di Zaha Hassan e Daniel Levy,
Middle East Eye, 30 marzo 2023.
Gli strumenti autoritari forgiati per controllare i palestinesi vengono ora rivolti contro elementi della popolazione ebraica israeliana.
A causa dei contraccolpi sulla sicurezza e sull’economia israeliana, il primo ministro Benjamin Netanyahu si è convinto questa settimana della necessità di sospendere temporaneamente la sua legge di riforma giudiziaria, ma era necessario un ultimo accordo per tenere insieme la sua coalizione di governo.
Così Netanyahu ha promesso a Itamar Ben Gvir, un razzista seriale che guida il partito Potere Ebraico e ricopre il ruolo di ministro della Sicurezza Nazionale, che lo stato avrebbe proceduto con la creazione di una guardia nazionale sotto l’autorità di Ben Gvir, un corpo soprannominato da alcuni commentatori la sua “milizia privata”.
Questo accordo dimostra l’intima connessione tra le due crisi che attanagliano Israele: la polarizzazione interna sulle riforme giudiziarie e l’escalation dell’estremismo contro i palestinesi, alimentata dal governo.
Questo legame è evidente, ma raramente riconosciuto nei circoli politici israeliani. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha commentato con acredine la revisione giudiziaria, mentre ha mantenuto il suo studiato silenzio sulle violazioni criminali dei diritti dei palestinesi da parte di Israele – dimostrando che anche Washington non riesce a fare un collegamento tra le due situazioni.
La convocazione da parte dell’amministrazione statunitense di funzionari israeliani e palestinesi, insieme ai loro omologhi giordani ed egiziani a Sharm El Sheikh questo mese e ad Aqaba a febbraio, dimostra che Washington è intenzionata a continuare ad adottare un modello tristemente inadeguato per gestire le relazioni con Israele e le relative conseguenze per i palestinesi.
Anche se non capita tutti i giorni che i giornalisti occidentali usino parole come “pogrom” per descrivere gli attacchi contro i palestinesi, come abbiamo visto dopo i recenti eventi di Huwwara, è ogni giorno che i palestinesi subiscono violenze e hanno i loro diritti umani fondamentali calpestati dai soldati israeliani, dalla polizia, dalle milizie dei coloni o da una combinazione di questi attori.
Quando Netanyahu ha paragonato le azioni dei coloni a Huwwara a quelle dei manifestanti pro-democrazia in tutto il Paese, molti si sono indignati. Ma il forte legame tra le politiche israeliane di violenza nei confronti dei palestinesi e la contestazione sui temi della democrazia israeliana è incontrovertibile, anche se scomodo.
La società israeliana sta vivendo quello che l’autore e politico anticoloniale francese della Martinica Aimé Césaire ha definito “effetto boomerang della colonizzazione”. Il lavoro di Césaire e di altri ha dimostrato che le politiche utilizzate dagli Stati coloniali sui colonizzati possono poi essere riportate nella metropoli imperiale e utilizzate contro i propri cittadini.
Riduzione delle libertà
Nell’ambito del colonialismo d’insediamento israeliano, la distinzione geografica tra colonia e metropoli è a malapena percepibile, ma ora stiamo assistendo al fenomeno per cui alcuni degli strumenti autoritari forgiati dallo stato israeliano per controllare i palestinesi vengono rivolti contro elementi della popolazione ebraica israeliana. Alcune parti di questa popolazione temono ora la limitazione delle proprie libertà.
La spinta della destra israeliana per le riforme giudiziarie è stata fortemente motivata dall’obiettivo di rafforzare l’occupazione militare, di privare definitivamente dei diritti i palestinesi e di consolidare la supremazia ebraica. Sebbene i tribunali non abbiano effettivamente impedito il graduale raggiungimento di questi obiettivi –la massiccia presenza di insediamenti è un esempio del colossale fallimento del sistema giudiziario israeliano nel sostenere i diritti dei palestinesi– i tribunali sono comunque serviti a ostacolare e ritardare queste manovre, e probabilmente saranno un ostacolo alla realizzazione della piena annessione e dell’espulsione di massa.
Questo spiega perché gli ultimi oppositori al compromesso di Netanyahu, sia in parlamento che nelle strade, sono stati i coloni religiosi di destra.
Il più grande affronto a un sistema democratico tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo non è il ruolo del parlamento israeliano nella selezione dei giudici o nell’annullamento delle loro sentenze, ma piuttosto questa occupazione permanente che nega i diritti democratici ai palestinesi al di là delle linee del 1967, insieme alla discriminazione strutturale che conferisce status di seconda classe ai palestinesi all’interno di quelle linee.
Questa situazione ha spinto le principali organizzazioni mondiali per i diritti umani, Amnesty International e Human Rights Watch, a designare giustamente questa realtà come rispondente alla definizione legale di apartheid. Conclusioni simili sono state tratte in precedenza da gruppi israeliani per i diritti umani, attivisti della società civile palestinese, accademici e politici.
L’amministrazione Biden ha espresso preoccupazione sia per l’escalation di violenza in Israele/Palestina, sia per le riforme giudiziarie proposte. La ricetta degli Stati Uniti sembra essere la stessa per affrontare entrambi i problemi: il ritorno allo status quo ante. In altre parole, un ritorno alla sicurezza e alla democrazia per gli ebrei israeliani, mentre nessuna delle due cose è disponibile per i palestinesi.
Esiste un fenomeno israeliano ben collaudato che consiste nel gridare “crisi” ogni volta che un funzionario statunitense non è d’accordo con una politica israeliana. Questo fenomeno è ora in fase di espansione, anche per le spinte della leadership israeliana, dopo che Biden ha detto che al momento attuale Netanyahu non è invitato alla Casa Bianca e che Israele non può “continuare su questa strada” per quanto riguarda le riforme giudiziarie (a quanto pare, più di mezzo secolo di occupazione può continuare).
Ma le parole non si sono tradotte in azioni; non c’è nessuna crisi. Anzi, un’analisi più lucida racconta una storia diversa: l’enorme influenza di Washington nei confronti di Israele rimane intatta e la macchina per dare carote di benevolenza è ancora molto attiva.
Mettere a tacere le voci palestinesi
Di recente, a febbraio, gli Stati Uniti hanno nuovamente garantito che avrebbero posto il veto a una risoluzione che non era di gradimento a Israele al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’amministrazione Biden continua a spingere e a blandire paesi terzi a normalizzare e a migliorare le relazioni con Israele, e sta promuovendo l’ingresso di Israele nel programma di esenzione dal visto per entrare negli Stati Uniti. Nei discorsi dei portavoce, si ricorre a ogni sorta di ginnastica linguistica per evitare di pronunciare o confermare l’esistenza di un’occupazione.
Per essere chiari, sul fronte interno Netanyahu ha – per ora – fatto marcia indietro, non in risposta alle pressioni degli Stati Uniti, ma per l’esistenza di un’opposizione interna senza precedenti. Ironia della sorte, questa opposizione è incentrata sulla minaccia di perdite economiche e di molte obiezioni di coscienza al servizio militare. Tali strumenti, a lungo sostenuti da chi si ribella all’occupazione e all’apartheid, sono stati messi alla gogna come illegittimi, o peggio, da tutto lo spettro politico sionista.
Se i negoziati per un compromesso sulla riforma giudiziaria falliscono e Netanyahu riprende la legge ora accantonata, non aspettatevi che gli Stati Uniti facciano da salvatori.
Per tanto tempo, l’establishment politico israeliano centrista e liberale ha investito grandi sforzi per mettere a tacere le voci palestinesi, criminalizzando il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e sostenendo false accuse di antisemitismo di fronte a critiche legittime nei confronti di Israele. Il successo ottenuto è ora parte del loro problema: l’impunità internazionale costruita da Israele in decenni di violazione dei diritti dei palestinesi va ora a vantaggio di chi sostiene la linea dura della revisione giudiziaria.
L’approccio degli Stati Uniti sul fronte palestinese è stato definito più di recente nel comunicato congiunto dell’incontro di questo mese a Sharm El Sheikh, in Egitto. Il comunicato ripropone in gran parte la dichiarazione rilasciata a febbraio dopo un incontro analogo ad Aqaba, in Giordania, con lo stesso gruppo di partecipanti – ora apparentemente indicato come Quintetto.
Pieno di aspirazioni altisonanti verso la fiducia e la costruzione della pace, il comunicato di Sharm El Sheikh è nato morto come il suo equivalente di Aqaba.
L’inadeguatezza più devastante di questo approccio è che l’enfasi degli Stati Uniti sulla de-escalation si traduce in pratica nella promessa di quiete solo per gli ebrei israeliani, mentre per i palestinesi continua l’occupazione, l’insicurezza e l’umiliazione quotidiana.
L’insistenza degli Stati Uniti affinché entrambe le parti evitino “misure unilaterali” potrebbe sembrare ragionevole, ma questo “both sides-ism” [appellarsi ad ambe le parti] mette sullo stesso piano le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele (costruzione di insediamenti, demolizioni di case, confisca di terre, uso sproporzionato della forza e punizioni collettive per la popolazione civile a Gaza e altrove) e gli sforzi palestinesi per far valere quello stesso diritto in sedi internazionali come le Nazioni Unite e la Corte Penale Internazionale.
Alta posta in gioco geopolitica
Spingendo per intensificare la cooperazione militare tra Israele e l’Autorità Palestinese, ignorando l’ingiustizia di fondo dell’occupazione a tempo indeterminato, gli Stati Uniti assumono la posizione secondo cui l’occupante e l’occupato dovrebbero lavorare insieme per stabilizzare l’occupazione. Ciò contribuisce a spiegare perché il partito palestinese al potere, Fatah, perde popolarità e legittimità – e perché gli Stati Uniti (e lo stesso presidente palestinese Mahmoud Abbas) si rifiutano di sostenere le elezioni palestinesi, che non si svolgono da 17 anni.
In breve, la continua politica degli Stati Uniti e dell’Occidente di garantire l’impunità israeliana – assicurando che le azioni di Israele siano prive di costi e conseguenze – fa il gioco del crescente estremismo israeliano. L’opinione pubblica israeliana ha dato potere a politici come Ben Gvir e Bezalel Smotrich e Netanyahu li ha inclusi nella sua coalizione di governo, sapendo che non ci saranno sanzioni significative per Israele.
Due anni fa, siamo stati due dei coautori di un rapporto intitolato “Breaking the Israel-Palestine Status Quo: A Rights-Based Approach”, che lanciava l’allarme sulla pericolosa traiettoria dei possibili sviluppi e su come la politica statunitense stesse aggravando questa situazione.
Ma per gli Stati Uniti e l’Occidente nel suo complesso, la posta in gioco geopolitica è oggi ancora più alta. L’abisso che si è creato tra la retorica occidentale sull’Ucraina e la copertura occidentale alle azioni illegali di Israele comporta costi reali per gli Stati Uniti e l’Europa sulla scena internazionale. Questo fatto è spesso citato come “prova n° 1” della diffidenza da parte del Sud del mondo rispetto alle affermazioni morali che parlano di un ordine “basato sulle regole” guidato dall’Occidente.
Huwwara è il presente, ma offre anche un legame con il passato e uno sguardo a un potenziale futuro. Una seconda Nakba è qualcosa che i politici israeliani di destra minacciano apertamente con sempre maggiore frequenza, e per la quale le milizie dei coloni sotto la copertura militare israeliana stanno saggiando il terreno.
L’insipida politica del centro e del centro-sinistra sionista non può invertire queste tendenze. Per le potenze esterne, la scelta è tra la complicità nell’apartheid e la responsabilizzazione di Israele. E se i palestinesi hanno sempre pagato il prezzo dell’impunità di Israele, molti israeliani stanno ora scoprendo che questo comporta dei costi anche per loro.
Zaha Hassan è avvocatessa per i diritti umani e visiting fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace. In precedenza, è stata coordinatrice e consulente legale senior del team negoziale palestinese durante la candidatura della Palestina all’adesione alle Nazioni Unite e membro della delegazione palestinese ai colloqui esplorativi sponsorizzati dal Quartetto tra il 2011 e il 2012.
Daniel Levy è presidente del Progetto Stati Uniti/Medio Oriente ed ex negoziatore israeliano con i palestinesi a Taba sotto il Primo Ministro Ehud Barak e a Oslo B sotto il Primo Ministro Yitzhak Rabin.
https://www.middleeasteye.net/opinion/israel-judicial-crisis-boomerang-effect-colonisation
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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