di Michael Lynk,
DAWN, 24 febbraio 2023.
Nel suo eloquente libro di memorie del 2012, Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite, ha scritto che il fallimento delle Nazioni Unite nel raggiungere una pace duratura in Medio Oriente è una profonda ferita interna, vecchia quanto l’organizzazione stessa. Nelle sue parole, è stata “una piaga dolorosa e incancrenita, avvertita in quasi tutti gli organi intergovernativi e del Segretariato”. Le ramificazioni di questa paralisi, ha osservato, sono globali: “Nessun’altra questione ha una carica simbolica ed emotiva così potente da colpire anche chi è lontano dalla zona del conflitto”. E, con una nota di disperazione, Annan indicava come una delle principali cause di questo fallimento il ruolo protettivo degli Stati Uniti nel mettere Israele al riparo dalle sue responsabilità al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite:
“Anche quando il Consiglio ha preso posizione, non ha stabilito meccanismi per far rispettare la sua volontà. Gli Stati Uniti hanno esercitato il loro veto per proteggere gli israeliani anche da un ragionevole controllo e pressione internazionale, paralizzando il Consiglio riguardo a uno dei conflitti centrali del mondo”.
Più di dieci anni dopo, la fonte della costernazione di Annan continua a occupare la scena. Il 20 febbraio, il Consiglio di Sicurezza ha adottato all’unanimità una blanda e non vincolante Dichiarazione Presidenziale, in cui si esprime “profonda preoccupazione e sgomento” per l’annuncio del nuovo governo israeliano, all’inizio del mese, di legittimare nove avamposti di insediamento e di approvare più di 10.000 nuove unità abitative negli insediamenti della Cisgiordania occupata. La non vincolante Dichiarazione Presidenziale è stata adottata dopo che gli Stati Uniti hanno minacciato di porre il veto a una risoluzione molto più forte e legalmente vincolante proposta dagli Emirati Arabi Uniti, uno dei 10 membri a rotazione del Consiglio di Sicurezza. La risoluzione degli Emirati Arabi Uniti avrebbe condannato gli insediamenti israeliani come una “flagrante violazione del diritto internazionale”, facendo eco a precedenti risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza. Secondo fonti vicine ai lavori del Consiglio di Sicurezza, la risoluzione proposta dagli Emirati Arabi Uniti aveva l’approvazione di 12 dei 15 membri del Consiglio, con il Regno Unito e l’Albania in bilico e solo gli Stati Uniti pronti a votare contro.
A differenza della risoluzione accantonata e di molte risoluzioni precedenti del Consiglio, la Dichiarazione Presidenziale, per lo più simbolica, non ha fatto alcun riferimento all’illegalità degli insediamenti israeliani, né al consolidato principio del Consiglio di Sicurezza sull’inammissibilità dell’acquisizione di territorio con la forza, né all’annessione in corso del territorio palestinese da parte di Israele. Inoltre, il passaggio della risoluzione degli Emirati Arabi Uniti, in cui si affermava che Israele deve cessare tutte le attività di insediamento, è assente dalla Dichiarazione Presidenziale. Il paragrafo più lungo della Dichiarazione si concentra sul terrorismo palestinese, ma non fa alcuna critica ai crescenti livelli di violenza commessi dall’esercito israeliano contro i palestinesi negli ultimi anni. Solo nei primi due mesi del 2023, almeno 62 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito, dalla polizia israeliana o dai coloni israeliani a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Nello stesso periodo, 10 israeliani e un ucraino sono stati uccisi da palestinesi.
Diverse fonti di informazione hanno indicato che il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha negoziato un’intesa di fondo per garantire il ritiro della bozza di risoluzione degli Emirati Arabi Uniti e la sua sostituzione con la Dichiarazione Presidenziale, molto più blanda. Secondo quanto riferito, il governo israeliano sarà autorizzato ad andare avanti con molte delle nuove unità abitative attualmente proposte e con la legittimazione della maggior parte degli avamposti di insediamento designati, ma farà una pausa di almeno tre mesi prima di procedere con l’espansione degli insediamenti. Sebbene questi avamposti di insediamento siano illegali anche secondo la legge israeliana, sono potuti fiorire perché il governo israeliano ha ignorato le proprie leggi. Una volta insediati, l’esercito israeliano ha difeso questi avamposti e il governo li ha dotati di strade, servizi pubblici e altri servizi. A quanto pare, Israele ha anche accettato di ridurre il numero di demolizioni di case palestinesi, sfratti e incursioni militari durante questo periodo di pausa.
Gli Stati Uniti si sarebbero impegnati con l’Autorità Palestinese a far pressioni su Israele affinché riapra il suo consolato a Gerusalemme Est, chiuso dall’amministrazione Trump. Le speculazioni dei media hanno anche suggerito che il presidente palestinese Mahmoud Abbas sarà invitato alla Casa Bianca, mentre il primo ministro israeliano Netanyahu potrebbe dover aspettare ancora un po’ per essere invitato.
Se questa intesa di fondo doveva servire a riportare la calma prima delle imminenti festività del Ramadan, del Passover e della Pasqua, gli eventi successivi hanno mostrato tutto il contrario. Il 22 febbraio l’esercito israeliano ha ucciso 11 palestinesi e ne ha feriti più di 100 nella Città Vecchia di Nablus durante un raid diurno. Nello stesso periodo, il Consiglio per la pianificazione degli insediamenti di Israele ha approvato più di 7.000 unità abitative che superano già il totale di 4.427 unità approvate in tutto il 2022.
Invece di condannare queste mosse, il leader dell’opposizione centrista ed ex primo ministro israeliano Yair Lapid ha criticato Netanyahu per aver accettato la presunta pausa degli insediamenti. Ha’aretz ha citato una dichiarazione di Lapid di essere “sorpreso che il governo abbia accettato il congelamento degli insediamenti. Non abbiamo mai accettato una cosa simile, nonostante le ripetute richieste degli americani”. D’altra parte, gli alleati di estrema destra di Netanyahu nel nuovo governo, in particolare Itamar Ben Gvir e Betzalel Smotrich, sono stati relativamente silenziosi riguardo alla pausa, indicando che hanno compreso il deliberato quid pro quo americano-israeliano prevalente sugli insediamenti.
L’assenza di qualsiasi riferimento all’illegalità degli insediamenti israeliani nella Dichiarazione Presidenziale del Consiglio di Sicurezza riflette la forza diplomatica degli Stati Uniti nel cercare un minimo comune denominatore. Il 13 febbraio, il giorno dopo l’annuncio degli insediamenti da parte di Israele, sia l’Unione Europea che un portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres hanno rilasciato dichiarazioni critiche, affermando espressamente che gli insediamenti israeliani violano il diritto internazionale. Il giorno dopo è iniziata la marcia indietro. Gli Stati Uniti si sono uniti a una dichiarazione di Regno Unito, Francia, Germania e Italia, in cui si dicevano “profondamente turbati” dall’annuncio di Israele sugli insediamenti, ma non facevano alcun riferimento all’illegalità degli insediamenti. Il 16 febbraio, gli Stati Uniti hanno rivolto la loro attenzione a far deragliare la risoluzione degli Emirati Arabi Uniti; in un briefing del Dipartimento di Stato si affermava che tale risoluzione sarebbe stata “inutile” per il raggiungimento dell’elusiva soluzione dei due-stati. Lo sforzo diplomatico per accantonare la risoluzione degli Emirati Arabi Uniti riflette la posizione ufficiale americana prevalente, secondo cui l’occupazione israeliana della Palestina non dovrebbe essere giudicata alle Nazioni Unite – dove c’è una forte opposizione all’occupazione, soprattutto da parte dei Paesi del Sud globale – e che l’unica strada per una pace duratura è che Israele e i palestinesi negozino direttamente tra loro, senza le garanzie del diritto internazionale e senza tener conto degli schiaccianti vantaggi militari, economici, politici e diplomatici posseduti da Israele, per non parlare del desolante bilancio del moribondo “processo di pace” da Oslo in poi.
Dal 1973, gli Stati Uniti hanno posto 81 veti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, molto più di qualsiasi altro membro permanente; la Russia e l’ex Unione Sovietica sono al secondo posto con 38 veti nello stesso periodo. Più della metà di questi veti americani, 42, sono stati utilizzati per bloccare risoluzioni critiche nei confronti di Israele: 32 veti hanno riguardato l’occupazione israeliana della Palestina, mentre gli altri 10 hanno vanificato risoluzioni critiche nei confronti dell’invasione e dell’occupazione del Libano da parte di Israele. In ognuno di questi casi, gli Stati Uniti sono stati l’unico membro permanente del Consiglio di Sicurezza a porre il veto. Nessun altro membro permanente del Consiglio di Sicurezza ha mai posto il veto a una risoluzione critica nei confronti di Israele o dell’occupazione israeliana della Palestina negli ultimi 50 anni. Nel suo libro di memorie del 2020, Barack Obama ha lamentato la scomoda posizione in cui gli Stati Uniti si sono regolarmente trovati durante la sua presidenza quando hanno difeso Israele alle Nazioni Unite e in altri forum internazionali:
“Quasi tutti i Paesi del mondo consideravano la continua occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele una violazione del diritto internazionale. Di conseguenza, i nostri diplomatici si sono trovati nella scomoda posizione di dover difendere Israele per azioni che noi stessi avversavamo”.
Certo, gli Stati Uniti hanno comunque regolarmente permesso al Consiglio di Sicurezza di adottare risoluzioni critiche nei confronti di Israele, 77 in totale dal 1967. Queste risoluzioni hanno condannato l‘annessione israeliana di Gerusalemme Est e delle alture siriane del Golan; hanno sottolineato il principio giuridico secondo cui l’acquisizione di un territorio con la forza o la guerra è inammissibile; e hanno affermato che la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, che protegge la popolazione civile nei territori occupati, si applica pienamente alla Cisgiordania, comprese Gerusalemme Est e Gaza. Nel 1980, il Consiglio di Sicurezza, con l’astensione dell’amministrazione Carter, ha adottato la risoluzione 476, che “riafferma la necessità assoluta di porre fine alla prolungata occupazione dei territori arabi occupati da Israele dal 1967” e “deplora fortemente il continuo rifiuto di Israele, la potenza occupante, di rispettare le pertinenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale”. Ci si potrebbe chiedere: se il Consiglio di Sicurezza e persino gli Stati Uniti hanno ritenuto che l’occupazione israeliana fosse già troppo “prolungata” e richiedesse una rapida conclusione nel 1980, dopo soli 13 anni, come dovrebbe essere etichettata nel 2023, dopo quasi 56 anni?
Tuttavia, se da un lato gli Stati Uniti hanno permesso che queste risoluzioni critiche nei confronti di Israele venissero approvate dal Consiglio di Sicurezza, dall’altro hanno usato la minaccia del veto per ostacolare la possibilità che il Consiglio applicasse nella pratica una qualsiasi di queste risoluzioni. Come Ban Ki-moon, successore di Annan, ha scritto nel 2021 dopo il suo ritiro da segretario generale, “la copertura politica fornita dai successivi governi statunitensi a Israele è in parte responsabile di questa mancanza di un’attribuzione di responsabilità”. In effetti, la riluttanza degli Stati Uniti a permettere al Consiglio di Sicurezza di censurare Israele è cresciuta solo negli ultimi anni. Dal febbraio 2009, gli USA hanno permesso al Consiglio di adottare una sola risoluzione critica nei confronti di Israele, approvata nelle ultime settimane dell’amministrazione Obama, con l’astensione degli Stati Uniti. Negli ultimi due decenni, le amministrazioni americane hanno regolarmente appoggiato la soluzione dei due-stati, insistendo al contempo sulla necessità di non imporre penalità per le azioni israeliane che hanno reso impossibile tale obiettivo. L’inquietante realtà dei Territori Palestinesi occupati è contraria a tutto ciò che gli Stati Uniti proclamano di sostenere, ma il loro ruolo indispensabile nel proteggere Israele da qualsiasi responsabilità in sede ONU indica che gli interessi dell’America sono altrove.
La punta estrema della protezione americana a favore di Israele in seno al Consiglio di Sicurezza si è manifestata nelle risoluzioni di condanna degli insediamenti israeliani. Gli insediamenti sono il motore dell’occupazione israeliana, i “fatti sul campo” per l’incombente ricerca di Israele di annettere la Cisgiordania e sono la fonte di molte delle violazioni dei diritti umani contro i palestinesi che vivono a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. L’illegalità degli insediamenti israeliani è anche una delle questioni più consolidate del diritto internazionale moderno, essendo stata affermata dalla Corte Internazionale di Giustizia, dall’Assemblea Generale, dal Consiglio per i diritti umani, dal Comitato internazionale della Croce Rossa, dalle Alte Parti contraenti della Quarta Convenzione di Ginevra, da Amnesty International e da Human Rights Watch, tra molti altri. Nel dicembre 2016, il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 2334, con l’astensione dell’amministrazione Obama, in cui si afferma che gli insediamenti sono “una flagrante violazione del diritto internazionale” e si chiede a Israele di “cessare immediatamente e completamente tutte le attività di insediamento”. La risoluzione richiedeva inoltre che il Segretario Generale delle Nazioni Unite riferisse ogni tre mesi al Consiglio di Sicurezza sulla sua attuazione.
I 24 rapporti trimestrali consegnati al Consiglio di Sicurezza da allora, sia da Guterres che dal coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, hanno tutti affermato che Israele non ha fatto alcun passo per rispettare gli obblighi previsti dalla Risoluzione 2334. Quando è stata adottata, poco più di sei anni fa, c’erano circa 400.000 coloni israeliani in Cisgiordania e altri 215.000 a Gerusalemme Est. Oggi i coloni israeliani sono 500.000 in Cisgiordania e circa 235.000 a Gerusalemme Est.
Se Israele, in quanto potenza occupante che punta all’acquisizione di terra, capisce che nessuna conseguenza deriverà dai suoi fatti sul terreno, allora non ci si deve aspettare che uno qualsiasi degli obiettivi dichiarati nella blanda Dichiarazione Presidenziale del 20 febbraio –l'”incrollabile impegno del Consiglio di Sicurezza verso la visione della soluzione dei due-stati in cui due Stati democratici, Israele e Palestina, vivono fianco a fianco in pace”– venga mai raggiunto. Come ha scritto Shibley Telhami nel 2021 a proposito della relazione sui generis tra Stati Uniti e Israele, “se un presidente americano non è in grado di far leva su questo sostegno straordinario e senza precedenti per portare avanti i valori fondamentali dell’America, che speranza c’è di avere successo altrove?”.
Michael Lynk è stato Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, dal 2016 al 2022. Ha insegnato presso la Facoltà di Giurisprudenza della Western University in Ontario dal 1999 al 2022. Recentemente è stato coautore di “Protecting Human Rights in Occupied Palestine: Working through the United Nations”, con Richard Falk e John Dugard.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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