di Amira Hass,
Internazionale 1483, 21 ottobre 2022.
Da decenni Israele porta avanti un piano per appropriarsi della terra palestinese. I suoi strumenti sono gli insediamenti coloniali, la violenza e la sottomissione
La frequenza con cui si susseguono le elezioni in Israele contrasta con la continuità della sua politica in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Cioè la suddivisione, fin dall’inizio dell’occupazione nel 1967, del territorio palestinese in tante piccole enclave, ognuna circondata e isolata dalle altre dal maggior numero possibile di insediamenti abitati solo da coloni ebrei. Questi blocchi sono sempre più estesi e collegati a Israele da una rete di strade in continuo sviluppo.
La distruzione dello spazio palestinese è il vero intensificarsi dello scontro, il più importante. È una situazione permanente, data per scontata in tutti i piani israeliani. Ogni palestinese ne è testimone e la vive personalmente. Gli israeliani la trascurano, per ignoranza, indifferenza e perché gli conviene.
Questa è la madre di tutte le escalation, su cui i diplomatici europei o statunitensi a Gerusalemme ricevono regolari aggiornamenti. Ma, sulle bocche dei loro capi in patria, si traduce in cliché come “sosteniamo il diritto di Israele a difendersi”. Anche il cinismo diplomatico sta aumentando.
I mezzi d’informazione israeliani sono ossessionati da questioni minori e transitorie, come l’ultimo sondaggio elettorale, e ripetono fino alla nausea il ritornello dei militari e dei coloni sull’aumento delle violenze a Jenin. La loro missione è evitare di occuparsi di quello che è veramente importante: la pianificata frammentazione territoriale che molti israeliani portano avanti con fredda, giuridica, chirurgica efficienza, avvolta in una sofisticata propaganda e in una religiosità affamata di possesso attentamente calcolata. La mutilazione geografica, demografica ed estetica dello spazio palestinese avviene alla luce del sole.
L’israelizzazione procede a gonfie vele. Lussuosi sobborghi immersi nel verde, annunci di case unifamiliari a prezzi accessibili, rotonde e centri commerciali che vantano un’atmosfera familiare hanno trasformato le comunità palestinesi in uno scenario bidimensionale. O le hanno nascoste dietro cancelli di ferro, bypass roads (strade costruite da Israele per collegare le colonie tra loro), vie bloccate e cartelli in ebraico che proibiscono l’accesso agli israeliani. La pianificazione territoriale di Israele vuole rendere i palestinesi un’entità ridondante e affermare l’inattaccabile superiorità degli abitanti delle colonie ebraiche, ora e in futuro.
Ogni tanto, Haaretz o il sito +972 Magazine denunciano atti di questo stupro dello spazio. Ma due o tre articoli al mese, o anche alla settimana, non riflettono la portata, il ritmo e la natura seriale del fenomeno. Per capire quanto possa essere distruttiva la pianificazione e la disciplina con cui Israele fa a pezzi il territorio palestinese, bisogna continuare a ridisegnare le linee che collegano migliaia (ho detto migliaia? sono milioni) di punti: i fatti sul campo creati da tutti i governi israeliani negli anni.
Unire i punti
Tutto comincia nel 1971 con un ordine militare che abolisce l’autorità di pianificazione delle città palestinesi (l’ordine è ancora oggi valido in circa il sessanta per cento della Cisgiordania). Si continua con l’espropriazione di terre per scopi militari e il loro successivo trasferimento agli insediamenti, in violazione del diritto internazionale; il divieto di costruzione e sviluppo per i palestinesi; strade che divorano l’ambiente; terreni agricoli confiscati (“per necessità pubbliche”) a beneficio degli insediamenti isolati; autostrade in stile californiano che collegano gli insediamenti a Israele; nuove vie asfaltate scintillanti per unire il cuore di ogni insediamento con i suoi nuovi quartieri e avamposti a diversi chilometri di distanza, che inghiottiscono altre terre dei vicini villaggi palestinesi, le loro riserve e i loro pascoli; il divieto per i palestinesi di costruire vicino a questi passaggi; e non dimentichiamo la strada di sicurezza che circonda ogni insediamento.
Si va ancora oltre impedendo ai palestinesi di accedere alle loro terre per anni, con pretesti e mezzi vari; limitando la quantità d’acqua che gli è assegnata e le trivellazioni per trovarne altra; dichiarando centinaia di ettari di campi palestinesi “terra dello stato”; assegnando gli appezzamenti solo ai coloni ebrei; creando zone di tiro per le esercitazioni militari in modo da bloccare il naturale sviluppo rurale dei palestinesi; comprando terreni con documenti falsi; trasformando case mobili in ville permanenti; bloccando le uscite dai villaggi palestinesi vicini; piantando i vigneti degli avamposti agricoli su terre palestinesi apparentemente “abbandonate”; e lasciando che gli avamposti con le greggi, ora molto di moda, divorino altra terra palestinese.
E infine ci sono le decisioni del governo di legalizzare tutto questo, e il muro di separazione, che imprigiona ampie fasce di terra palestinese fertile a ovest, dalla parte di Israele. I proprietari di questi campi possono ottenere i permessi per accedervi in determinati momenti e con grande difficoltà, ma qualsiasi israeliano può attraversarli a suo piacimento, e a volte perfino appropriarsene.
Ognuno di questi fatti deve essere collegato a tutti gli altri. Altrimenti è impossibile capirne fino in fondo il significato e le implicazioni. Sennò non si può vedere il mostro nella sua interezza.
Si possono calcolare gli ettari di terra occupati dagli avamposti di pastorizia. Si può dire quanti ettari sono stati espropriati dalle aree palestinesi, de iure o de facto. Si possono descrivere i denti dei bulldozer che sradicano uliveti antichi e nuovi. E si può misurare quasi al centimetro quanti terreni agricoli chiaramente palestinesi, con antichi pozzi e sorgenti gorgoglianti, sono stati convertiti, o stanno per esserlo, in un tesoro immobiliare per coloni ebrei o in polmoni verdi senza arabi (tranne quelli che ci lavorano). Ma bisogna continuare a unire tutti questi fatti per capire come la terra sia stata riempita di insediamenti: il blocco di Shiloh, quelli di Etzion a est, a ovest e a nord, il blocco di Reihan, l’enclave di Latrun, il blocco di Talmonim, di Ariel, di Rimonim, il blocco formato dalla città vecchia di Hebron e Kiryat Arba. A questi si aggiungeranno presto quelli della valle del Giordano settentrionale, di Shima nelle colline sudoccidentali di Hebron e il blocco di Susya nella Cisgiordania sudorientale. La lunga mano di Israele è ancora tesa.
Non c’è dubbio che la speranza (il piano) del premier Yitzhak Rabin si sia realizzato. Un mese prima di essere ucciso, nel 1995 Rabin disse alla Knesset, il parlamento israeliano, che una delle basi di qualsiasi accordo sarebbe stata “la creazione di blocchi di insediamento come Gush Katif anche in Cisgiordania”.
Gush Katif, nella Striscia di Gaza, è stato smantellato. Ma al suo posto sono nati o stanno nascendo altri insediamenti e metastasi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, innumerevoli come i granelli di sabbia su una spiaggia.
Oltre ai resoconti della stampa palestinese, organizzazioni israeliane come Kerem navot, Bimkom, Ir amim, Peace now, Emek shaveh, B’Tselem e Yesh din, nonché l’Arij, l’Istituto palestinese di ricerca applicata di Gerusalemme, forniscono una grande quantità di informazioni, segnalazioni in tempo reale e analisi approfondite. Tuttavia, chiunque non abbia vissuto questo processo o non l’abbia visto con i suoi occhi avrà difficoltà a comprendere la sua violenza distruttrice.
Avvocati, sia per conto proprio sia in organizzazioni come Haqel, l’Associazione per i diritti civili in Israele e il Centro per la difesa dell’individuo Hamoked, insieme ad attivisti palestinesi e israeliani, cercano di fermare questo stupro seriale, o almeno di lanciare allarmi. Ma queste organizzazioni sono poche e piccole, e sono sempre più perseguitate ed emarginate.
I mezzi d’informazione di destra e gli organi di comunicazione dei coloni pubblicano spesso resoconti vittoriosi su nuove conquiste immobiliari divinamente sioniste. Chi legge queste notizie considera la triturazione, la frammentazione e la compressione dei palestinesi in enclave come una redenzione, l’adempimento di un comando divino oltre che un balzo in avanti nella sua qualità della vita e nei suoi guadagni materiali.
La violenza dei coloni e la loro appropriazione di terre palestinesi, al di là di quanto si legge nei piani regolatori ufficiali, sono una parte inseparabile del sistema. La violenza è raccontata un po’ di più, perché è una storia con una trama. Tuttavia, nonostante le occasionali espressioni di sgomento, le forze della “legge” e dell’ordine hanno permesso e continuano a permettere questa aggressione sistematica, legittimandola e incoraggiandola.
Anno dopo anno
Tutto ciò avviene sotto gli occhi dei soldati, che si tengono in disparte o sparano ai palestinesi che accorrono in aiuto dei loro fratelli. Le vittime degli attacchi sono arrestate, gli aggressori ebrei sporgono denuncia, la polizia non identifica i coloni sospettati né li interroga, il caso è chiuso per mancanza d’interesse pubblico e non ci sono indagati. Succede mese dopo mese, anno dopo anno.
La violenza sionista che accompagna ogni nuovo avamposto era ed è come l’urina che un cane usa per marcare il territorio. Dopo arrivano l’esercito, gli urbanisti, il consiglio regionale degli insediamenti e gli avvocati. Si finisce il lavoro con le case mobili, seguite dagli allacciamenti all’acqua e all’elettricità e spesso con l’acquisizione di una sorgente e con il divieto per i palestinesi di accedere ai loro uliveti. Sono autorizzati ad andarci solo due volte all’anno, con un coordinamento preventivo e una scorta militare, se i coloni sono così gentili da permetterglielo.
Ma questo non è mai un confine definitivo e permanente. Altre violenze espandono ulteriormente il territorio, anche di pochi ettari alla volta. E nel processo le sacche destinate ai palestinesi sono inghiottite. Più sono piccole, dense e isolate dalle altre, meglio è.
La frantumazione va oltre il proposito di “ostacolare la creazione di uno stato palestinese”. È un abuso deliberato e istituzionalizzato nei confronti dei cinque milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (la separazione della popolazione di Gaza da quella della Cisgiordania fa parte della segmentazione territoriale). Questo abuso colpisce proprietà e reddito, tradizione e vita familiare, la possibilità di un’istruzione, i legami sociali, la libertà di movimento, qualsiasi possibilità di un futuro. Il furto istituzionalizzato e sofisticato del territorio aggredisce sia il presente sia la storia di ogni località, città, villaggio e famiglia, e danneggia la salute fisica e mentale di ogni palestinese. Il problema non è che indebolisce l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), ma che sabota inevitabilmente e intenzionalmente la vita collettiva a Gaza e in Cisgiordania.
Una volta il mondo aveva promesso che il diritto all’indipendenza e alla libertà dei palestinesi sarebbe stato realizzato. La promessa è stata tradita. Solo l’impressionante radicamento e la resilienza di queste persone hanno ostacolato un po’ il piano israeliano.
Alcuni criticano il governo uscente, in carica da un anno, dicendo che è peggio dei precedenti per quanto riguarda la politica in Cisgiordania. Denunciano l’alto numero di palestinesi uccisi dai soldati; i pogrom commessi dai coloni con il via libera della polizia, delle procure militari e dell’esercito; i piani per legalizzare gli avamposti, e così via. Questa accusa è allo stesso tempo corretta e sbagliata.
Dato che la frantumazione dello spazio palestinese è un processo pianificato e calcolato che attraversa vari governi, è naturale che ogni fase sia più sofisticata e più distruttiva della precedente e che superi qualche linea che non era stata oltrepassata prima. Si tratta di un’escalation preordinata, che avviene davanti ai nostri occhi e che l’attuale governo di centrodestra formato da Naftali Bennett, Yair Lapid e Benny Gantz non ha fermato né voleva fermare. Ma è solo un caso che l’attuale esecutivo sia responsabile di quello che è avvenuto quest’anno. Nel 2023 l’escalation continuerà; disastrosamente per noi, non c’è nessuna possibilità che il mondo si svegli ed eserciti una pressione significativa su Israele e sugli israeliani affinché la interrompano.
Promesse infrante
La distruzione e l’espropriazione non sono un’invenzione nuova; Israele ha competenza ed esperienza in questo campo. Ora sta facendo in Cisgiordania quello che ha fatto all’interno dei suoi confini riconosciuti (“la linea verde”) fin dal 1948.
All’inizio degli anni novanta, quando fu lanciato il processo diplomatico tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), l’aspettativa – da parte dei palestinesi, dei pacifisti israeliani, che una volta esistevano e ora non ci sono più, e dei paesi garanti del processo di Oslo – era che Israele interrompesse il piano di erosione e furto di terra nel 22 per cento della Palestina storica. Ma sotto la copertura dei colloqui di pace, Israele ha accelerato il processo e ha sviluppato un appetito maggiore.
In questo modo ha dimostrato l’accuratezza dell’analisi e delle rivendicazioni fatte dai palestinesi nel corso di più di cento anni: l’obiettivo e l’essenza del sionismo sono l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre e dal loro paese.
L’accordo di Oslo era formulato in modo abbastanza vago da permettere di perdere tempo in discussioni sulle date, sulle porzioni di territorio da trasferire all’autorità civile palestinese in ogni dispiegamento militare, sul collegamento tra Gaza e la Cisgiordania, sul ritorno dei palestinesi sradicati nel 1967, sulla costruzione degli insediamenti, sul diritto all’acqua e sull’economia. Data la palese disparità di potere, le interpretazioni e gli interessi della parte più forte – Israele – hanno ovviamente avuto la meglio e si sono riflessi nella politica sul campo.
Il periodo intermedio stabilito dall’accordo doveva durare cinque anni e terminare nel maggio 1999. A quel punto le parti avrebbero dovuto raggiungere un’intesa su un accordo permanente, che avrebbe dovuto essere applicato immediatamente. La leadership palestinese e i capi del partito Al Fatah, che guidava l’Olp, così come i pacifisti israeliani e i paesi arabi e occidentali, giunsero tutti alla conclusione che l’intesa permanente si sarebbe basata sulla creazione di uno stato palestinese indipendente nel territorio occupato da Israele nel 1967, nonostante l’opposizione dei leader israeliani che avevano partecipato agli accordi di Oslo, Yitzhak Rabin e Shimon Peres. La convinzione dei negoziatori palestinesi, guidati da Yasser Arafat, che Israele avesse effettivamente deciso di cambiare atteggiamento e di non appropriarsi più delle terre palestinesi occupate è oggetto di ricerca storica, psicologica e politica.
In cambio di una graduale riduzione dell’occupazione durante il “periodo intermedio”, che avrebbe dovuto terminare 23 anni fa con il trasferimento della maggior parte della Cisgiordania all’Anp, la leadership palestinese accettò di avviare un coordinamento e una cooperazione in materia di sicurezza con i principali meccanismi dell’occupazione: il servizio di sicurezza Shin bet e l’esercito. Prese provvedimenti contro esponenti del suo stesso popolo che usavano le armi o appoggiavano l’uso delle armi per opporsi all’accordo con Israele. La giustificazione era che solo l’Anp aveva il diritto di portare armi e che il coordinamento della sicurezza era essenziale per il successo della fase transitoria, e quindi per la creazione dello stato palestinese.
Da allora sono passati quasi trent’anni e la promessa contenuta nell’accordo di Oslo – cioè che i palestinesi di Gaza e Cisgiordania sarebbero stati liberati dall’occupazione israeliana – non è stata mantenuta. Ciononostante, Israele esige che il presidente palestinese Abu Mazen e i servizi di sicurezza palestinesi continuino a proteggere l’occupazione, cioè i coloni e l’esercito. E quelli obbediscono. Si è raggiunto l’apice alla fine di settembre, quando, sotto le pressioni israeliane, i servizi di sicurezza dell’Anp si sono comportati come un esercito di occupazione a Nablus e hanno arrestato un palestinese sospettato di aver sparato contro obiettivi militari e coloni israeliani.
Quale sia il vantaggio di avere armi che non fanno nulla per fermare la macchina israeliana della distruzione e dell’espropriazione e che lasciano decine di migliaia di palestinesi in balia della violenza dei coloni è una questione da affrontare in un altro articolo. Ma l’assurdità è evidente. L’esercito e lo Shin bet hanno un subappaltatore palestinese. Continuano a pretendere che questo mantenga la sua parte di un accordo scaduto da tempo e che Israele, fin dall’inizio, ha svuotato di qualsiasi rispetto dei diritti dei palestinesi, sia come singoli sia come popolo. Fino a quando gli alti funzionari di Al Fatah e i servizi di sicurezza palestinesi continueranno a collaborare con questa umiliazione israeliana? Solo il tempo lo dirà. dl
Amira Hass è una giornalista israeliana del quotidiano Haaretz. Vive a Ramallah, in Cisgiordania.
Da sapere Il bilancio più grave
– I partiti palestinesi rivali Al Fatah e Hamas hanno firmato il 13 ottobre 2022 ad Algeri un accordo di riconciliazione che apre la strada all’organizzazione delle elezioni presidenziali e legislative entro un anno. Il voto era previsto nel 2021 e sarebbe stato il primo in quindici anni, ma era stato rinviato dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen. Al Fatah e Hamas sono in conflitto dalle elezioni del 2006, vinte da Hamas ma non riconosciute dalla comunità internazionale. L’anno dopo il movimento islamista prese il controllo della Striscia di Gaza, che governa da allora, mentre Al Fatah amministra le aree palestinesi della Cisgiordania occupata.
– Il 14 ottobre il nord della Cisgiordania è stato di nuovo teatro di violenze. Due palestinesi, Abdullah al Ahmad, sulla quarantina, e Mateen Dabaya, vent’anni, sono stati uccisi durante un raid dell’esercito israeliano in un campo profughi a Jenin. Qualche ora dopo un altro palestinese, Qais Shajaeyah, 23 anni, è stato ucciso dai soldati dopo aver sparato verso una colonia a nord di Ramallah. Il 16 ottobre è morto anche Mujahed Dawood, trent’anni, ferito il giorno prima negli scontri con l’esercito israeliano in un villaggio vicino a Nablus. Negli ultimi mesi sono aumentate le violenze nel nord della Cisgiordania, soprattutto nelle zone di Nablus e Jenin, dove sono attivi gruppi armati palestinesi e dove l’esercito israeliano ha moltiplicato le operazioni in seguito ad alcuni attacchi compiuti contro israeliani a marzo e aprile. Questi raid hanno provocato la morte di più di cento palestinesi: il bilancio più grave da sette anni, secondo le Nazioni Unite.
– Il 1 novembre 2022 gli israeliani voteranno per eleggere un nuovo parlamento, dopo che a giugno il governo è caduto per disaccordi interni. Sono le quinte elezioni in meno di quattro anni.
Al Jazeera
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