Elezioni in Israele: 5 spunti di riflessione

Nov 3, 2022 | Notizie

di Patrick Kingsley,

The New York Times, 3 novembre 2022.  

Benjamin Netanyahu sembra pronto a prendere di nuovo il potere. Ma a prescindere dal suo destino, le elezioni hanno già messo in luce diverse tendenze che potrebbero avere un effetto duraturo su Israele.

Benjamin Netanyahu a Gerusalemme martedì. Netanyahu sembra pronto a riprendere il potere dopo le elezioni israeliane. Amit Elkayam per il New York Times

GERUSALEMME – I risultati della quinta elezione israeliana dal 2019 non saranno confermati fino a venerdì, ma il voto mostra già profondi cambiamenti politici e sociali in Israele.

Se i risultati attuali dovessero confermarsi, Netanyahu rientrerà in carica alla guida di uno dei governi più di destra della storia di Israele.

Ma anche se i cambiamenti dell’ultimo minuto dovessero trasformare il suo vantaggio in uno stallo, l’elezione rappresenta comunque un trionfo per i suoi alleati di estrema destra, un disastro per la sinistra israeliana, un pericolo per la minoranza palestinese di Israele e un segno di profondo disaccordo tra gli ebrei israeliani sulla natura dell’identità ebraica del Paese.

Ecco cinque spunti di riflessione.

Itamar Ben-Gvir, a sinistra, importante alleato di Netanyahu e leader del partito Jewish Power, martedì a Gerusalemme. Corinna Kern/Reuters

L’estrema destra è stata integrata tra le correnti principali.

Itamar Ben-Gvir, uno dei principali alleati di estrema destra di Netanyahu, un tempo trovava spazio solo ai margini della società israeliana. Gli è stato impedito di prestare servizio nell’esercito israeliano perché considerato troppo estremista. È stato condannato più volte per accuse quali incitamento al razzismo e appartenenza a un gruppo terroristico. Fino all’anno scorso, ha ripetutamente fallito l’elezione al Parlamento.

Oggi, la sua alleanza di estrema destra è destinata a diventare il terzo blocco parlamentare e il secondo della coalizione di Netanyahu. Ciò darà slancio agli obiettivi dell’alleanza di ridurre i poteri di controllo dei parlamentari e di dare ai politici un maggiore peso sulla nomina dei giudici, ponendo le basi per ordire una crisi costituzionale.

Ben-Gvir vuole anche garantire l’immunità legale ai soldati israeliani che sparano ai palestinesi, deportare i rivali che accusa di terrorismo e porre fine all’autonomia palestinese in alcune parti della Cisgiordania occupata.

Un manifesto elettorale dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu a Ramat Gan, in Israele. Avishag Shaar-Yashuv per il New York Times

È in palio l’identità israeliana.

In un certo senso, le elezioni sono state ancora una volta un referendum sull’adeguatezza personale di Netanyahu alla carica di premier.

Ma la campagna elettorale è stata anche un dibattito sull’identità israeliana e sulla misura in cui Israele debba essere definito dalla sua ebraicità. Il governo uscente ha evidenziato la diversità di Israele: era formato da otto partiti ideologicamente diversi, tra cui il primo partito arabo, riuniti in una coalizione per governare Israele, e ha suscitato la speranza di una più profonda collaborazione arabo-ebraica in futuro.

Ma il blocco di Netanyahu ha presentato questo progetto come una minaccia al carattere ebraico e alla sicurezza di Israele e ha affermato che, se avesse vinto, avrebbe contribuito a riaffermare il primato ebraico.

“Oggi è la battaglia fatidica, la lotta tra uno Stato ebraico o uno Stato israeliano”, ha dichiarato martedì Aryeh Deri, leader di un partito ultraortodosso nel blocco di Netanyahu. “Chiunque voglia uno Stato ebraico dovrebbe svegliarsi e votare”.

Il primo ministro Yair Lapid a Hod Hasharon, Israele, martedì. Avishag Shaar-Yashuv per il New York Times

La sinistra israeliana è nelle condizioni peggiori di sempre.

Un tempo forza dominante della politica israeliana, la sinistra laica israeliana è in declino da decenni. Ma raramente ha avuto un risultato peggiore di quello di martedì, quando i laburisti – un tempo il principale partito di governo – hanno ottenuto circa il 3,5% dei voti, superando a malapena la soglia necessaria per entrare in Parlamento. Meretz, un bastione del movimento pacifista israeliano, sembra abbia mancato del tutto di superare la soglia.

Ciò lascerebbe alla sinistra ebraica solo cinque seggi in un Parlamento da 120 posti. E si ridurrebbe ulteriormente la minoranza di legislatori favorevoli a uno Stato palestinese, a testimonianza di come la soluzione dei due Stati – ancora oggetto di discussione tra i diplomatici e i leader stranieri – non sia più considerata un’opzione seria, tanto meno sostenuta, da gran parte della società israeliana.

Votazioni nella città araba di Taibeh, in Israele, martedì. Avishag Shaar-Yashuv per il New York Times

Anche la minoranza araba di Israele è divisa.

Se gli ebrei di Israele sono divisi, lo è anche la sua minoranza araba, che costituisce circa un quinto della popolazione complessiva di circa nove milioni di persone. Questa elezione ha messo in evidenza come gli israeliani palestinesi siano in netto disaccordo sulla misura in cui dovrebbero partecipare alla società israeliana tradizionale.

Gli elettori arabi si sono divisi tra coloro che sostengono il coinvolgimento degli arabi nel governo di Israele, anche se questo li costringe a minimizzare il loro carattere palestinese, e coloro che lo rifiutano.

Almeno 170.000 persone hanno votato per il Raam, un partito islamista che l’anno scorso ha infranto un tabù entrando nel governo ora uscente, primo partito arabo indipendente a farlo nella storia di Israele. Almeno 130.000 hanno votato per Balad, un partito nazionalista palestinese che ha visto la decisione del Raam come un tradimento, e almeno 150.000 per Hadash-Ta’Al, un’alleanza arabo-ebraica che ha escluso di entrare nel governo ma che prenderebbe in considerazione la possibilità di sostenerlo in caso di voto di sfiducia.

Elettori che votano a Gerusalemme, martedì. Amit Elkayam per il New York Times

Gli elettori israeliani sono resilienti.

Alla vigilia della quinta elezione israeliana in meno di quattro anni, gli analisti si aspettavano che l’affluenza alle urne diminuisse a causa della stanchezza degli elettori. La campagna elettorale è stata breve e poco incoraggiante e i numeri dei sondaggi sono cambiati a malapena nel periodo precedente il voto, suggerendo una mancanza di impegno da parte degli elettori.

Invece, l’affluenza alle urne ha superato il 71%, il livello più alto dal 2015, sei elezioni fa, in quanto gli elettori sono apparsi motivati a porre fine una volta per tutte al ciclo continuo di elezioni. Per gran parte della giornata, il tasso di affluenza è stato superiore a quello di qualsiasi altra elezione dal 1999, anche se c’è stato un calo alla fine della giornata. Anche gli arabi israeliani hanno votato più del previsto, superando il 50% dopo aver temuto che avrebbe votato assai meno della metà.

“Questo dimostra una certa resilienza degli israeliani”, ha dichiarato Mitchell Barak, sondaggista e analista politico. “Stiamo uscendo di nuovo in campo, stiamo votando e i politici non ci faranno stancare”.

Patrick Kingsley è il capo ufficio di Gerusalemme e si occupa di Israele e dei territori occupati. Ha lavorato in oltre 40 Paesi, ha scritto due libri e in precedenza si è occupato di migrazione e Medio Oriente per il Guardian. @PatrickKingsley

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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1 commento

  1. Sebastiano Comis

    L’identità israeliana, già configurata nella dichiarazione Balfour, si è via via sempre meglio definita fino a diventare legge nel 2018. Oggi possiamo dire tranquillamente che Israele non è uno stato, è un ghetto ebraico.
    Quanto agli arabi israeliani avrebbero tutto l’interesse di presentarsi come un unico partito, quello dell’eguaglianza, e a votarlo in massa. Invece si presentano disuniti e non vanno neanche a votare. Vien voglia di dire: peggio per loro.

    Rispondi

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