di Gideon Levy,
Haaretz, 22 gennaio 2023.
Ancora una volta non sono andato a Piazza Habima, o a Kaplan Street, per unirmi alle manifestazioni. Le mie gambe non mi ci hanno portato e il mio cuore mi ha impedito di prendere parte a una protesta che è ampiamente giustificata, ma che non è la mia protesta.
Una manifestazione coperta da un mare di bandiere bianche e blu, come se volesse dar prova di sé e proteggere i suoi partecipanti, mentre le bandiere degli altri abitanti di questa terra sono proibite o raccolte in un ghetto stretto su un cumulo di terra ai margini della piazza, come nella manifestazione precedente, non può essere la mia manifestazione. Una manifestazione tutta ebraica, di una sola nazione, in uno stato chiaramente binazionale, non può essere una manifestazione per chiunque cerchi l’uguaglianza o la giustizia, che sono tra le parole chiave di questa protesta, ma che riecheggiano vuote al suo interno.
Vuoto è il discorso di “libertà, uguaglianza e governo di qualità” degli organizzatori di una manifestazione a Tel Aviv; non meno vuoto è il discorso di “lottare per la democrazia” di quelli dell’altra. Non c’è e non ci sarà mai “libertà, uguaglianza e governo di qualità” in uno stato di apartheid, né si può “lottare per la democrazia” quando si chiude un occhio sull’apartheid.
Alcuni ebrei di questo paese sono ora indignati di fronte a una minaccia concreta ai loro diritti e alla loro libertà. È positivo che siano stati coinvolti in un’azione civile, ma i loro diritti e la loro libertà, anche se saranno ridotti, rimarranno quelli dei privilegiati, dell’innata supremazia ebraica. Coloro che acconsentono a questa supremazia, con le parole o con il silenzio, rendono vano il nome della democrazia. Il silenzio su questo è silenzio sull’apartheid. Non si può partecipare a queste dimostrazioni di ipocrisia e di doppi standard.
Il mare di bandiere israeliane in queste manifestazioni è inteso come una risposta alla messa in discussione da parte della destra della lealtà e del patriottismo dei dimostranti. Noi siamo sionisti, quindi siamo leali, dicono i dimostranti. I palestinesi e gli arabi israeliani possono aspettare fino a quando non avremo finito le cose tra di noi. È vietato mescolare le questioni –come se fosse possibile non mescolarle. Ancora una volta, il centro e la sinistra si prostrano davanti alle accuse della destra, borbottando le loro scuse; riaffermare la purezza della bandiera li ha preoccupati ancor più delle accuse.
Ancora una volta, questo campo dimostra di escludere i palestinesi e la loro bandiera non meno di quanto faccia la destra. Come si può partecipare a una manifestazione del genere? Non c’è e non ci può essere una manifestazione per la democrazia e l’uguaglianza, per la libertà e persino per un governo di qualità, se si resta in un sistema di apartheid in uno stato di apartheid, continuando a ignorare l’esistenza dell’apartheid.
La bandiera è stata scelta come simbolo perché è una protesta sionista, ma non può essere una manifestazione sionista per la democrazia, e neanche una manifestazione giusta. Un’ideologia che scrive sulla sua bandiera la supremazia di un popolo su un altro non può predicare la giustizia se prima non cambia le basi della sua ideologia. La Stella di Davide sta affondando, come ha dimostrato in modo così straziante l’illustrazione di copertina della rivista ebraica Haaretz di venerdì 20, ma il suo affondamento è inevitabile finché la bandiera di Israele sarà la bandiera di uno dei due popoli che hanno una pretesa su questa terra.
Il sangue palestinese è stato versato come fosse acqua negli ultimi giorni. Non passa giorno senza che vengano uccisi degli innocenti: un insegnante di ginnastica che cercava di salvare una persona ferita nel suo cortile; due padri, in due luoghi diversi, che cercavano di proteggere i loro figli, e un figlio di 14 anni di rifugiati – tutto in una settimana. Come può una protesta ignorare tutto questo, come se non stesse accadendo, come se il sangue fosse acqua e l’acqua fosse pioggia benedetta, come se non avesse nulla a che fare con il volto del regime?
Provate a immaginare cosa succederebbe se gli ebrei venissero attaccati ogni giorno o due. La protesta li avrebbe forse ignorati? L’occupazione è più che mai lontana dal terminare; ormai è diventata solo una mosca fastidiosa che deve essere messa a tacere. Chiunque ne parli è un disturbatore che deve essere tenuto lontano; persino la sinistra non ne vuole più sentirne parlare.
“Fermate il colpo di stato”, recitano gli annunci, con un pathos che sembra preso dalla Rivoluzione Francese. Ma non c’è rivoluzione in uno stato di apartheid, se tale continua ad essere. Anche se tutte le richieste dei manifestanti venissero realizzate, la Corte Suprema portata in trionfo, il Procuratore Generale esaltato e il ramo esecutivo restituito alla sua legittima statura, Israele rimarrà uno stato di apartheid. Qual è dunque lo scopo di questa protesta? Quello di permetterci di gioire ancora una volta di essere “l’unica democrazia del Medio Oriente”.
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
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Tel Aviv è come Miami, una selva di grattacieli affacciata sulla spiaggia e sul mare blu. Niente di più estraneo alla vera Palestina, quella della Gerusalemme arabo-turca-cristiana, quella di Nablus, di Betlemme, di Hebron. E niente di strano che la manifestazione di Tel Aviv abbia ignorato quello che accade alle sue spalle, a poche decine di chilometri di distanza, perché, come scrive il poeta americano Robert Frost
La gente che sta in spiaggia
non si guarda attorno.
Girate le spalle alla terra
guarda il mare tutto il giorno.
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Per poi concludere:
Non può vedere lontano
non può vedere in profondo,
ma quando mai ciò l’ha distolta
dal guardare ancora una volta?
Se gli ebrei che hanno manifestato a Tel Aviv sapessero vedere lontano e in profondo si accorgerebbero non solo di vivere in un paese coloniale e razzista, ma di esserne parte integrante e corresponsabile.