“Il governo di Israele ha ministri neonazisti. Ricorda davvero la Germania del 1933″.

di Ayelett Shani,

Haaretz, 10 febbraio 2023. 

Lo storico dell’Olocausto Daniel Blatman si dice stupito della rapidità con cui Israele si sta avviando verso il fascismo. “Nel momento in cui passerà la riforma giudiziaria, ci troveremo in un’altra realtà”, afferma.

Una protesta contro la revisione giudiziaria prevista dal governo israeliano, a Tel Aviv il mese scorso. Tsafrir Abayov /AP

Si presenti, per favore.

Sono Daniel Blatman, professore presso l’Istituto per l’Ebraismo Contemporaneo della Hebrew University. I miei campi di interesse sono l’Olocausto, il nazismo, il fascismo, il genocidio e l’ebraismo dell’Europa est-orientale durante l’Olocausto. Al momento mi trovo in Polonia. Sono coinvolto nella creazione del Museo del Ghetto di Varsavia [la cui apertura è prevista per il 2025].

L’ho voluta intervistare perché mi sono imbattuto in un articolo di opinione che lei ha scritto per il sito web in ebraico di Haaretz circa sei anni fa. Il testo sembra essere stato scritto questa mattina: è un testo in gran parte profetico.

“Profetico” è una parola grossa. Posso dire di essere consapevole da molto tempo che qui si stava realizzando un processo che porterà a una collisione di forze e non sono davvero ottimista sulla possibilità che, alla sua conclusione, Israele continui a essere una democrazia correttamente funzionante.

Lei ha scritto l’articolo nel 2017, quando Benjamin Netanyahu era ancora indagato solo per i casi 1000 e 2000. Non era ancora chiaro se sarebbero state formulate delle accuse. Nel pezzo, lei sostiene che alla fine il sistema giudiziario andrà distrutto pur di aiutarlo a rimanere al potere.

Questo quando i dettagli dei casi avevano appena cominciato a venire alla luce. Guardi, io sono uno storico. Non sono assolutamente un profeta e non pensavo di scrivere una sorta di testo profetico. Sostenevo che Israele si stava deteriorando in una situazione in cui l’intero sistema giudiziario sarebbe stato stravolto per servire una persona al potere, a spese della stabilità democratica e del regime democratico in Israele. Ho visto un leader che stava costruendo un’immagine di sé come quella di qualcuno che è al di sopra della legge e delle norme convenzionali di uguaglianza giudiziaria per tutti i cittadini – e ho visto che l’approvazione pubblica per questa tendenza stava crescendo. C’è un vasto pubblico di cittadini che alle ultime elezioni ha votato per tutta la varietà di partiti che oggi formano la coalizione: più o meno Haredi, più o meno nazionalisti – non fa differenza. Questo pubblico è diviso su molte questioni, ma unito intorno a un denominatore comune.

Lei ha parlato di populismo riferendosi a Netanyahu. Naturalmente non c’è nulla di nuovo nell’idea che il primo ministro sia un politico populista. Forse può spiegare meglio cosa intendeva, perché il populismo è un concetto ampio. La definizione generalmente accettata sembra essere quella del politologo olandese contemporaneo Cas Mudde: il populismo divide la società in due gruppi opposti: il popolo e le élite.

Il populismo è un sistema politico che si è sviluppato nel XX secolo e ha assunto molteplici forme nel XXI secolo. Ma il concetto di popolo contro le élite – siano esse economiche, accademiche o aristocratiche – è comune a tutte queste forme. Il populismo può portare al fascismo. O ad altri tipi di regimi autoritari che conosciamo nella storia – non necessariamente il nazismo, su cui ci si concentra sempre – ma a dittature militari come quelle che esistevano in Sud America. Anche lì la società era divisa in due categorie: “con me” o “contro di me”.

“Con me”, cioè con il leader nella sua lotta contro le élite. Il leader che personifica la discriminazione, l’esclusione, la sua lontananza dai centri di potere che sono sotto il controllo delle élite.

Nel populismo, il popolo è il vero sovrano e il leader è la voce vera e autentica di una società che forgia quell’alleanza collettiva che definisce la nazione – in contraddizione con gli altri, gli elitisti, che si sono impadroniti dei centri di potere e non fanno altro che curare esclusivamente i propri interessi. Un altro principio, che alla fine è l’essenza del populismo, è che il leader è una figura paterna. Ora, cos’è che dà ai regimi populisti il loro potere? Spesso si commette l’errore di pensare che si tratti di una dittatura che terrorizza il pubblico, con la gente che ha paura di parlare e con la polizia segreta che bussa alla porta di notte. Ma non è così.

Le dittature nello stile dell’Ungheria di Viktor Orban si sforzano di mantenere una facciata democratica. L’oppressione non è violenta. Questi regimi sono più simili a dittature volontarie, con la collaborazione del popolo.

Tra l’altro, le dittature più terribili del XX secolo, quelle che hanno davvero mandato la gente in prigione e nei campi di detenzione, erano caratterizzate dall’ammirazione per il leader. Stalin era un leader popolare. Hitler era un leader popolare, almeno fino a un certo momento. C’è qualcosa nel populismo nella sua versione israeliana – e naturalmente non sto paragonando Netanyahu a Hitler o a Stalin – che è legato al suo profondo legame con ampie fasce di pubblico, che vedono il leader come una figura superiore, con capacità straordinarie.

Lo storico dell’Olocausto Daniel Blatman. “Per il luogo in cui si trova Israele, con la sua composizione sociale interna, con l’occupazione, con la grande popolazione minoritaria e la complessa situazione in termini di sicurezza, società, economia, il populismo è una ricetta sicura per la rovina”. Alik Keplicz/AP

Verissimo! Dopo tutto, i membri del Likud pensano che il QI [quoziente di intelligenza] di Netanyahu sia il sesto più alto del mondo, o qualcosa del genere.

Questo fa parte di una sorta di culto della personalità, del legame speciale con il popolo che ha iniziato a formarsi già nel 2015, dopo la vittoria di Netanyahu alle elezioni; ha assunto una dimensione diversa quando sono iniziati i suoi problemi legali. Netanyahu non è il primo leader populista di Israele: lasciando per il momento da parte [Menachem] Begin e [David] Ben-Gurion, il leader populista che più si è avvicinato allo status di Netanyahu è stato [Ariel] Sharon. Anche lui è rimasto invischiato in una serie di attività di corruzione. Ma è stato abbastanza intelligente da individuare i pericoli, in modo da non oltrepassare il limite ed evitare di arrivare al punto in cui ci troviamo oggi in Israele: con un governo populista che si sta avvicinando al fascismo. E credo che dobbiamo chiederci come questo sia potuto accadere; come una società che ha dichiarato santi i principi democratici della supremazia della legge e dell’autorità della legge per proteggere la dignità umana e la libertà, abbia potuto santificare un leader.

Nell’ascesa dei regimi populisti si può vedere uno schema comune. C’è una parte della società che già in partenza ha l’impressione di essere discriminata, un ampio pubblico che sente di essere stato privato di qualcosa. La sensazione che induce il pubblico a identificarsi con questa narrazione è reale, non crede? Non è una questione di cinismo.

La sensazione è reale, e c’è uno schema che si ripete in una sorta di forma storica di cinismo, su un asse temporale. Sensazione di discriminazione. Disagio a causa delle crisi economiche. Alla base c’è sempre l’impressione da parte di un vasto pubblico, che gli manchi qualcosa, che qualcosa di fondamentale nella sua esistenza sia stato sminuito: dall’orgoglio nazionale alla rabbia esistenziale. Sente di non essere un partner, non ottiene qualcosa che tutti gli altri ottengono.

‘Una storia di persecuzione’

Il sentimento di discriminazione è autentico anche tra i politici? Donald Trump e Netanyahu, ad esempio, provengono da ambienti privilegiati.

Netanyahu e Trump provengono entrambi da famiglie benestanti, ma sono stati molto abili nel creare un’immagine di se stessi come emarginati. Con Netanyahu, si parla di suo padre che è stato perseguitato, e anche lui è perseguitato, e si parla di quanto sia stata difficile la lotta per arrivare al centro [del potere] ed essere legittimato, e per spingere se stesso nelle élite che non volevano accettarlo. È un’assurdità, ovviamente. Quelle persone [Trump e Netanyahu] sono élite, e la storia della persecuzione serve loro per entrare in contatto con l’elettorato.

Che dire di Menachem Begin? È stato il primo a portare in superficie il concetto di discriminazione e a farne un uso politico.

Begin non era un populista in questo senso. Ha insistito sulla discriminazione, ma anche con tutta la riverenza che gli è stata mostrata, nessuno ha pensato che fosse al di sopra della legge. Non avrebbe osato distruggere la democrazia. Credo che non ci avrebbe nemmeno provato e che, se ci avesse provato, il suo partito non avrebbe permesso nulla del genere.

Ma nei regimi populisti il leader è al di sopra del partito. Il partito non esiste più.

Cosa c’è di nuovo in questo? Qualcuno sa chi è il numero 2 di Orban? O quello di [Recep Tayyip] Erdogan? In un regime populista, il partito non è altro che uno strumento che dovrebbe assistere il leader nella realizzazione del suo piano e fornirgli servizi. In questi regimi il partito non è un organismo politico vivo come nei regimi democratici. È moribondo. Non ci sono discussioni. Non c’è una gamma di opinioni. È solo uno strumento al servizio del leader.

Foto: Yonatan Sindel/Flash90

A sentire queste cose, mi viene in mente l’immagine di Netanyahu in tribunale all’inizio del suo processo [nel maggio 2020], con tutti i suoi ministri dietro di lui, con le mascherine sulla bocca.

Questa è un’immagine iconica, credo, che prelude alla realtà che stiamo vivendo oggi.

Come si inserisce la corruzione in questo quadro? Molti leader populisti si presentano come combattenti contro la corruzione delle élite. [Rodrigo] Duterte. [Jair] Bolsonaro. Trump. Si presentano come “guerrieri contro la corruzione”, per poi rimanere essi stessi invischiati nella corruzione.

Dove passa il confine tra ciò che viene definito corruzione e ciò che è legittimo agli occhi della società? Stiamo parlando di cosa è legalmente accettabile in una determinata società. Ci sono paesi in Africa in cui i reati di Netanyahu non sono definiti corruzione. Domani la Knesset approverà una legge che stabilisce che i regali che valgono meno di 100.000 dollari non sono corruzione ma regali legittimi. Un vasto pubblico non pensa che Netanyahu sia corrotto. O che il leader dello Shas Arye Dery sia corrotto. Il pubblico li sostiene anche se è consapevole delle loro azioni. Quindi, come si fa a definire la corruzione?

Nelle prossime settimane, almeno, saremo ancora in grado di utilizzare i criteri legali [esistenti].

Le democrazie liberali progressiste definiscono le loro leggi in base a criteri giuridici. In questo momento, in Israele si sta verificando uno scontro tra sistemi di valori che una struttura liberaldemocratica non è in grado di sostenere. Una collisione di norme. Di concezioni. In una democrazia, un sistema giuridico stabile e indipendente è il fondamento di ogni attività pubblica, economica, sociale e politica. Ma i politici preferiranno sempre giudici deboli, che non interferiscano con la loro rielezione anche se non eseguono bene il loro incarico o se le loro azioni sono percepite come corrotte. È questo che rende la democrazia un sistema così fragile e suscettibile di pressioni.

Israele oggi è esattamente a questo punto di rottura. I politici corrotti e i criminali condannati sanno che se non sradicano l’indipendenza della magistratura, non potranno rimanere in carica. Il tribunale li rimoverà, come è successo a Dery, o finiranno in prigione, che è la grande paura di Netanyahu. Di conseguenza, il loro obiettivo è quello di eliminare il sistema giudiziario, garantendo così il loro dominio e il loro potere politico.

Ho assistito alla recente conferenza stampa di Netanyahu, in cui ha dichiarato che l’economia israeliana non è in pericolo, che i grandi capitali non fuggiranno. La gente si chiede quale sia il rapporto tra l’afflusso di investitori in un paese e una situazione in cui il governo [da solo] seleziona i giudici. È proprio qui che entra in gioco la questione della corruzione. Quando non c’è una magistratura a proteggere l’economia e questa è soggetta all’arbitrio di un funzionario politico, nessun investitore vorrà rischiare il proprio denaro. Perché se succede qualcosa, il tribunale non lo proteggerà. Perché oggi la gente non investe in Ungheria come faceva prima di Orban? Credo che in Israele il regime non colga il nesso, o non voglia coglierlo.

Il primo ministro ungherese Victor Orban, l’anno scorso. “Perché oggi la gente non investe in Ungheria come faceva prima di Orban? Credo che in Israele il regime non colga il nesso”. MARTON MONUS/ REUTERS

Possiamo supporre che lo afferri molto bene.

Netanyahu lo sa, ma non sono sicuro che sappia come affrontarlo, perché è circondato da altri che lo stanno portando verso il populismo ideologico. Bibi non è un ideologo, non lo è mai stato. Capisce [i rischi economici], ma è circondato da ministri che lo stanno portando di qua e di là, e ha anche il processo [penale] che pende sulla sua testa. È impossibile ignorare tutto questo.

Nel suo articolo del 2017, lei sostiene che la corruzione è una sorta di condizione preliminare per l’ascesa del populismo. Ci spieghi meglio.

In una società basata sui valori della democrazia liberale, dell’uguaglianza, della giustizia e della decenza, l’asticella con cui si confrontano le figure pubbliche è alta e il sistema combatte ferocemente tutti gli episodi di corruzione che vengono rivelati, certamente nel caso di funzionari eletti. Un regime populista non può svilupparsi in queste condizioni. Al contrario, quando l’asticella è bassa, quando il funzionario eletto non si impegna a rispettare la giustizia, la decenza e l’integrità, quel funzionario può accumulare forza e potere che non sarebbe stato in grado di accumulare se avesse dovuto rispettare le regole.

Nel 1977, Yitzhak Rabin si dimise a causa del conto bancario [americano illegale] della moglie. È successo più di 40 anni fa. Questo era il livello di allora, ed è proprio questa la differenza. Oggi vediamo che la maggioranza del pubblico che sostiene Dery e Netanyahu è indifferente alle loro azioni. Vediamo che tra coloro che siedono oggi al tavolo del governo ci sono politici sospettati di aver infranto la legge e politici che sono stati condannati per aver infranto la legge, ma l’opinione pubblica che li ha eletti ritiene legittimo che siano loro a guidarla.

Quel pubblico non solo pensa che sia legittimo che essi siano i suoi leader, ma pensa anche che sia legittimo per loro rivedere il sistema giudiziario.

Naturalmente. Così vediamo, effettivamente, come la corruzione distrugge la politica. Che importanza ha oggi l’arena politica in Israele, se non è più soggetta al controllo giudiziario?

Serve solo per distribuire buoni posti di lavoro.

Se queste “riforme” giudiziarie verranno attuate, in una realtà complessa come quella israeliana, porteranno al disastro. Non siamo la Polonia. In Polonia ci saranno le elezioni tra sei mesi. Se il governo verrà sostituito o meno, i cittadini se ne faranno una ragione. Ma nel luogo in cui si trova Israele, con la sua composizione sociale interna, con l’occupazione, con una popolazione minoritaria [araba] del 20%, con uno stato di cose così complesso in termini di sicurezza, società, economia – il populismo è una ricetta per la rovina. Non solo dei valori morali, ma della stessa esistenza del Paese.

Non so quanto io possa alzare la voce su questo argomento: in realtà sono solo un umile storico, come si suole dire. Ma è una situazione calamitosa per l’esistenza del Paese. Le menti creative fuggiranno. La vita diventerà insipida, dura e pericolosa. Potrebbe sembrare allucinante, ma il pericolo è esistenziale. È autentico. Sapete qual è la più grande minaccia per l’esistenza dello stato di Israele? Non è il Likud. Non sono nemmeno i teppisti che scorrazzano nei territori. È il Kohelet Policy Forum [un gruppo di studio conservatore di destra sostenuto da ricchi donatori statunitensi]”.

La gente non conosce a sufficienza questi personaggi. Non legge le loro pubblicazioni. Io li seguo da vicino. Stanno creando un ampio manifesto sociale e politico che, se adottato da Israele, lo trasformerà in un Paese completamente diverso. Se si dice “fascismo”, la gente si immagina dei soldati che girano per le strade. No, non sarà così. Il capitalismo sarà ancora presente. La gente potrà ancora andare all’estero – se altri paesi gli permetteranno di entrare. Ci saranno buoni ristoranti. Ma non ci sarà più la possibilità che una persona senta che c’è qualcosa che la protegge, al di là di ciò che vuole il regime – perché quest’ultimo la proteggerà o meno, a seconda delle sue esigenze.

Tre anni fa ho intervistato Sebnem Korur Fincancı, una professoressa e attivista sociale turca perseguitata dal governo. Mi disse una cosa a cui ho pensato ogni giorno da allora: fuori sembra tutto uguale, le persone sono sedute nei caffè, giocano a backgammon, a volte ridono – ma in realtà niente è uguale.

Sì, capisco quello che sta dicendo. Ma c’è di più: Il regime di Erdogan di tre, quattro o cinque anni fa non era quello di oggi. C’è un processo che si ripete in questo tipo di regime, in modo più o meno evidente. L’escalation si verifica. Sempre. Le cose non stanno ferme. Non è che ci sarà populismo e rimarrà così, perché più il regime sente che sta perdendo la sua presa, sia a causa dell’opposizione interna, sia a causa dell’economia, sia a causa delle pressioni internazionali – e Israele dovrà affrontare tutte queste prove – più aumenterà l’oppressione.

Inoltre, rafforzerà la sua presa sull’opinione pubblica. Il regime raggiunge un punto di non ritorno. Più le sue politiche di oppressione e cambiamento vanno avanti, più ha da perdere.

In Turchia il processo sta diventando sempre più estremo. Negli ultimi anni si sono verificate epurazioni complete nell’esercito, nella polizia e nelle forze di sicurezza interne: vengono nominati solo i fedelissimi di Erdogan. I tribunali hanno perso quasi completamente la loro indipendenza giudiziaria. Sono state imposte gravi restrizioni ai media non governativi. E la cosa peggiore è che vengono arrestati o licenziati giornalisti e docenti universitari. Ho diversi conoscenti – storici di origine turca che vivono negli Stati Uniti – che si occupano del genocidio armeno e della Turchia moderna, a cui le famiglie in patria hanno detto esplicitamente di non andare in visita lì, perché non avranno il permesso di ripartire. È impossibile sapere fino a che punto si arriverà. Un deputato, del partito di [Itamar] Ben-Gvir, credo, ha detto quasi scherzando: Se vogliamo, possiamo non avere elezioni per 10 anni.

La polizia sgombera i manifestanti anti-Netanyahu, nel 2020. “Più il regime sente che sta perdendo la presa, più aumenterà l’oppressione”. Ohad Zwigenberg

Ricetta per il disastro

Non credo che fosse uno scherzo. Perché dovrebbero rinunciare volontariamente a tanto potere? In nome di cosa? In nome della democrazia? E non lo faranno con un passo grossolano come l’annullamento delle elezioni. Si limiteranno ad approvare nuovi regolamenti, a erodere pian piano la legge.

Sembra un’affermazione di fantasia e se lei l’avesse detta quattro anni fa, la gente avrebbe pensato che era fuori di testa, ma è vero. Oggi tutto è possibile. Se queste “riforme” passeranno nella loro forma attuale, tutto sarà possibile.

E cosa succederà allora? Quali scenari ci offre la storia?

Gli esempi che mi vengono in mente sono le dittature sudamericane. Brasile. Argentina. Cile. Hanno subito processi che hanno portato a una dittatura populista di un tipo o di un altro negli anni Settanta e Ottanta. I regimi sono crollati, ma i Paesi sono stati profondamente danneggiati. Il Cile ha impiegato 40 anni per riprendersi da Pinochet. L’Argentina non si è ancora ripresa dal governo dei generali. Le migliori menti del paese sono emigrate. Non sono arrivati investimenti. La corruzione è dilagata e non si è fermata nemmeno dopo la caduta del regime populista, perché era ormai profondamente radicata nel sistema. I tribunali hanno avuto difficoltà a funzionare anche quando il governo ha eliminato le restrizioni. Il danno è cumulativo, a lungo termine.

Israele è un paese piccolo. È vero, è forte militarmente ed economicamente, ma è piccolo e situato in una regione complessa, con enormi tensioni interne. Questa è una ricetta per il disastro. La protesta che molti esprimono oggi non è isteria. Si basa su ciò che è accaduto in altri luoghi. Il populismo non l’abbiamo inventato noi. Esiste da generazioni. Non c’è bisogno di una guerra mondiale per far crollare un Paese.

La sostituzione dei consulenti legali ministeriali potrebbe essere sufficiente.

Il cuore di questa storia è il sistema giudiziario. La nomina di giudici e consulenti legali. Lo smantellamento dell’Alta Corte di Giustizia di Israele. Il populismo di Bibi, sostenuto dal potere e dall’influenza dei messianici fascisti che lo circondano e dei politici per i quali l’integrità non è mai stata un valore, sta compiendo gli ultimi passi verso il fascismo. Dal momento in cui Netanyahu ha attraversato il Rubicone per quanto riguarda la supremazia della legge e l’indipendenza della Corte Suprema, è passato de facto – anche se non lo capisce o non ci pensa – da essere un leader populista tradizionale a uno di stampo fortemente fascista.

Ciò che più mi stupisce in questo processo che si sta svolgendo è la sua velocità. Qui non c’è ormai più nulla da fare. Faccio paragoni, torno continuamente ai miei flashback storici. Sono sbalordito dalla velocità con cui le cose vengono attuate. Nessuno ricorda che solo tre mesi fa c’erano le elezioni.

Che proprio lo scorso ottobre, in vista delle elezioni, Bibi non ha voluto farsi fotografare insieme a Ben-Gvir.

Ci troviamo ora in un processo che avrebbe dovuto richiedere alcuni anni e non pochi mesi. Non abbiamo mai visto una situazione simile prima d’ora, né in Ungheria né in Polonia. Ci è voluto tempo. Anni. Hanno preparato la società. Lo hanno fatto gradualmente. Hanno creato campagne di propaganda. Sono stati eletti due o tre volte per arrivare a quel punto. E qui, l’intera rivoluzione avviene nel giro di tre mesi.

Nel momento in cui passeranno le nuove leggi, ci troveremo in un’altra realtà. Che ricorda davvero la Germania del 1933. Ma non in termini di moralità del regime: Israele non commetterà un genocidio, si spera.

Netanyahu e Ben-Gvir si stringono la mano alla Knesset a dicembre. Ohad Zwigenberg

Non prendiamo impegni in questa fase.

Sì, e come ho detto, non ci saranno soldati in camicia marrone nelle strade. Ma ciò che vediamo qui è un regime che sta iniziando a fare una rapida rivoluzione giudiziaria, politica e morale – come in Germania. A gennaio 1933 era tutto finito. Nel giro di mezzo anno il Paese divenne irriconoscibile. Fu istituzionalizzata una dittatura che resistette fino al 1945. Questo significa una cosa, dal mio punto di vista: che la società tedesca era pronta a ingoiare tutto questo. Se 50 milioni di tedeschi non hanno fermato il paese quando Hitler è salito al potere, evidentemente quella società era pronta ad accettare [il nuovo ordine]. Questa è la grande prova che Israele affronta oggi.

La conclusione di questa conversazione non è forse che la società israeliana ha già fallito la prova? Che c’è qualcosa di malato, di alterato, non solo nel governo populista ma anche nell’opinione pubblica che vuole un tale governo?

La società israeliana ha subito un processo di radicalizzazione. C’è una grande massa che non mette al primo posto i valori democratici e liberali. Questa radicalizzazione può essere spiegata in molti modi diversi: rafforzamento della religione, ragioni di sicurezza, demonizzazione del nemico arabo. Anche nel precedente governo, la maggior parte della società israeliana non voleva vedere la Lista Araba Unita nel governo. Ecco perché ritengo che siano insensate le dichiarazioni dei leader dell’opposizione secondo cui “con mezzo seggio [della Knesset] qui e mezzo seggio là, avremmo vinto”.

Il populismo vince quando la società è matura per accoglierlo. La società israeliana era matura per ricevere l’attuale governo. Non per la vittoria del Likud, ma perché l’ala più estrema ha trascinato tutti dietro di sé. Ciò che una volta era estrema destra oggi è centro. Idee che un tempo erano ai margini sono diventate legittime. Come storico che si occupa di Olocausto e nazismo, è difficile per me dirlo, ma oggi ci sono ministri neonazisti nel governo. Non lo si vede da nessun’altra parte – né in Ungheria, né in Polonia: ministri che, ideologicamente, sono razzisti puri.

Quello a cui assistiamo oggi è una specie di genio che sta uscendo dalla bottiglia e non sono sicuro che possa essere fermato. Non mi vergogno a dire che ho paura. Penso che una manifestazione di 100.000 o 200.000 persone non servirà a nulla. Se due milioni di persone non si sollevano ora e non lottano per la democrazia, per il liberalismo, la conclusione sarà che la società israeliana accetta ciò che sta accadendo. Che è già arrivata a questo punto.

https://www.haaretz.com/israel-news/2023-02-10/ty-article-magazine/.highlight/israels-government-has-neo-nazi-ministers-it-really-does-recall-germany-in-1933/00000186-3a49-d80f-abff-7ac9c7ff0000

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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