di comunicazione sulla app Telegram per condividere informazioni sulla situazione delle “strade dell’apartheid”. Le regole sono kafkiane: le autorità militari israeliane rilasciano 101 diversi tipi di permessi per controllare gli spostamenti dei palestinesi. Una vera e propria burocrazia speciale amministra questo sistema di segregazione.

Uri è un pacifista israeliano attivo nel movimento Standing Together, in cui è membro della direzione nazionale. Spiega di non dover affrontare gli stessi vincoli dei palestinesi:

“I coloni israeliani che vivono nei Territori Occupati non sono soggetti a tali ritardi nel passaggio dei posti di blocco e lo Stato ha persino aperto per loro percorsi speciali [le bypass roads] in modo che possano spostarsi più facilmente. Come cittadino che vive all’interno dello Stato di Israele e non nei Territori Palestinesi occupati, non sono soggetto a queste restrizioni in termini di libertà di movimento.”

Questa rete di “strade coloniali” costituisce uno dei pilastri dell’apartheid in Cisgiordania. Le ostruzioni alla circolazione e le centinaia di ostacoli che impediscono ai palestinesi di muoversi creano naturalmente due regimi distinti per la gestione del proprio tempo a seconda della cittadinanza (palestinese o israeliana).

Questo sistema discriminatorio, accompagnato da molteplici forme di umiliazione ai posti di blocco, è la sorte quotidiana dei palestinesi. Israele li tiene in un sistema di oppressione permanente in cui l’esercito ha il ruolo di padrone del loro tempo e del loro spazio.

Accettando pienamente questo regime di segregazione, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato nel 2020: “Siamo noi a dettare le regole di sicurezza in tutto il territorio.  (…) Loro resteranno sudditi palestinesi.”

Gestione discriminatoria dell’acqua

Anche la città di Gerico, situata nella Valle del Giordano, fornisce un buon esempio del sistema di apartheid che colpisce tutti gli aspetti della vita palestinese. Questa città secolare, soprannominata “città delle palme” nell’Antico Testamento, era un tempo nota per le sue abbondanti fonti d’acqua. Oggi, come nel resto della Palestina, i suoi abitanti non hanno libero accesso all’acqua, come racconta Anwar, un tassista di Gerico:

“In pochi anni, viaggiando per la città e i suoi dintorni, ho potuto constatare l’accelerazione della siccità che sta colpendo i nostri terreni agricoli. Noi qui soffriremo ancora di più del riscaldamento globale, perché Israele monopolizza l’acqua e ci vende ciò che dovrebbe appartenerci, mentre i coloni pagano l’acqua meno di noi perché Israele li aiuta [finanziariamente]… L’azienda che vende la nostra acqua ci taglia regolarmente l’accesso, soprattutto durante i periodi di siccità, perché la nostra fornitura passa in secondo piano rispetto a quella degli israeliani e dei coloni. Siamo totalmente dipendenti da Israele, che ci tratta come se fossimo il nulla.”

Nel 1995, gli “accordi di pace” di Oslo II hanno diviso le risorse idriche sotterranee della regione tra israeliani e palestinesi, attribuendo l’80% ai primi e il 20% ai secondi. Questo “accordo” non ha mai potuto essere rinegoziato e Israele è responsabile, attraverso la sua compagnia nazionale Mekorot, della gestione dell’approvvigionamento idrico dei Territori Occupati, che ottiene principalmente dalle falde acquifere della Cisgiordania – un’altra pietra basilare per la struttura del regime amministrativo discriminatorio a cui sono sottoposti i palestinesi.

Obey è un agricoltore di una cittadina vicino a Tulkarem, lungo la Linea Verde. Come molti agricoltori, soffre per le restrizioni idriche. Ma se vuole costruire un pozzo sulla sua terra, deve, come tutti gli agricoltori palestinesi, ottenere l’autorizzazione da Israele, che molto raramente la concede: “Qui lo Stato palestinese non ha alcun potere e quando Israele ci taglia l’acqua, dobbiamo comprare quella che arriva con i camion, a un prezzo molto più alto. Durante questi periodi, le colonie ne fanno largo uso, e a volte sono anche dotate di piscine.”

Disuguaglianze nel sistema sanitario

Ma per Obey l’ingiustizia non si ferma alla questione dell’acqua. Nel 1984, quando era ancora un giovane agricoltore, un tribunale israeliano chiuse una fabbrica in un villaggio israeliano perché inquinava l’ambiente. Obey ci racconta il resto con un tono pieno di amarezza:

“E sapete cosa hanno fatto? Hanno confiscato parte della nostra terra, hanno messo il muro [di separazione] in mezzo e hanno spostato la fabbrica chimica che ora sta contaminando il nostro suolo, la nostra aria e le nostre piantagioni, rendendo inutilizzabile una parte dei nostri campi… Che cosa siamo noi ai loro occhi per permettersi una cosa simile?”

In un rapporto pubblicato nel 2017, l’organizzazione israeliana B’Tselem ha rivelato come Israele trasferisca diversi tipi di rifiuti in Cisgiordania: fanghi di depurazione, metalli, solventi, batterie e altri prodotti pericolosi. Questa situazione illustra il meccanismo discriminatorio messo in atto da Israele per proteggere la salute dei suoi cittadini a scapito di quella dei palestinesi.

Anche Firas, il giovane di Nablus, vede quotidianamente queste violazioni del diritto alla salute, in quanto volontario della Mezzaluna Rossa palestinese:

“L’esercito ostacola sistematicamente i nostri spostamenti e il nostro lavoro e ci prende costantemente di mira. Diversi miei colleghi sono stati arrestati e attaccati nonostante le loro uniformi, mentre stavano semplicemente svolgendo il loro lavoro. I palestinesi muoiono ai posti di blocco perché le ambulanze vengono fermate arbitrariamente.”

Una “giustizia” asimmetrica

In questo contesto in cui i diritti di alcuni sono garantiti a scapito di quelli di altri, non sorprende che non tutti siano uguali davanti alla legge. Firas sottolinea quindi che “da mesi la situazione è sempre più difficile. Non c’è mai stata tanta violenza da parte dell’esercito ma anche dei coloni, e questi attacchi vengono condonati da Israele”. Le Nazioni Unite hanno così registrato in Cisgiordania 621 attacchi compiuti dai coloni contro i palestinesi nel corso dell’anno 2022.

Obey ci spiega che “qui la giustizia è una giustizia di apartheid. Se un colono viene arrestato per violenza, sarà processato da un tribunale civile e non rischia quasi nulla. I coloni sanno di poter agire impunemente. Noi siamo giudicati da un tribunale militare arbitrario che può condannarci senza prove e infliggere punizioni collettive come la distruzione delle case”.

Il regno dell’impunità emerge anche da una storia personale vissuta da Wael: “Nell’ambito del mio lavoro, ho conosciuto una donna drusa [di Israele]. A poco a poco abbiamo iniziato a frequentarci e a uscire insieme. La cosa è stata scoperta dalla sua famiglia, in cui tutti i membri lavorano per l’esercito israeliano. Qualche giorno dopo, i soldati sono venuti a minacciarmi, mi hanno puntato una pistola alla testa e mi hanno detto: ‘Speriamo che il messaggio sia arrivato’. Ho chiuso la mia relazione con questa ragazza: cos’altro potevo fare?”

Lo sgomento di Wael dà una misura dell’impotenza dell’Autorità Palestinese. “L’unico termine che posso usare è apartheid”, ci dice Obey. E conclude:

“Certo, la situazione non è esattamente come quella del Sudafrica, ma Israele ha effettivamente instaurato un regime di apartheid, con le sue specificità. Qui Israele controlla ogni aspetto della nostra vita e ci ha relegato a uno status subordinato. Gli israeliani trattano la nostra esistenza e il nostro territorio come se noi fossimo una loro proprietà.

Mehdi Belmecheri-Rozental èlaureato presso la Scuola di Studi Avanzati in Scienze Sociali (EHESS); la sua tesi si concentra sul video come strumento di lotta in Palestina.

https://orientxxi.info/magazine/en-cisjordanie-l-apartheid-israelien-destructure-la-vie-des-palestiniens,6723

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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