di Jesse Rosenfeld,
Rolling Stone, 22 luglio 2023.
All’interno delle rivolte israeliane e palestinesi, dove tutti, dagli ex primi ministri alle centinaia di migliaia di israeliani nelle strade, fino ai palestinesi occupati della Generazione Z, rifiutano il paese che Benjamin Netanyahu ha ricostruito a sua immagine e somiglianza.
In una stretta strada collinare affollata di condomini intonacati nel campo profughi di Jenin, il ventiduenne “Abu Nidal” siede in una vetrina aperta, decorata con poster di combattenti caduti, stringendo il suo M16. Voci e scariche radiofoniche provengono dalla radio attaccata al suo giubbotto antiproiettile verde. Affiancato da giovani uomini come lui, è il volto di una nuova ribellione armata palestinese.
La volontà di combattere e morire contro l’incessante dominio militare israeliano si sta diffondendo nei campi profughi e nei quartieri popolari della Cisgiordania occupata da quasi un anno. La violenza si è intensificata quest’estate, quando il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu è sprofondato in molteplici crisi politiche. I coloni israeliani si sono scatenati nei villaggi palestinesi, mentre Israele ha aumentato gli insediamenti e ha condotto assalti aerei e terrestri su larga scala nel campo profughi di Jenin. Sostenendo che era necessario eliminare i combattenti che hanno lanciato attacchi contro gli israeliani e distruggere i siti di produzione di esplosivi, l’esercito israeliano ha costretto migliaia di civili a fuggire. Gli attacchi dei droni israeliani hanno ucciso i combattenti palestinesi dal cielo, mentre i soldati invadevano le case dei cittadini e i bulldozer rendevano inutilizzabili le strade tortuose del campo, distruggendo le infrastrutture idriche ed elettriche. Gli elicotteri Apache israeliani hanno lanciato attacchi missilistici in Cisgiordania per la prima volta in quasi 20 anni, mentre i convogli blindati che attraversavano Jenin subivano imboscate con fucili d’assalto e venivano colpiti dagli ordigni esplosivi improvvisati di “Abu Nidal” e dei suoi uomini.
Nel corso della sua carriera, Netanyahu ha usato l’escalation militare e l’espansione degli insediamenti per avere il sostegno dell’opinione pubblica. Tuttavia, combattenti come Abu Nidal affermano che le radici della loro ribellione affondano nella rabbia di una generazione costretta a crescere all’ombra dei muri di Israele e segregata dai suoi checkpoint, senza speranza che le cose possano cambiare.
Prima di imbracciare le armi, Abu Nidal studiava per diventare ingegnere, ma non vedeva via di uscita dalle dure condizioni di un campo sovraffollato costruito come alloggio temporaneo per la generazione dei suoi bisnonni in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948. Occupata da Israele fin dalla guerra del 1967, Jenin è stata un centro di resistenza armata palestinese per più di 20 anni, e i suoi combattenti hanno compiuto attacchi contro soldati e civili israeliani in tutto il territorio di Israele e della Cisgiordania. Il suo campo profughi è stato raso al suolo dall’esercito israeliano nel 2002, al culmine della Seconda Intifada, ma da allora è stato ricostruito e soggetto a regolari incursioni.
Abu Nidal insiste sul nome di battaglia per motivi di sicurezza. Eppure, nonostante il ronzio dei droni, né Abu Nidal (in arabo “Padre della lotta”) né gli altri combattenti si preoccupano di coprirsi il volto. Da un lato, si aspetta di essere ucciso da un esercito che lo ha già imprigionato per un anno, dall’altro, lui e i suoi combattenti non vogliono rendere le cose facili al nemico.
Decine di giovani e adolescenti che imbracciano fucili d’assalto pattugliano durante la notte strade altrimenti vuote e sorvegliano gli ingressi del campo di 0,16 miglia quadrate, che ospita più di 23.600 residenti. Tengono d’occhio le barricate di travi di metallo contorte. La maggior parte della vita dei giovani palestinesi è stata segnata dai governi di Netanyahu, che sono stati tutti i più a destra della storia israeliana – mettendo fine a qualsiasi speranza che Israele smantellasse la sua occupazione. Tuttavia, il suo ultimo ritorno al potere, in mezzo a una diffusa rivolta in Cisgiordania, ha inaugurato un’era di ripetuti attacchi dei coloni contro i civili, incoraggiati da ministri del governo integralisti che credono nell’espulsione dei palestinesi.
I palestinesi di Gerusalemme Est occupata sono cresciuti tra la costante presenza delle forze di sicurezza israeliane, gli sfratti e l’espansione degli insediamenti nella città che sperano possa diventare un giorno una capitale. A poco più di 50 miglia di distanza, la maggior parte dei gazesi della Generazione Z è cresciuta intrappolata nella striscia costiera lunga 25 miglia, dove i droni governano i cieli e le corazzate bloccano il mare. L’acqua del mare viene pompata nelle case e fiumi di rifiuti umani si riversano nel Mediterraneo a causa dei bombardamenti israeliani sugli impianti di filtraggio dell’acqua e sulle fognature, mentre i leader di Hamas combattono con il lancio periodico di missili contro Israele in un assedio senza fine.
“Israele non ci ha lasciato scelta”, dice Abu Nidal. “L’occupazione ha dimostrato che più stiamo in silenzio, più si approfitteranno di noi”.
A due ore di macchina da Jenin, al di là dal muro di separazione israeliano, una lotta per i diritti molto diversa sta invadendo le strade della capitale economica e mondana di Israele. La società ebraica israeliana si è divisa nettamente sui tentativi della coalizione integralista di Netanyahu di ridurre l’indipendenza e il potere della magistratura, dando vita al più grande movimento di protesta nella storia di Israele – una battaglia per decidere se il Paese continuerà a garantire ai suoi cittadini i diritti individuali o se li assoggetterà ai valori del nazionalismo religioso.
Mentre Tel Aviv è una delle città più costose del mondo, il campo profughi di Jenin è uno dei luoghi più poveri sotto il dominio israeliano, ma i diritti di quasi 5 milioni di palestinesi occupati non vengono propugnati dalla maggior parte dei manifestanti che paralizzano le strade. Abu Nidal ha seguito l’aumento dei disordini sociali in Israele e non è neutrale rispetto a quella che vede come una lotta interna alla società israeliana. “Posso sentirmi felice perché la loro società si sta distruggendo”, dice. “Ma non aspettatevi che io faccia il tifo per l’oppressione degli israeliani da parte del loro stesso governo”.
Da sette mesi, gli abitanti di Tel Aviv di tutte le età intasano le strade e le autostrade ballando, suonando tamburi e accendendo falò, spesso a pochi isolati dal Ministero della Difesa israeliano. In una notte di protesta primaverile, Yaron Rosen, un generale di brigata dell’aeronautica israeliana di 55 anni, che è stato l’architetto della divisione informatica dell’esercito e ha collaborato con i capi della National Security americana, sta su una collina erbosa sopra l’autostrada e abbraccia suo figlio con gioia. “Stiamo salvaguardando la nostra democrazia”, dice.
Rosen è il leader di un movimento di soldati della riserva che minacciano di rifiutare in massa il servizio per protestare contro le riforme. Suddivisa in sette leggi, la revisione del sistema giudiziario darà al governo il potere di scavalcare la Corte Suprema, limiterà la capacità della Corte di esercitare il controllo giudiziario ed espanderà l’influenza dei tribunali rabbinici nelle questioni civili. A marzo è stata approvata una legge che protegge un primo ministro incriminato, come Netanyahu, dalla rimozione dall’incarico.
Rosen dice che i soldati temono che il Paese perda i valori a cui hanno giurato fedeltà e per cui hanno rischiato la vita. Guardando il mare di bandiere israeliane che intasano l’autostrada in entrambe le direzioni, Rosen è orgoglioso di un movimento di protesta che affonda le sue radici nelle istituzioni del Paese e nella difesa dei suoi valori fondanti.
“Il nostro giuramento è di proteggere Israele come Stato ebraico e democratico”, dice Rosen a proposito di ciò che motiva alla protesta Brothers in Arms, l’organizzazione di riservisti che rappresenta. “È a questo che dobbiamo la nostra fedeltà”.
Le proteste sono portate avanti dalle classi medie e alte di Israele: professori, studenti, avvocati, medici, imprenditori e lavoratori del settore tecnologico – molti dei quali sono anche soldati di riserva nell’esercito israeliano. Hanno perso un notevole potere politico dopo il ritorno in carica di Netanyahu nel 2009 e sono stati tacitati dal boom economico e dalla relativa sicurezza di Israele, ma da quando sono scesi in piazza quest’inverno, hanno ottenuto il sostegno di ex primi ministri, leader dei servizi di sicurezza, del settore tecnologico e dell’industria delle armi.
“Queste sono le persone che tengono in pugno l’economia, che tengono in pugno l’esercito”, dice Rosen a proposito delle folle di manifestanti che bloccano le strade. “Hanno in mano tutto ciò che c’è di buono nella società israeliana”.
La tensione tra le istituzioni religiose e quelle laiche ha attraversato la società israeliana fin dalla creazione del Paese, ma negli ultimi due decenni molti israeliani sono diventati molto più religiosi e nazionalisti. Netanyahu ha risposto a queste tendenze con una visione di destra estrema per il Paese, che mescola militarismo, religiosità ed espansionismo per cementare un sistema permanente di separazione dai palestinesi in tutti i territori sotto controllo israeliano: la segregazione è la soluzione di Netanyahu.
Tornato in carica con l’accusa di corruzione per abuso d’ufficio, tangenti e frode, Netanyahu ha costruito una coalizione di partiti israeliani estremisti basati sui coloni, impegnati a far prevalere il nazionalismo ebraico e la religione nella vita pubblica. Ha nominato ministro della Sicurezza Nazionale l’estremista Itamar Ben Gvir, leader del Partito del Potere Ebraico, che è stato giudicato colpevole di incitamento al terrorismo e che sostiene l’annessione della Cisgiordania a Israele e l’espulsione dei palestinesi. Secondo quanto riferito, l’esercito israeliano si rifiutò di arruolare Ben Gvir perché lo considerava un rischio per la sicurezza. Inoltre Netanyahu ha nominato Bezalel Smotrich ministro delle Finanze. Smotrich è un leader dei coloni che, da quando è entrato in carica, ha chiesto di cancellare del tutto una città palestinese ed è ostile ai diritti delle donne e delle persone LGBTQ; a questo nazionalista religioso di estrema destra è stato anche affidato il controllo dell’amministrazione civile di Israele – che gestisce gli affari civili dell’occupazione militare, come i permessi di costruzione per i palestinesi e i coloni israeliani – per portare avanti la sua agenda massimalista.
Netanyahu ha compreso il potere delle guerre vinte a basso costo per scatenare il nazionalismo israeliano. Ha raccolto i frutti politici di un elettorato che diventava sempre più estremista e sempre più ostile ai palestinesi e ha lanciato quattro guerre contro Gaza. Quando il 9 maggio 2023 Netanyahu ha scatenato un conflitto di cinque giorni con i combattenti palestinesi a Gaza, i riservisti dell’esercito si sono presentati in servizio, le proteste settimanali contro il governo sono state annullate e, dopo mesi di declino, il premier è salito nei sondaggi. Una settimana dopo, tuttavia, folle di israeliani erano di nuovo in Kaplan Street a Tel Aviv. La generazione di palestinesi e israeliani cresciuta sotto Netanyahu sta diventando maggiorenne tra le rivolte nei territori occupati e le proteste di massa che dividono Israele. Il malcontento diffuso per la realtà forgiata da un leader che ha plasmato le loro vite si sta riversando nelle strade, mentre il divario tra palestinesi e israeliani non è mai stato così ampio.
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Qualche ora prima del Seder di Pasqua, l’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak si affaccia sulla spiaggia dal salotto del suo lussuoso appartamento a nord di Tel Aviv. Si sofferma a considerare il destino dei palestinesi al di là dei muri, e vuole toglier di mezzo la questione.
“Sappiamo che il grande elefante nella stanza è il rapporto con i palestinesi”, dice il decimo primo ministro israeliano. “Mettiamolo da parte”.
Barak ha sconfitto il primo governo di Netanyahu nel 1999 e 10 anni dopo è entrato nel suo secondo governo come ministro della Difesa. La sua premiership è stata definita dalla fine, nel 2000, dell’occupazione durata 18 anni del Libano meridionale da parte di Israele e dal fallimento nel metter fine all’occupazione, molto più lunga, della terra palestinese nei colloqui di pace sullo status finale dello stesso anno. Il suo governo è crollato con lo scoppio della Seconda Intifada, la rivolta palestinese contro il governo militare israeliano che ha imperversato dal 2000 al 2005.
In questi giorni, l’81enne politico in pensione, tuttora il soldato più decorato d’Israele, partecipa al movimento di protesta contro le riforme legali di Netanyahu e invita i soldati a rifiutare il servizio se passano le leggi che subordinano la Corte Suprema al governo. Sia Barak che Rosen sono preoccupati che la revisione legale renda gli israeliani più esposti a procedimenti giudiziari internazionali per crimini di guerra, ma Barak non crede che questo debba essere l’obiettivo principale. “Si tratta di proteggere noi stessi, me compreso, dall’essere arrestati”, dice. È facile vedere Barak come parte della vecchia generazione, quando la classe politica era composta da ex militari. “C’è un motivo per cui gli ufficiali, anche Bibi e i ministri, sono preoccupati per ciò che accadrà all’Aia”.
In un’intervista televisiva del 1998, Barak disse: “Se fossi un palestinese dell’età giusta, a un certo punto mi unirei a uno dei gruppi terroristici”. Oggi crede nell’uso del controllo militare per ignorare la questione e concentrarsi su quella che ritiene una minaccia esistenziale per la società israeliana. A suo avviso, il futuro di Israele dipende dal fatto che “si trasformi o meno in una dittatura”.
Le proteste hanno creato un’ampia coalizione che va dalle femministe agghindate come le Ancelle di Margert Atwood [nel romanzo della Atwood, le Ancelle sono vestite di rosso, NdT] agli ex premier conservatori. Ormai fuori dalla politica e dalla prigione, l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert porta ancora con sé la disinvoltura e lo smalto di un uomo che un tempo veniva chiamato Teflon per la sua capacità di sopravvivere agli scandali, salvo poi ad esserne travolto. Mi incontra nel suo moderno ufficio nel centro di Tel Aviv e ricorda con affetto i rapporti con l’amministrazione Bush e con l’ex Segretaria di Stato americana “Condi” Rice. Desideroso di rivolgersi a un pubblico statunitense, si sente in dovere di mettere in guardia l’America su come l’essere un occupante a tempo indeterminato abbia cambiato Israele.
Appoggiato alla sedia dietro la sua scrivania, Olmert si dondola dolcemente avanti e indietro sotto una grande foto incorniciata che lo ritrae con il Presidente George W. Bush alla Casa Bianca. “Israele non vuole la pace”, dice l’ultimo premier israeliano che ha cercato di negoziare un accordo finale con i leader palestinesi (e il primo a lanciare una guerra a Gaza), “non la vuole più da quando mi sono ritirato e Bibi ha preso il comando”. Egli vede le divisioni odierne come la conseguenza di 14 anni di disinteresse israeliano nel trattare con i palestinesi.
Olmert, il primo premier israeliano ad essere incarcerato per corruzione, è sgomento ma non sorpreso dalla crisi attuale. “Siamo governati oggi da un gruppo di militanti, nazionalisti, sciovinisti e radicali”, afferma Olmert. “Persone avventate, irresponsabili e totalmente inesperte”.
Non risparmia parole sul suo successore: “Bibi Netanyahu è un narcisista. Bibi Netanyahu è una persona superficiale. Bibi Netanyahu non crede in nulla”.
Olmert avverte che il suo Paese ha perso di vista ogni limite ed è diventato indifferente alle preoccupazioni dei suoi alleati. “Siamo arroganti”, dice con enfasi. “Pensiamo che nessuno possa colpirci, che possiamo sconfiggere tutti”.
Ricordando il rapporto gelido del presidente Biden con Netanyahu, Olmert pensa che ci vorrebbe un’azione molto più forte da parte dell’America, come la riconsiderazione della sua relazione speciale con Israele, affinché gli israeliani e i loro leader cambino rotta. “Se un cambiamento del genere fosse stato esplicitato, credo che avrebbe avuto un impatto enorme”.
La giudice della Corte Suprema in pensione Ayala Procaccia vede le riforme come un pacchetto tossico che porrà fine all’indipendenza giudiziaria e distruggerà il fragile equilibrio di potere che esiste in Israele fin dalla fondazione del Paese. L’ottantaduenne, che ha retto la Corte Suprema israeliana dal 2001 al 2011, è diventata una sostenitrice dell’imparzialità del tribunale ed è salita sul palco delle manifestazioni antigovernative per difenderla.
Procaccia riconosce l’intrinseca disuguaglianza di un tribunale con giurisdizione su Israele, Cisgiordania e Gaza, che sostiene diritti e sistemi giuridici diversi in base alla nazionalità e alla cittadinanza, pur dando costantemente il via libera alle politiche di occupazione e di insediamento. “C’è una tensione continua tra il principio nazionale, che comprende anche una componente religiosa molto importante, e il principio democratico”, afferma Procaccia. “E abbiamo affrontato una minaccia esistenziale alla sicurezza fin dalla creazione dello Stato, una minaccia che non è cessata ma è solo cambiata”.
Durante il suo mandato come giurista israeliana di spicco, Procaccia si è pronunciata a favore degli sforzi dello Stato di demolire le comunità palestinesi esistenti in Cisgiordania su terreni che erano stati requisiti da Israele. Ha anche accettato le argomentazioni del governo per demolire le case familiari dei combattenti palestinesi riconosciuti colpevoli di aver ucciso degli israeliani – un atto di punizione collettiva che secondo i gruppi per i diritti umani costituisce un crimine di guerra.
“La Corte ha comunque seguito le indicazioni delle autorità di sicurezza e ha affermato che la demolizione delle case è una politica preventiva, un deterrente e non un atto di punizione collettiva”, afferma la giudice in pensione a proposito della posizione della Corte su una politica che non è mai stata applicata alle famiglie di ebrei israeliani riconosciuti colpevoli di aver ucciso dei palestinesi.
Tuttavia, questo bilancio della Corte Suprema non impressiona un alleato nazionalista religioso di Netanyahu come Simcha Rothman, uno dei principali artefici delle riforme legali e presidente del Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset. Nel descrivere la Corte, in gran parte laica, come ostile ai diritti degli ebrei religiosi in un Paese sempre più religioso, egli ricorda che la Corte Suprema ha bocciato le leggi che prevedono esenzioni militari per gli ebrei ultra-ortodossi.
“La Corte ha interferito in molti altri aspetti della vita in Israele che non hanno nulla a che fare con la Giudea e la Samaria”, ha commentato, usando i termini religiosi per indicare la Cisgiordania. Il 42enne stempiato era un avvocato prima di essere mandato a Gerusalemme come membro eletto della Knesset per il Partito Sionista Religioso di Smotrich. Vive con la sua famiglia nel piccolo avamposto di Pnei Kedem, nel sud della Cisgiordania, e come molte persone che vivono negli insediamenti – considerati illegali dal diritto internazionale – lavora in Israele.
È sconcertato dal fatto che la Corte si sia pronunciata sulla Legge dello Stato Nazione Ebraico, una Legge Fondamentale del 2018 approvata con una sottile maggioranza parlamentare durante il precedente governo Netanyahu. La legge, condannata dai gruppi internazionali per i diritti umani in quanto sancisce l’ineguaglianza, ha un peso costituzionale e nega di fatto ai palestinesi i diritti nazionali, definendo i diritti nazionali in Israele come appartenenti esclusivamente al popolo ebraico. La Corte Suprema ha confermato la legge, ma questo non soddisfa Rothman.
“Il fatto che la Corte abbia pensato di poter discutere o dibattere o dedicare un’udienza alla validità di una Legge Fondamentale che dice che Israele è la patria del popolo ebraico dimostra quanto sia folle l’attivismo giudiziario in Israele”, afferma Rothman.
Per Rothman, terrorismo è un termine che può essere applicato ai palestinesi per una vasta gamma di atti, ma non lo vuole usare per descrivere gli attacchi ebraici ai palestinesi. È convinto che il combattente palestinese che ha ucciso due coloni nella città cisgiordana di Huwara il 26 febbraio sia un terrorista. Tuttavia, si rifiuta di usare lo stesso termine per descrivere le centinaia di coloni che, protetti dall’esercito israeliano, si sono scatenati nella città palestinese e nei villaggi circostanti quella stessa notte, incendiando case, ferendo più di cento persone e uccidendone una.
Rothman è di umore combattivo e durante tutta l’intervista il suo tono è tagliente. La possibilità che il governo possa scavalcare la Corte Suprema è essenziale, sostiene, per poter portare a termine il mandato conferito dagli elettori. Il partito di Rothman sostiene la piena annessione israeliana della Cisgiordania, con l’acquisizione delle aree amministrate dall’Autorità Palestinese, e crede che nemmeno l’attuale Corte Suprema la bloccherebbe. È riluttante a discutere quali diritti otterrebbero i palestinesi sotto il dominio sovrano israeliano ed è irremovibile nel negare l’esistenza di una nazione palestinese. “Si tratta di stabilire se sono una nazione che può agire come tale”, dice Rothman. “E la risposta, ovviamente, è no”.
Elias e Mohammad al-Ashqar sono in stato di shock. Seduti nel soggiorno del loro modesto appartamento al pianterreno nel campo profughi di Askar, in una pungente serata invernale, sono circondati da uomini della comunità. Il padre dei fratelli al-Ashqar, Abdel Hadi, 61 anni, era stato colpito e ucciso durante un raid dell’esercito israeliano nell’adiacente città di Nablus, nel nord della Cisgiordania.
L’esercito israeliano ha fatto irruzione nell’affollata città alle 10 del mattino, aprendo il fuoco mentre i residenti si disperdevano, abbandonando lo shopping di metà mattina per correre a salvarsi lungo le strade tortuose. Elias, un infermiere di 25 anni, non avrebbe dovuto lavorare all’ospedale. Si era però offerto volontario per un turno extra quando sono iniziate ad arrivare le vittime di un raid che avrebbe ucciso 11 persone e ne avrebbe ferite oltre 100. Mentre curava i pazienti nel caos del pronto soccorso sovraccarico, si prese un minuto per controllare i morti che erano arrivati ed ebbe una terribile rivelazione.
“Stavo solo guardando i letti per vedere chi erano i martiri”, dice il minore dei fratelli al-Ashqar. Fa una pausa per riprendersi. “Non immaginavo che ci sarebbe stato mio padre”.
È una tragedia fin troppo familiare ai residenti dei territori occupati. L’anno scorso è stato il più letale per i palestinesi della Cisgiordania dai tempi della Seconda Intifada: le Nazioni Unite hanno calcolato che 146 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est; 29 israeliani sono stati uccisi in attacchi palestinesi. Dopo il ritorno di Netanyahu, il 2023 è già quasi altrettanto letale del 2022.
Abdel Hadi lavorava come istruttore di guida. Provvedere alla sua famiglia nelle condizioni ristrette del campo era una lotta quotidiana in un luogo in cui le opportunità sono poche mentre la potenziale devastazione è rimandata alla prossima incursione dell’esercito. Secondo la famiglia e i testimoni, aveva appena finito di pregare durante la pausa mattutina quando è stato colpito in strada dall’esercito che usciva dalla città.
Il maggiore dei fratelli Al-Ashqar, Mohammad, 34 anni, siede dall’altra parte della stanza e si sente devastato. Descrive il genitore come un padre di famiglia gentile e amorevole che lavorava duramente per dare a lui e al fratello più di quanto avesse. Ufficiale delle forze di sicurezza palestinesi, Mohammad era nella sala radio quando ha saputo dell’incursione israeliana.
Le forze di sicurezza dell’Autorità palestinese (AP) sorvegliano i palestinesi della Cisgiordania, ma non possono affrontare l’esercito israeliano o arrestare i coloni che attaccano le loro comunità. Come aveva fatto durante le precedenti incursioni, Mohammad ha eseguito gli ordini, ma ora non può più giustificare i comandi che riceve. Vuole che le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese inizino a difendere i palestinesi durante gli attacchi israeliani. “Fino a che punto saremo in grado di rimanere neutrali e calmi?”, si chiede.
Il sanguinoso raid-incendio del 22 febbraio era diretto contro la Tana dei Leoni (Lions’ Den), un nuovo gruppo di giovani combattenti palestinesi emerso nell’estate del 2022. Provenienti dai quartieri popolari intorno alla città vecchia di Nablus, i combattenti hanno condotto attacchi armati contro soldati e coloni israeliani in tutto il nord della Cisgiordania, coinvolgendo l’esercito in scontri a fuoco durante le incursioni. I guerriglieri della Generazione Z, che dicono di essere motivati a combattere per la liberazione nazionale piuttosto che per la religione, sono nati come un’affiliazione libera di uomini provenienti da tutto lo spettro politico palestinese, che si conoscevano per strada e condividevano la convinzione che la libertà può essere conquistata solo con la forza. Nonostante alcuni dei suoi leader e membri siano figli di funzionari delle forze di sicurezza palestinesi, hanno affrontato le forze dell’Autorità Palestinese con la stessa intensità che usano durante le incursioni militari israeliane. I loro obiettivi sono chiari: combattere il sistema di occupazione, indipendentemente da chi lo difende.
Negli appelli allo sciopero generale sui loro canali Telegram, gruppi come Lions’ Den hanno regolarmente galvanizzato i palestinesi con un messaggio di testo in cui chiedevano di chiudere ogni attività in Cisgiordania e Gerusalemme Est in segno di protesta. Allo stesso tempo, l’Autorità Palestinese ha messo in atto un giro di vite interno sulle sue forze di sicurezza a Nablus, arrestando persone che riteneva sostenessero o si fossero unite alla Tana dei Leoni.
“I gruppi armati di nuova creazione a Nablus, Jenin e altrove sono il futuro [su cui] la gente conta ora”, afferma Khalil Shikaki. Il settantenne professore di scienze politiche è il direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research e vive a Ramallah, una città montana di 150.000 abitanti a nove miglia da Gerusalemme che funge da capitale de facto dell’Autorità Palestinese. Recenti sondaggi da lui condotti mostrano che la maggioranza dei palestinesi nei Territori occupati sostiene una nuova rivolta e vuole veder crollare l’Autorità Palestinese, gestita dalla vecchia leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), perché ritiene che serva gli interessi israeliani, piuttosto che quelli palestinesi.
Ehud Barak sembra dare credito a queste preoccupazioni sull’AP, descrivendo come Israele abbia offerto di rimuovere con la forza Hamas da Gaza e di consegnare il potere al presidente palestinese Mahmoud Abbas quando Barak era ministro della Difesa. “Vi dirò fino a che punto eravamo pronti a spingerci con Abu Mazen per fargli prendere il controllo della Striscia di Gaza”, afferma l’ex leader israeliano, riferendosi al presidente palestinese con il suo nome di battaglia. “Noi [avremmo] preso la parte del sangue e lui si è rifiutato, per qualche motivo”.
Clandestino in Cisgiordania e isolato nel suo dominio su Gaza negli ultimi 16 anni, il mantello della resistenza di Hamas è ora messo in discussione anche dai cisgiordani indipendenti della Gen Z. Secondo Basim Naim, portavoce di Hamas ed ex ministro della Sanità di Gaza, la leadership palestinese rivale non è interessata a espandere la lotta da Gaza. Egli ha vissuto l’amaro costo delle devastanti battaglie con Israele e, parlando al telefono da Gaza City, afferma che il suo partito è invece concentrato sul sostegno ai combattenti della Cisgiordania e sul coordinamento regionale di una strategia militare con l’Iran, la Siria e Hezbollah in Libano.
“In questo momento, non stiamo cercando un’escalation a meno che non veniamo attaccati”, dice Naim, 60 anni. “Allo stesso tempo, se vengono superate le linee rosse in Cisgiordania, come ad Al Aqsa – o deportazioni di massa o crimini contro il nostro popolo – noi siamo parte del popolo palestinese e non possiamo restare inerti”.
Husam Zomlot, ambasciatore dell’OLP nel Regno Unito, sa che l’opinione pubblica palestinese è indignata e disillusa. Egli accusa Israele di usare i suoi accordi con i palestinesi per colonizzare ulteriormente la terra palestinese. L’ex consigliere di Abbas – e ambasciatore palestinese a Washington fino a quando l’amministrazione Trump ha chiuso la missione dell’OLP – sostiene che piuttosto che usare la sua leva su Israele, l’America fa pressione sui leader palestinesi per sedare la resistenza causata dalle azioni israeliane. “Il nocciolo della questione è che l’Occidente considera ancora Israele come l’eccezione di ogni legge”, dice Zomlot, 50 anni.
Quando gli parlo dei commenti di Barak sugli elefanti sugli scaffali, si mostra particolarmente contrariato, descrivendo le proteste come indicative di una società in cui gli israeliani considerano i palestinesi come sacrificabili. “Entrambi hanno una cosa in comune, che è l’elefante”, dice Zomlot a proposito di Netanyahu e Barak. “Prima o poi il ripiano si rompe e ti cade in testa”, avverte.
Dalla parte israeliana del muro, ma in una nazione a parte, i cittadini palestinesi di Israele hanno molto da perdere se un governo di estrema destra che ha costruito una carriera politica sul definirli un nemico interno riesce a mettere in disparte la Corte Suprema. La comunità si è sempre opposta aspramente a Netanyahu, ma durante la sua guerra di Gaza del 2021, sono scoppiati sanguinosi scontri di strada con i nazionalisti ebrei della linea dura e con la polizia israeliana, quando i cittadini palestinesi di Israele si sono sollevati contro la guerra e il modo in cui essi venivano trattati nelle città israeliane miste ebraico-palestinesi. Tuttavia, dopo un decennio e mezzo in cui sono stati lasciati da soli a combattere contro i governi di Netanyahu che legiferavano sui loro diritti, hanno scelto di non unirsi alle attuali proteste di massa.
Marciando attraverso la città palestinese-israeliana di Sakhnin, immersa nelle colline della Galilea, Aida Touma-Suleiman, deputata alla Knesset per il partito di unità arabo-ebraico di sinistra Hadash, il 30 marzo ha commemorato la Giornata della Terra tra un mare di bandiere palestinesi. Si tratta di una giornata di protesta che ricorda la confisca da parte del governo israeliano, nel 1976, delle terre palestinesi nel nord di Israele per gli insediamenti ebraici e le sei persone uccise dalle forze israeliane durante lo sciopero generale per resistere all’esproprio.
“È successo non perché eravamo cittadini israeliani, ma perché siamo palestinesi”, dice la 58enne palestinese-israeliana di San Giovanni d’Acri, città mista del nord, a proposito del significato che la giornata continua ad avere per i palestinesi-israeliani.
Touma-Suleiman non è sorpresa dalla mancata partecipazione della sua comunità alle proteste, che vede concentrate sui diritti che gli israeliani ebrei temono di perdere, senza considerare i diritti a lungo negati ai palestinesi. “I simboli e il contenuto delle proteste non sono inclusivi”, dice. “Al contrario, [stanno] allontanando i palestinesi”.
La riluttanza degli israeliani ad affrontare le condizioni in cui i palestinesi sono costretti a vivere non sorprende Gonen Ben Itzhak, un importante attivista anti-Netanyahu che ha condotto una campagna contro la corruzione del governo e ora è in prima linea nella lotta contro le riforme legali. “La verità è che non li vediamo ancora come uguali”, dice a proposito dei palestinesi, dei residenti occupati e dei cittadini di Israele. “Noi come Paese, noi come cittadini, non li vediamo come uguali”.
Ben Itzhak lo sa bene. Oggi avvocato, il tarchiato 52enne ha trascorso più di un decennio come ufficiale superiore dello Shin Bet, l’agenzia di sicurezza interna israeliana, formando collaboratori di alto valore e prendendo di mira i leader palestinesi. Entrato a far parte dell’organizzazione di intelligence israeliana nel 1996, dopo l’assassinio del primo ministro israeliano Yitzak Rabin da parte di un nazionalista religioso di destra, Ben Itzhak descrive un servizio di sicurezza in cui la disuguaglianza è una procedura operativa. Gli ebrei israeliani, dice, sono monitorati per impedire che facciano attacchi ai palestinesi, mentre i palestinesi sono assassinati per prevenire attacchi agli israeliani.
Riconoscendo l’abuso e la tortura di routine dei detenuti palestinesi da parte dello Shin Bet, non è d’accordo con Rosen e pensa che le persone che commettono crimini di guerra dovrebbero essere perseguite indipendentemente da ciò che accade in tribunale. Ben Itzhak è stato personalmente coinvolto negli assassinii israeliani, ma sostiene che la campagna per l’uccisione dei leader palestinesi durante la rivolta del 2000 è stata fatta per dar modo di vantarsene agli ufficiali che li hanno ordinati, piuttosto che per la sicurezza. Egli indica l’assassinio nel 2001 di Abu Ali Mustafa, il leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, di orientamento marxista, la cui uccisione è spesso attribuita al suo istigare il conflitto armato. “Non era un personaggio importante”, dice Ben Itzhak. “Non era un terrorista”.
Ben Itzhak si considera parte della macchina dell’occupazione israeliana. Seduto in un caffè di Florentin, il quartiere liberale e gentrificato di Tel Aviv, noto per i suoi cani, i bar e l’odore pungente dell’erba (marijuana), vede le attuali divisioni di Israele come modellate dalla capacità degli israeliani di ignorare la loro incessante dominazione sui palestinesi.
“Finché possiamo vivere qui a Tel Aviv, bere il nostro caffè, prendere un po’ di erba e divertirci, tutto va bene”, dice Ben Itzhak. “Finché non lo sentiamo sulla nostra pelle, non ci interessa quello che succede”.
L’ex capo dell’ufficio Shin Bet di Ramallah dice che l’unica cosa che ha in comune con i coloni che un tempo proteggeva è l’ebraico. Ritiene che il governo di Netanyahu speri in una nuova Intifada e dice che Israele sarà in grado di contenere facilmente una rivolta più ampia, usandola a sua volta come pretesto per un ulteriore esproprio dei palestinesi della Cisgiordania e per la privazione dei diritti dei cittadini palestinesi. “Per questo governo, una terza Intifada è la cosa migliore che possa succedere”.
Molti israeliani laici e liberali si sono allontanati dalla politica in quelle città che si sentono più vicine a New York che alla Cisgiordania e a Gaza. Ma per gli attivisti israeliani ebrei della Generazione Z che lottano per i diritti dei palestinesi, la segregazione stessa li spinge scegliere chi incontrare e come resistere.
A 17 anni, l’attivista trans Ayelet Covo è cresciuto completamente separato dai palestinesi al di là dei muri. La maggior parte della sua vita è stata plasmata sotto i governi di Netanyahu, ma il 1° aprile Covo si è trovato nel blocco anti-occupazione della protesta settimanale per la democrazia di Tel Aviv e ha dato fuoco ai documenti per l’arruolamento nell’esercito insieme a una dozzina di altri adolescenti che stavano per essere arruolati.
“Questo è un tentativo di far capire alla gente che non c’era democrazia neanche prima della riforma giudiziaria”, dice Covo, seduto in un caffè di Tel Aviv pochi giorni dopo aver dato pubblicamente fuoco ai documenti di leva.
Con i capelli castani corti e un giubbotto di jeans con una toppa adesiva di bandiere rosse e nere di Antifa, Covo, che usa i pronomi loro/noi, dice che non è stata la discriminazione subita come persona trans a fargli aprire gli occhi sull’oppressione palestinese. “Per me non è stato un fattore decisivo”, dice Covo. “È stato solo il fatto che non credo che quello che sta succedendo sia giusto”.
Contando qualche centinaio di persone in un mare di decine di migliaia, il blocco anti-occupazione è il cuore della piccola sinistra israeliana che cerca di riunirsi e coinvolgere i manifestanti contro la revisione della giustizia sul tema della parità di diritti per tutti. All’ombra del Ministero della Difesa israeliano, chiedono la fine dell’occupazione e denunciano in ebraico che Israele è uno Stato di apartheid.
Covo fa parte di una tradizione di rifiuto militare emersa durante l’invasione del Libano da parte di Israele nel 1982 e la Prima Intifada nel 1987. All’apice della Seconda Intifada, una manciata di piloti si rifiutò di volare nei territori occupati, mentre alcuni attivisti adolescenti finirono in prigione per aver rifiutato di arruolarsi. Da allora, ogni generazione ha avuto un piccolo movimento di rifiuto militare che, a differenza delle proteste dei riservisti che difendono la Corte Suprema, ha riguardato i diritti degli occupati e il rifiuto di far parte di un regime militare che li viola.
“Voglio libertà e uguaglianza dal fiume al mare”, dice Covo, appropriandosi di un tradizionale appello nazionale palestinese per sostenere una democrazia binazionale.
Le generazioni precedenti di refusnik hanno incontrato gli attivisti palestinesi nei territori occupati, si sono uniti alle loro proteste durante la Seconda Intifada e hanno lavorato con le comunità rurali per costruire campagne contro l’espansione degli insediamenti e dei muri. Tuttavia, essendo nato dopo la costruzione dei muri e l’inasprimento delle restrizioni, Covo non è mai stato a Gaza, Ramallah, Nablus o Jenin. Come i suoi coetanei, ha visto la realtà dei palestinesi sotto il dominio militare solo sugli schermi e ne ha sentito parlare da amici palestinesi a Gerusalemme Est e in Israele.
La loro gioventù è stata plasmata dai governi Netanyahu che hanno trasformato i muri del defunto Primo Ministro Ariel Sharon e di Olmert, che segregavano i palestinesi gli uni dagli altri, in pilastri della soluzione di Israele. Visto dai suoi oppositori nell’establishment israeliano come la forza che porrà fine alla democrazia, Netanyahu ha governato abbastanza a lungo da plasmare Israele a sua immagine e trasformare la realtà diseguale che ha ereditato in una soluzione permanente.
Covo è cresciuto in un mondo molto più interconnesso, eppure si trova ad avere la segregazione in casa.
Matan Cohen ha contribuito al reportage in Israele.
Ahmad al-Bazz ha contribuito al reportage a Jenin e Nablus.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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