di Paola Caridi,
lettera22.it, 24 Marzo 2023.
La procuratrice generale scrive al premier Netanyahu, definendo il suo coinvolgimento della riforma giudiziaria “illegale”. E la protesta si allarga.
Crisi costituzionale formalmente aperta, in Israele. Lo scontro tra sistema giudiziario e governo, già in corso da tre mesi, è arrivato alle lettere ufficiali con firme e timbri. Il Rubicone è stato varcato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, a capo di un esecutivo di estrema destra, che giovedì sera ha affrontato di petto la questione. “Quando è troppo è troppo”, ha detto, riferendosi all’accordo sul suo conflitto di interessi, legato ai processi che lo vedono indagato per corruzione. “Fino ad ora ho avuto le mani legate”, ha detto il premier, dopo che la Knesset aveva approvato una delle prime leggi della controversa riforma giudiziaria, quella che protegge il leader israeliano dal poter essere estromesso dal potere proprio per i processi in corso.
Netanyahu ha dunque scelto il muro contro muro, e la risposta della procuratrice generale di Israele, Gali Baharav Miara, non si è fatta attendere. È arrivata attraverso una lettera a Netanyahu, inviata mentre il premier si trova a Londra per il terzo viaggio europeo nel giro di tre settimane, lontano dalle proteste che diffuse in tutte le città israeliane (e persino in alcune colonie) contro quello che viene definito il “golpe” in atto da parte dell’esecutivo. La procuratrice generale definisce il coinvolgimento del primo ministro in una riforma di carattere costituzionale come “illegale e segnato dal conflitto di interessi”. Significa, nei fatti, che una qualsiasi legge approvata dalla Knesset, sostenuta da questo governo e considerata di carattere costituzionale sarebbe considerata nulla? L’uso del termine “illegale” sembra significare proprio questo, e fa entrare la crisi costituzionale israeliana in un terreno incognito di cui non si riescono a prevedere gli sviluppi.
Gli sviluppi a brevissimo termine mettono, per esempio, in gioco la stessa tenuta del governo Netanyahu. Il premier ha poco tempo, infatti, per portare a termine il piano di rivolgimento istituzionale e costituzionale.
Lo si comprende non solo dalle pressioni sempre più ad alto volume del sistema di sicurezza israeliano, a partire dai servizi di intelligence e dai disagi evidenti nelle forze armate. Lo si comprende ancor di più da quello che è successo – o meglio, non è successo – giovedì, quando il ministro della difesa Yoav Gallant ha prima fatto sapere alla stampa che avrebbe parlato via tv agli israeliani, salvo poi non comparire più in pubblico dopo essere stato convocato a colloquio dallo stesso Netanyahu, prima del discorso tv del premier.
La crisi costituzionale apertasi stamattina è, in ogni caso, la conferma che in Israele è in atto la fase più delicata della storia del paese da 75 anni, sin dalla sua creazione. Una questione tutta interna al sistema istituzionale israeliano che mette in discussione non solo l’impianto democratico di oggi, sottoposto agli urti di una riforma giudiziaria che rende la magistratura subalterna al potere esecutivo. È la stessa democrazia che Israele ha costruito negli ultimi decenni in parallelo all’occupazione della Palestina a essere messa, nei fatti, in discussione. Anche se di Palestina, nelle proteste che segnano la vita di Israele da dodici settimane, non si parla – quasi – mai.
Si parla di assetto istituzionale, soprattutto, e si parla di una gestione etnoreligiosa dello Stato. Questi sono i due elementi su cui si concentra la protesta, non più relegata ai sabati delle grandi manifestazioni che portano nelle piazze sino a mezzo milione di israeliani ebrei. La protesta si sta, infatti, intensificando con i flash mob dei cosiddetti “giovedì della resistenza” e con manifestazioni specifiche negli altri giorni. È la protesta della borghesia, si dice, anche se è sempre difficile definire cosa significhi “borghesia” in un paese piccolo e complesso come Israele. È la protesta che porta per le strade gruppi completamente diversi (e trasversali): dalla media borghesia tradizionale al nuovo mondo hitech che ha significato, negli ultimi anni, una bolla economica impressionante; dai riservisti delle forze armate al più variegato mondo della sicurezza (polizia e servizi di intelligence); dai gruppi anti-occupazione alle università. Sino a una fetta indistinta della maggioranza silenziosa, anche di destra, che si trova a disagio con questo governo che ha rotto definitivamente i tabù del razzismo e del suprematismo.
E anche in Israele, com’è già successo in luoghi che sembrano culturalmente distanti come le piazze arabe e iraniane, la presenza delle donne è fondamentale nel dispiegarsi di una protesta che non accenna a mitigarsi. Anzi, al contrario, sta raggiungendo una diversa fase in cui i più radicali all’interno di un governo già di estrema destra hanno chiesto a chi gestisce l’ordine pubblico di andare pesante, arrestando soprattutto chi si pensa abbia un ruolo nell’organizzazione delle manifestazioni.
Donne in prima linea, dunque. Perché? Per la paura di un regime etnoreligioso e ancor più patriarcale di quello che già è al potere. Non è un caso che, a indicare questa paura, siano stati atti molto precisi e chiari, come le sfilate – vere e proprio parate in stile militare – di donne che indossavano i panni delle “ancelle” descritte nel capolavoro distopico di Margaret Atwood. Mantelle rosse e copricapo bianchi a nascondere del tutto la testa, centinaia di donne hanno sfilato a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Haifa, ad Akko, suscitando l’approvazione – via tweet – della stessa autrice del Racconto dell’Ancella, Margaret Atwood.
“Le donne saranno le prime a pagare il prezzo” della controversa riforma giudiziaria, ha per esempio affermato Moran Zer Katzenstein, la fondatrice del gruppo di attiviste Bonot Alternativa (Costruire l’Alternativa), e cioè l’associazione che ha inscenato la protesta delle “ancelle” in versione israeliana.
Un dettaglio, in una protesta che vede ogni sabato centinaia di migliaia di israeliani ebrei riempire le strade di tutte le città del paese, anche quelle che mai, nella loro storia, avevano visto manifestazioni antigovernative. Eppure il dettaglio delle “ancelle” ha insito, in sé, molto di quello che sta succedendo in Israele da anni. Anzitutto, la divisa, l’uniforme specifica per ogni gruppo, il segno che distingue e identifica ogni persona. La resistenza in atto è, dunque, anche contro la perdita dell’anonimato, e allo stesso tempo di una individualità specifica e non omologata dentro un codice sociale e nazionale fatto anche di “uniformi”. È, insomma, la Israele laica che resiste alla sempre più diffusa (da anni) trasformazione etnoreligiosa del paese. Il che non significa, però, che la protesta abbia introiettato – almeno nella sua dimensione maggioritaria – che la deriva patriarcale e conservatrice va di pari passo con l’occupazione della Palestina dal 1967. L’occupazione “occupa” la testa, la formazione, i codici sociali e la cultura israeliana da almeno due terzi dell’esistenza dello Stato. E non è un dettaglio irrilevante, in quello che sta succedendo nelle strade di Israele negli ultimi tre mesi.
L’immagine è tratta da twitter.
https://www.lettera22.it/israele-scontro-totale-tra-poteri-dello-stato/