Trent’anni di Oslo

Set 15, 2023 | Notizie, Riflessioni

di MouinRabbani,  

Jadaliyya, 12 settembre 2023. 

Il 13 settembre 1993 il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Yasir Arafat firmarono gli accordi di Oslo durante una cerimonia alla Casa Bianca officiata dal presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. Per celebrare il trentesimo anniversario di questo accordo e fare il punto sugli sviluppi dei decenni successivi e sulle loro implicazioni per il futuro, i redattori di Palestine Page diJadaliyya hanno intervistato il condirettore di Jadaliyya Mouin Rabbani.

Jadaliyya (J): Qual è stata la tua reazione quando hai saputo degli accordi di Oslo del 1993?

Mouin Rabbani (MR): La notizia che Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) avevano concluso con successo i colloqui segreti di Oslo cominciò a emergere tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1993. Alla fine di agosto i contorni generali di questo accordo erano chiari e fu subito evidente che si trattava di un disastro completo e senza attenuanti.

La natura asimmetrica di questi accordi si coglie meglio, a mio avviso, nelle lettere di riconoscimento scambiate tra il leader palestinese Yasir Arafat (Abu Ammar) e il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin che accompagnarono l’accordo di Oslo.

Nella sua lettera, Arafat, a nome dell’OLP, “riconosce il diritto dello Stato di Israele ad esistere in pace e sicurezza”; “accetta le risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”; si impegna a risolvere tutte le “questioni in sospeso” con Israele, esclusivamente “attraverso i negoziati”; “rinuncia” alla forza armata “e si assume la responsabilità di tutti i settori e il personale dell’OLP per assicurarne il rispetto”; e dichiara che gli “articoli” e le “disposizioni” del Patto Nazionale Palestinese del 1968 “incoerenti con gli impegni di questa lettera sono ora inoperanti e non più validi”. In aggiunta, Arafat indirizzò una seconda lettera al ministro degli Esteri norvegese Johan Jorgen Holst, che aveva organizzato i negoziati segreti israelo-palestinesi, informandolo che “l’OLP incoraggia e invita il popolo palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza a prendere parte ai passi che portano alla normalizzazione della vita, rifiutando la violenza e il terrorismo, contribuendo alla pace e alla stabilità”.

La lettera di Rabin è molto più breve. Essa afferma, riportata per esteso, che:

In risposta alla Sua lettera [di Arafat] del 9 settembre 1993, desidero confermarLe che, alla luce degli impegni dell’OLP contenuti nella Sua lettera, il Governo di Israele ha deciso di riconoscere l’OLP come rappresentante del popolo palestinese e di avviare negoziati con l’OLP nell’ambito del processo di pace in Medio Oriente.

A differenza della lettera di Arafat, il testo di Rabin non fa alcun riferimento ai diritti dei palestinesi, né limita in alcun modo le opzioni di Israele nei suoi futuri rapporti con i palestinesi. In altre parole, in cambio di una serie di concessioni strategiche palestinesi, Israele accettò magnanimamente di negoziare le condizioni di resa dell’OLP.

La Dichiarazione di Principi sugli Accordi ad Interim di Autogoverno, come viene formalmente chiamato l’Accordo di Oslo, è lunga solo poche pagine e in gran parte priva di gergo tecnico, e vale la pena di leggerla per coloro che non l’hanno fatto. Non contiene un solo riferimento a “occupazione”, “autodeterminazione”, “statualità” o altro. Piuttosto, i palestinesi avrebbero dovuto esercitare un’autonomia limitata, all’interno di aree circoscritte dei territori occupati (esclusa Gerusalemme Est), dalle quali le forze israeliane si sarebbero “ridispiegate” piuttosto che ritirate. Non contenendo né chiari termini di riferimento per quello che definisce un accordo sullo “status permanente”, né chiarezza sulla sua sostanza o forma, né significativi meccanismi di risoluzione delle controversie, Oslo ha in pratica trasformato i territori occupati in territori contesi. In questo quadro, le rivendicazioni israeliane e i diritti palestinesi dovevano essere trattati come ugualmente validi, mentre subordinare l’intero processo a negoziati bilaterali significava che Israele acquisiva un potere di veto sui diritti palestinesi. Per di più, il processo sarebbe stato supervisionato dagli Stati Uniti, per decenni alleato strategico e sponsor geopolitico di Israele, che aveva ufficialmente designato l’OLP come organizzazione terroristica proscritta.

Su questa base, consideravo Oslo un disastro senza appello e ho sempre espresso questa opinione fin dal 1993. All’epoca, le questioni che ebbero il maggiore impatto furono l’effettivo abbandono, da parte della leadership, dei rifugiati, che costituiscono la maggioranza del popolo palestinese; la frammentazione politico-istituzionale del popolo palestinese; la sospensione indefinita dell’agenda nazionale in cambio di una ricostruzione economica che difficilmente si sarebbe concretizzata (allo stato attuale, l’economia palestinese non è che l’ombra di ciò che era nel 1993); e la trasformazione del movimento nazionale in un’autorità locale. Edward W. Said – che in precedenza aveva sostenuto la partecipazione palestinese ai negoziati di Madrid/Washington ed era a quel tempo un sostenitore della soluzione dei due Stati – ha colto nel segno quando ha denunciato Oslo come “una Versailles palestinese“.

Sebbene non mi sia mai fatto illusioni su Oslo, e fin dall’inizio l’abbia considerato un accordo destinato a ristrutturare e consolidare il dominio israeliano sui palestinesi piuttosto che a porvi fine, non avevo tuttavia previsto la portata e l’entità della catastrofe che ha prodotto. Le cose sono andate molto peggio di quanto i più acerrimi critici di Oslo potessero immaginare, soprattutto nella Striscia di Gaza e nella Valle del Giordano. Sospetto che persino Said, scomparso vent’anni fa questo mese, sarebbe sbalordito dalla realtà attuale.

J: Puoi indicare una o due politiche o pratiche israeliane che Oslo ha reso possibili? Come sono cambiate nel tempo?

MR: Ci sono politiche e pratiche israeliane che hanno reso possibile Oslo e quelle che Oslo ha reso possibile.

Per quanto riguarda il primo aspetto, ritengo che la politica israeliana di assassinare i leader palestinesi ovunque e in qualsiasi momento abbia giocato un ruolo importante. Nel 1993 i principali confederati e potenziali contrappesi di Arafat nel movimento Fatah, come Khalil al-Wazir (Abu Jihad) e Salah Khalaf (Abu Iyad), per citarne solo due, erano stati tutti eliminati. All’interno dell’OLP altre organizzazioni, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (DFLP), erano molto diminuite o indebolite da scismi interni. La corrente islamista, rappresentata principalmente da Hamas e dalla Jihad Islamica, allora come oggi operava indipendentemente dall’OLP e non aveva alcuna influenza sulle sue decisioni.

Di conseguenza, Arafat ha ottenuto un controllo incontrastato e senza ostacoli sul movimento nazionale. Ciò gli permise di impegnare Fatah e l’OLP a Oslo senza che vi fossero serie sfide interne. La situazione era così grave che individui come Mahmoud Abbas (Abu Mazin) e Ahmad Qurai (Abu Alaa) passarono da una relativa oscurità e insignificanza politica a posizioni di leadership nazionale. Nel 2004 Arafat è stato quasi certamente assassinato anche da Israele, a mio avviso come parte di un’iniziativa premeditata per catapultare Abbas alla leadership dopo che Arafat aveva abortito con successo la premiership di Abbas del 2003, imposta ad Arafat da Stati Uniti e Israele, con l’Unione Europea (UE) sempre al seguito.

La seconda politica di supporto è stata l’implacabile campagna di violenza di massa di Israele nei territori occupati, e nella Striscia di Gaza in particolare, per stroncare la rivolta del 1987-1993. Non ha avuto successo, ma come ha notato perspicacemente Graham Usher all’epoca, ha gettato le basi per una diffusa acquiescenza palestinese, e un certo entusiasmo, in questi territori per le false promesse di Oslo.

In termini di ciò che Oslo ha reso possibile, l’espansione esponenziale delle colonie israeliane dal 1993 è il fenomeno più evidente. La colonizzazione è ovviamente iniziata subito dopo che Israele ha occupato e avviato l’”annessione strisciante” della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel giugno 1967, ma Oslo ha comunque rappresentato un punto di svolta cruciale.

Sebbene l’impresa degli insediamenti costituisca una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e un crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (motivo principale per cui Israele si è rifiutato di ratificare lo Statuto), gli accordi di Oslo non fanno alcun riferimento al diritto internazionale. Inoltre, lo sponsor del processo di Oslo, gli Stati Uniti, non ha risparmiato alcuno sforzo per garantire che il diritto internazionale non sia applicato alla condotta di Israele nei confronti dei palestinesi al di là dei confini di Oslo, che non sia ritenuto responsabile delle sue azioni e che possa continuare ad agire con illimitata impunità. In altre parole, gli Stati Uniti hanno fatto in modo che Oslo fosse attuato al di fuori delle norme e delle regole stabilite per governare la condotta internazionale.

Gli accordi di Oslo non autorizzano l’espansione degli insediamenti. Ma soprattutto non la vietano esplicitamente. Chiunque abbia un minimo di familiarità con la politica israeliana ha capito immediatamente che i suoi leader avrebbero trattato l’assenza di un divieto esplicito come una licenza a continuare, e questo è esattamente ciò che hanno fatto negli ultimi tre decenni.

La risposta di Israele al massacro della moschea di Abramo a Hebron nel 1994, perpetrato da un fanatico colono israelo-americano e strumentalizzato per rafforzare ulteriormente il proprio controllo su Hebron e sulla moschea invece di affrontare i coloni, ha fornito una prima e definitiva indicazione in tal senso. Va ricordato che questa risposta è stata guidata da Rabin, dal suo collega premio Nobel per la pace Shimon Peres e dal loro comandante militare Ehud Barak, non da Binyamin Netanyahu o Itamar Ben-Gvir.

Almeno altrettanto importante è il fatto che il processo di Oslo ha fornito all’espansione degli insediamenti una cruciale foglia di fico politica. Ogni volta che Israele si impegnava in un nuovo atto di colonizzazione, come la costruzione dell’insediamento di Har Homa su Jabal Abu Ghnaim nel 1997, questo veniva tollerato con il pretesto di mantenere vivo il processo: l’amministrazione Clinton ricorse a questo argomento quando pose il veto a diverse bozze di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che condannavano l’insediamento di Har Homa. In effetti, praticamente ogni azione israeliana sul terreno, soprattutto negli anni ’90, è stata di fatto ignorata in nome del mantenimento del processo. (È in questo periodo che Oslo ha acquisito il nomignolo di “piss project” [gioco di parole tra Peace-related, Intermediate Stress Syndrome e la parola pisciare NdT]).

Più in generale, si è diffuso l’atteggiamento secondo cui l’espansione degli insediamenti non era particolarmente importante perché – in un altro sviluppo introdotto durante Oslo – Israele avrebbe mantenuto permanentemente i principali blocchi di insediamenti in qualsiasi accordo di pace, mentre quelli di un’eventuale entità palestinese sarebbero stati smantellati o assorbiti da Israele. La conseguenza pratica di questo concetto è stata, ovviamente, che ogni anno che passava una  maggior quantità di territori palestinesi diventavano idonei all’annessione permanente da parte di Israele.

Se, per amor di discussione, prendiamo sul serio le affermazioni secondo cui Oslo avrebbe dovuto concludersi con la statualità palestinese, ignorare la realtà sul campo con il pretesto di preservare il processo diplomatico ha contribuito a garantirne il fallimento.

Più precisamente, l’indulgenza senza limiti verso l’insaziabile appetito di Israele per la terra palestinese caratterizzò il ruolo di Washington, cosa non da poco se si considera la sua esclusiva titolarità del processo di Oslo. Aaron David Miller, vice coordinatore per il Medio Oriente del Dipartimento di Stato americano per i negoziati arabo-israeliani negli anni Novanta, ha paragonato il ruolo degli Stati Uniti come onesto mediatore alla devozione britannica per il fair play:

Molti funzionari americani coinvolti nella pacificazione arabo-israeliana, me compreso, hanno agito come procuratori di Israele, andando incontro e coordinandosi con gli israeliani a scapito del successo dei negoziati di pace… La politica “senza sorprese”, in base alla quale dovevamo prima sottoporre tutto a Israele, ha privato la nostra politica dell’indipendenza e della flessibilità necessarie per una seria pacificazione… Il nostro punto di partenza non era ciò che era necessario per raggiungere un accordo accettabile per entrambe le parti, ma ciò che poteva essere accettato da una sola parte: Israele.

Una seconda politica israeliana chiave resa possibile da Oslo è la frammentazione palestinese. Sebbene questa abbia iniziato a prendere forma nei primi anni ’90, è stata istituzionalizzata dal regime di Oslo. La Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state isolate l’una dall’altra, Gerusalemme Est è stata separata dal resto della Cisgiordania e successivamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state frammentate in cantoni che potevano essere isolati l’uno dall’altro e spesso lo sono stati. Gli spostamenti dalla Striscia di Gaza, verso Gerusalemme Est e spesso anche all’interno della Cisgiordania e (fino al 2005) della Striscia di Gaza, divennero praticamente impossibili. E naturalmente anche i palestinesi all’interno della Linea Verde, nei territori occupati e nella diaspora erano isolati gli uni dagli altri. Tutto questo avveniva prima della costruzione del Muro in Cisgiordania, che ha imposto ulteriori restrizioni, prima del blocco israelo-egiziano della Striscia di Gaza, che si sta avvicinando al terzo decennio, e prima dello scisma Fatah-Hamas, che ha una chiara dimensione territoriale. Questo è il motivo per cui i sudafricani che hanno visitato la Palestina hanno osservato che le restrizioni di Israele superano di gran lunga le misure imposte dall’ex regime di minoranza bianca nel loro Paese.

Più in generale, Israele è riuscito a rendere la fase transitoria di Oslo un accordo permanente, trasformando l’Autorità Palestinese (AP) in una filiale locale dello Stato israeliano. Gli sponsor e i sostenitori di Oslo hanno tenuto conto tanto della scadenza del periodo transitorio nel 1999 quanto della conclusione formale del mandato presidenziale di Abbas nel 2009.

I costi operativi dell’Autorità Palestinese – i fondi necessari per mantenere a galla le sue istituzioni e il personale adeguato a far in modo che le sue forze di sicurezza possano mantenere i palestinesi impotenti a resistere a Israele e ai suoi aiutanti coloni, e le sue agenzie civili possano prevenire il collasso della società – sono finanziati dai contribuenti palestinesi e dai governi occidentali, senza alcun costo per Israele. E una parte sostanziale degli acquisti dell’Autorità Palestinese è ovviamente effettuata in Israele, in gran parte a causa delle restrizioni all’importazione e restrizioni di altro tipo. Con il Protocollo sulle Relazioni Economiche Israele-OLP del 1994, o Protocollo di Parigi, e l’Accordo Interinale sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza del 1995, meglio noto come Oslo II, è stato perpetuato il mercato comune imposto da Israele fin dal 1967.

Oslo II contiene anche quella che considero la clausola più significativa di tutta questa serie di accordi. Ai sensi dell’articolo XX di questo documento, l’Autorità Palestinese ha accettato di assumersi la piena responsabilità finanziaria per le richieste di risarcimento da parte di palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nei confronti di Israele, o di qualsiasi agenzia o società israeliana, che siano accolte da un tribunale israeliano “in relazione ad atti o omissioni avvenuti prima” di Oslo II (XX.1.a.). In particolare, “nel caso in cui una corte o un tribunale [israeliano] emetta una sentenza contro Israele in relazione a tale richiesta, il Consiglio [cioè l’AP] rimborserà immediatamente a Israele l’intero importo della sentenza” (XX.1.e.). L’accordo obbliga inoltre l’Autorità Palestinese a promulgare “una legislazione che garantisca che tali richieste di risarcimento da parte di palestinesi… siano presentate solo davanti a corti e tribunali palestinesi… e non siano presentate o ascoltate da corti o tribunali israeliani” (XX.2.a). Il contributo di Israele, cioè, consiste nel permettere all’Autorità Palestinese di “partecipare” alla difesa di Israele contro le rivendicazioni palestinesi che sorgono davanti ai tribunali israeliani (XX.1.d) e nell’assistere l’Autorità Palestinese nella difesa di Israele contro le rivendicazioni palestinesi che sorgono davanti ai tribunali palestinesi (XX.2.c).

In altre parole, se un palestinese della Cisgiordania o della Striscia di Gaza cerca di portare avanti una causa contro Israele per un atto commesso tra il 1967 e il 1995, ad esempio contro l’esercito israeliano per l’uso illegale della forza nel 1976 o durante la rivolta del 1987-1993 che abbia reso tetraplegico il richiedente, l’AP ha l’obbligo di garantire che il richiedente porti la causa davanti a un tribunale palestinese anziché israeliano, e che qualsiasi sentenza finanziaria emessa da tale tribunale a favore del richiedente sia pagata dall’AP anziché da Israele. Se, nonostante ciò, il richiedente porta il caso davanti a un tribunale israeliano e un giudice israeliano gli dà ragione, a causa di azioni illegali compiute dall’esercito israeliano anni prima dell’esistenza dell’AP, l’AP è tenuta a rimborsare immediatamente a Israele l’intero ammontare del risarcimento concesso al palestinese dal tribunale israeliano. L’articolo XX racchiude perfettamente la natura assolutamente sbilanciata di Oslo, lo squilibrio di potere che esso ha codificato, l’insistenza di Israele nel raggiungere l’impunità retroattiva e la sua determinazione a ritenere le vittime responsabili dei crimini commessi contro di loro. A mio avviso, niente dimostra meglio che questo è un conflitto tra occupante e occupato e nient’altro.    

Per quanto riguarda i benefici economici, un ulteriore sviluppo spesso trascurato, ma che deve essere preso in considerazione, è l’enorme guadagno economico che Israele ha tratto dagli accordi di Oslo e dalla sua integrazione nell’economia globale. Soprattutto ha indotto la Lega Araba a rinunciare al boicottaggio di Israele e – cosa fondamentale – delle aziende che fanno affari con Israele. Con tutti i suoi difetti, questo boicottaggio è stato esponenzialmente più efficace dell’attuale movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) e, ad esempio, ha tenuto le principali aziende giapponesi e sudcoreane fuori da Israele e alcune occidentali fuori dal mondo arabo. Spesso si dimentica che negli anni ’70 e ’80 Israele era una specie di paria internazionale, ma sulla scia della conferenza diplomatica di Madrid del 1991, e successivamente di Oslo, è riuscito a normalizzare le relazioni con gran parte dell’Africa, dell’Asia meridionale e del Sud-Est asiatico. L’unica eccezione è il Sudamerica, dove Israele ha goduto di forti relazioni fin dalla sua fondazione, in particolare con i regimi terroristici sudamericani, ma che sono diminuite con l’ascesa al potere, negli ultimi decenni, di una combinazione di governi di sinistra e democratici più critici nei confronti di Israele.

All’interno della regione, Israele intrattiene relazioni formali con l’Egitto dalla fine degli anni ’70 e legami occulti con diversi Stati arabi da decenni, ma sulla scia di Oslo e soprattutto grazie ad esso, questi legami informali sono cresciuti in modo sostanziale. Inoltre, nel 1994 sono state stabilite relazioni diplomatiche formali con la Giordania e, più recentemente, con il Bahrein, il Marocco e gli Emirati Arabi Uniti (EAU). La leadership palestinese sperava di far leva sulla normalizzazione arabo-israeliana per raggiungere gli obiettivi nazionali palestinesi, ma in pratica Oslo ha permesso la normalizzazione, che è diventata uno strumento per emarginare i palestinesi e legittimare il Grande Israele.

Mentre Oslo prometteva lo sviluppo economico palestinese in cambio della paralisi politica, questo sviluppo si è materializzato solo temporaneamente rispetto al livello di base desolante in cui si trovava nel 1993, al termine di una prolungata rivolta. Una brusca inversione di tendenza è iniziata negli anni che hanno preceduto lo scoppio dell’Intifada di Al-Aqsa nel 2000, a causa della politica israeliana, e da allora il deterioramento è proseguito ad un ritmo accelerato. Il risultato di Oslo è stato quello di catapultare Israele nei ranghi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), di cui dal 2010 è membro a pieno titolo. È praticamente inconcepibile che Israele avrebbe acquisito questo status senza Oslo.

J: Come si sono organizzati, hanno resistito e hanno tenuto duro i palestinesi nell’era di Oslo?

MR: Il movimento nazionale come esisteva nei decenni precedenti a Oslo è oggi in avanzato stato di disintegrazione. L’OLP è stata ridotta a tutti gli effetti a un ufficio ausiliario all’interno dell’AP, anche se quest’ultima è stata istituita nel 1994 come agenzia amministrativa sussidiaria della prima. Personificata da Abbas, la leadership dell’Autorità Palestinese è completamente scollegata dal suo popolo, considerata illegittima da quasi tutti i palestinesi che non ne fanno parte e più legata alle agende di Israele e degli Stati Uniti che agli interessi nazionali palestinesi.

In questo contesto, i movimenti fondati e operanti al di fuori di questo quadro hanno acquisito importanza. Hamas e la Jihad Islamica in primis, ma anche un numero crescente di gruppi minori, spesso di natura locale, che non sono affiliati, o che incorporano membri di diverse organizzazioni, o che – come i resti delle Brigate dei Martiri di Fatah Al-Aqsa – cercano di far rivivere programmi che sono stati rinnegati e disconosciuti dai loro leader.

È una realtà molto diversa da quella dell’OLP come esisteva prima di Oslo, in cui movimenti diversi e rivali operavano sotto un ombrello comune con un’unità di intenti almeno nominale e una partecipazione collettiva a istituzioni e organi decisionali unificati. Guardando oltre l’OLP, Fatah e Hamas possono essere stati feroci rivali durante la rivolta del 1987-1993, ma nessuno dei due si è impegnato a sradicare l’altro né ha stretto una partnership con Israele a tal fine. Se la rivolta del 1987-1993 è stata caratterizzata da un movimento popolare organizzato per molti anni dalle varie fazioni palestinesi, e quella del 2000-2004 da una leadership che ha fornito almeno un tacito avallo e ha fatto solo sforzi formali per porvi fine, la realtà odierna è quella in cui l’Autorità Palestinese è pienamente impegnata a sradicare la resistenza a Israele e ai suoi insediamenti, e inoltre ritiene – a mio avviso correttamente – che farlo sia essenziale per la propria sopravvivenza.

Questi fattori rendono le condizioni difficili e complicate per gli attivisti non affiliati che lavorano a livello popolare, dove, in netto contrasto con le epoche precedenti, una crescente maggioranza di palestinesi è indipendente o solo vagamente affiliata a una specifica organizzazione.

Invece di essere sostenuti da un movimento e da una leadership nazionale, come vorrebbe Jamil Hilal, sono visti con sospetto dai leader rivali di Ramallah e Gaza per paura che il loro attivismo possa essere diretto o utilizzato contro di loro. L’abbraccio di Abbas alla “resistenza popolare” è un caso emblematico: lo ha fatto solo per delegittimare la resistenza armata, non ha fatto nulla per sostenere e un bel po’ per minare le forme di resistenza che diceva di sostenere, e ha semplicemente smesso di farvi riferimento una volta che ha ritenuto di aver ottenuto il controllo sulle formazioni armate.

Allo stesso modo, nella Striscia di Gaza Hamas ha limitato le manifestazioni di massa al confine con Israele per preservare le sue tacite intese con Israele e mantenere il suo dominio su quel territorio. Come ha osservato George Giacaman, Hamas non è stato in grado di risolvere la contraddizione fondamentale tra l’essere un’autorità di governo all’interno del paradigma di Oslo e un movimento di resistenza contro di esso.

Nonostante ciò, i palestinesi, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, in Israele, nel suo sistema carcerario o nella diaspora, si sono organizzati e hanno resistito in una miriade di modi. L’aspetto più importante è che, nonostante la violenza e la repressione di Stato massiccia e sistematica e il tradimento da parte dei loro stessi leader e dei governi arabi, hanno rifiutato di arrendersi, mettendo in pratica “il potere del rifiuto” sostenuto da Said. Così facendo, i palestinesi hanno conservato il sostegno schiacciante della comunità internazionale e anche in Occidente l’opinione pubblica riconosce sempre più che Israele è uno Stato strutturalmente razzista e coloniale. Tuttavia, la cruda realtà che deve essere riconosciuta e compresa è che i palestinesi non stanno mantenendo il terreno, ma lo stanno perdendo.

J: Come vedi il futuro?

MR: È estremamente difficile prevedere come sarà la situazione tra cinque, dieci o quindici anni. Dalla fine della seconda intifada, Israele è impegnato in una decisa campagna per liquidare definitivamente la questione della Palestina, cercando di ridurre i palestinesi a una realtà demografica frammentata e politicamente insignificante, piuttosto che a un popolo unito capace di promuovere i propri diritti nazionali in modo organizzato. Ciò è particolarmente evidente con le politiche dell’attuale governo israeliano.

Questo porterà a una seconda Nakba e al riconoscimento internazionale della Grande Israele, oppure a una nuova rivolta o a un conflitto armato che indebolirà Israele? Il trionfalismo dell’establishment israeliano indebolirà lo Stato dall’interno? Come evolverà la mappa politica regionale e globale nei prossimi anni?

L’unica lezione che possiamo trarre dal secolo scorso è che i palestinesi non si arrenderanno e continueranno a trovare il modo di affermare e promuovere i loro diritti collettivi e individuali, indipendentemente dall’intensità del continuo assalto israeliano. Quanto saranno efficaci nel farlo è una questione completamente diversa che al momento è difficile da determinare, perché anche la politica palestinese è in un periodo di transizione. Uno sviluppo positivo è che i palestinesi sembrano impegnati, con un certo successo, nel tentativo di superare la loro frammentazione come popolo e di perseguire programmi nazionali piuttosto che locali. Una valutazione generale suggerisce che l’Intifada dell’Unità del 2021 è stata un presagio piuttosto che un’anomalia.

Una volta che Abbas sarà uscito di scena, cosa che a mio avviso non avverrà mai abbastanza presto, e dato che Israele non vede più la necessità di una controparte palestinese che firmi uno strumento di resa, e dato che la maggior parte dei palestinesi vede l’AP come un’estensione dell’occupazione piuttosto che come un legittimo rappresentante dei loro interessi, sembra improbabile che l’AP possa sopravvivere in forma riconoscibile, nonostante gli sforzi degli Stati Uniti e dell’UE di preservarla per ragioni proprie.

Da diversi anni sostengo che, quando inizierà la successione, Israele probabilmente promuoverà un modello in cui le diverse concentrazioni di popolazione palestinese – Hebron-Bethlehem, Ramallah, Gerico, Nablus-Salfit-Jenin, Qalqilya-Tulkarm – siano amministrate da una serie di capi locali, persone come Muhammad Dahlan, su cui può fare affidamento per eseguire i suoi ordini, ma che hanno la capacità di costruire un sostegno locale. In assenza di alternative valide e con la frammentazione come priorità, Gaza rimarrebbe sotto il dominio di Hamas. Tuttavia, anche questo modello, una versione regionale delle fallimentari Leghe dei Villaggi degli anni ’80, potrebbe risultare sgradito ai pazzi che attualmente gestiscono il manicomio israeliano. Si tratta di forze che agitano per un’annessione formale e totale e che, grazie all’inesorabile spostamento a destra della società israeliana e al sostegno e all’acquiescenza internazionale e regionale (fenomeni non scollegati), non fanno che acquisire forza e potere.

Ma Israele è solo un fattore, certamente molto potente e centrale, nell’equazione, e il suo programma sarà, ovviamente, strenuamente contrastato, non solo dai palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, e non solo dai palestinesi.

Questo apre nuove possibilità e opportunità, ma presenta anche nuovi pericoli. Il fatto che siamo arrivati a questo punto è l’eredità di tre decenni di Oslo.

https://www.jadaliyya.com/Details/45313

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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