PALESTINA – ATTRAVERSO CONFINI E GENERAZIONI. VOCI E STORIE DI DONNE. AHED TAMIMI, KHITAM HAMAYEL, SAWSAN SALEH

Seconda puntata delle interviste a donne palestinesi a cura di Gabriella Rossetti e Alessandra Mecozzi: Ahed Tamimi Khitam Hamayel Sawsan Saleh

palestinaculturaliberta.org, 11 ottobre 2022

Ahed Tamimi – 21 anni – studente – Nabi Saleh

Arrestata il 19 dicembre 2017 per aver reagito, dando uno schiaffo a un soldato, alle intimidazioni da parte di due militari israeliani, dopo aver saputo che il cugino di 15 anni era stato ferito alla testa durante una protesta. Condannata a 8 mesi di carcere, è stata rilasciata il 29 luglio 2018.

E’ stata a lungo sui media e sui social. Il video che la mostra di fronte a un militare israeliano è stato visto da migliaia di persone. Recentemente è perfino stata usata la sua immagine con la definizione di “ragazzina ucraina alle prese con soldato russo”!

E’ recentemente uscito negli Stati Uniti il suo libro They Called Me a Lioness: A Palestinian Girl’s Fight for Freedom, scritto con Dena Takruri

Siamo andate a trovarla nella casa dove vive con la famiglia nel villaggio di Nabi Saleh. Il padre Bassem sarà interprete, mentre la madre Nariman, anche lei attivista, si affaccenda tra soggiorno e cucina.

Nabi Saleh 28 maggio 2022 Nariman, Ahed, Bassem Tamimi

Adesso che non sei più sotto i riflettori, assediata da giornalisti e tv, quale è la tua vita?

Io continuo a lottare, in altri modi. Studio affari internazionali all’Università di Bir Zeit e voglio fare un master in un altro paese. Sto scrivendo un libro (n.d.r. una lunga intervista uscita a settembre negli Stati Uniti) dove racconto la Palestina dal punto di vista della mia esperienza, come un esempio di come vivono le persone sotto occupazione. Ma voglio scriverne un altro, proprio io direttamente. Qui nel villaggio ci sono sempre incursioni dei militari israeliani, dopo il mio rilascio hanno ucciso due persone e ferite altre.

Faccio attività nel villaggio. Essere diventata un personaggio pubblico mi ha cambiato la vita, tutti adesso mi conoscono e guardano quello che faccio. Non ho più vita privata! da un lato significa più responsabilità, ma dall’altra anche essere più sotto controllo.

Quando un mese fa ho partecipato ad una manifestazione a Bil’in (villaggio non lontano dove da anni c’è manifestazione settimanale contro il muro) la polizia mi ha riconosciuta e mi ha minacciata.”Vattene Tamimi o ti uccidiamo”. Da quando sono uscita dal carcere, anche se qui non facciamo più manifestazioni, ci sono scontri quotidiani.

Il padre (era nell’ OLP) non può trattenersi dal dire “non mi aspettavo che fosse così coraggiosa!” e anche la mamma conferma il suo orgoglio, ma dichiara la sua paura continua. Ahed è l’unica femmina di 5 figli, “i fratelli un pò l’ammirano un pò vogliono proteggerla, a volte dicono vai, a volte dicono non andare (alle manifestazioni)”, dice Nariman sorridendo.

Quali sono gli obiettivi della tua lotta? e quali le forme migliori?

Io resisto per tutta la Palestina, voglio dire che la nuova generazione la pensa diversamente da quella di mio padre. Io non ci sto ad andare in galera per un pezzo di Palestina, vogliamo lottare per tutta la Palestina storica. La leadership dell’ANP, quella generazione, ha dato tanta fiducia al diritto internazionale, ma non hanno ottenuto niente. Va cambiata la direzione politica, noi abbiamo diritto di resistere in tutti i modi, anche con le armi se serve….Io però penso che la resistenza popolare sia la forma migliore, fa partecipare molte più persone con la scelta della nonviolenza.

Io non voglio vivere con chi vuole uccidermi o con chi mi odia. Ed è mio diritto muovermi liberamente, andare a Gerusalemme…Non ho problemi con gli ebrei, se sono umani, non se imbracciano un fucile e ammazzano i miei familiari e i miei amici

Come vedi il ruolo dell’Europa?

Noi abbiamo un potere morale, ma l’Europa non lo considera, vogliono imporci certe condizioni. Vogliamo una soluzione, ma alle nostre condizioni. Noi siamo combattenti per la libertà, non vogliamo essere visti come vittime. Essere con la Palestina è una responsabilità dell’Europa, che deve ricordarsi delle sue responsabilità nell’olocausto. Invece l’Europa usa doppi e tripli standard, come vediamo con la guerra in Ucraina. “E se l’Europa non svolge un ruolo politico accanto alla nostra lotta c’è il rischio che la nuova generazione venga spinta alla violenza”, aggiunge Bassem, il padre, che dice anche che dentro Fatah e ANP ci vorrebbe una rivoluzione nella rivoluzione”..

Che cosa pensi della lotta per i diritti delle donne?

Le donne sono protagoniste nelle lotte e secondo me bisogna connettere la lotta per i diritti civili con quella nazionale che è una assoluta priorità. Lottiamo per avere giustizia, anche una giustizia sociale, non questa divisione tra ricchi e poveri. La ricchezza va redistribuita.

Murale sul Muro di separazione a Betlemme di Jorit Agoch, artista italiano – wikimedia commons

Khitam Hamayel – 30 anni – resp. di genere Ministero Agricoltura – Ramallah

Khitam Hamayel, Ramallah

Oggi Khitam ha consolidato la sua posizione come responsabile di genere nel ministero dell’Agricoltura del governo dell’Autorità Palestinese nella West Bank. Paradossalmente, questa affermazione nel suo ruolo istituzionale non le ha permesso una libertà di azione e di pensiero maggiore di quella che aveva agli inizi. Se tre anni fa doveva difendersi dagli attacchi dei colleghi del ministero e lo faceva con il sostegno di alcune delle donne che aveva messo al lavoro sui territori, oggi tra quelle stesse donne si sono create tensioni e competizioni che l’hanno isolata drammaticamente. Vede che le associazioni locali sono più libere e meno dipendenti dai donatori esterni, ma nota anche che le fratture generazionali toccano le donne come non mai nel passato. “Le madri devono ottenere il rispetto delle figlie, ma la distanza è sempre maggiore”. Lei si dice fortunata perchè i genitori l’hanno sostenuta quando, dopo pochi mesi di matrimonio (“era combinato, mi ero fidata”) ha voluto il divorzio ed è tornata a casa. Ora ha quasi trent’anni e si dice sempre più sola.

Quando si creano nuove leaders a livello locale, le donne come lei vengono sfidate. “Mi sono trovata a essere rappresentante delle istituzioni e a difendere le istituzioni, in questo caso il Ministero, dagli attacchi delle associazioni locali . . .Avevo organizzato dei seminari a Nablus per favorire incontri tra donne di base, ma la tensione era tanto alta che alla fine hanno rifiutato di venire”. Una sconfitta pesantissima da cui cerca di riprendersi senza sapere bene come fare. Ormai lo scontro si è diffuso e sta mettendo a rischio l’esistenza stessa del dipartimento di genere del ministero.

Tre anni fa avevamo incontrato insieme le donne di tre villaggi, impegnate nella produzione di zaatar (una spezia molto utilizzata in cucina) a An Nassirya, nella trasformazione del latte in un piccolo caseificio a Beit Duku e nella produzione di sciroppi, a Beit Umar. Donne diversissime per età e formazione, ma tutte tese verso quello che chiamavano “un futuro di libertà e autonomia”. Tutte intrecciavano, più o meno consapevolmente, una idea di libertà personale rispetto alla famiglia e alla comunità con quella della liberazione della Palestina.

Nel focus group dell’impresa casearia, le donne, fra i 33 e i 60 anni, raccontavano di essere entrate nel caseificio dopo aver avuto esperienze in diversi “progetti,” tutti di breve durata, perchè, dicono, “non avevamo niente per reggere a lungo se le cose non andavano subito bene”. Parlano dei loro “beni”: terre, denaro al matrimonio e anche qualche guadagno da lavoro agricolo per terzi: ma sono tutti confluiti “al marito”. “.. “Oro non ne ho mai avuto, nemmeno quando mi sono sposata, ma comprerò il mio oro quando avrò guadagnato i miei soldi”.

Per produrre lo zatar, le donne hanno occupato un terreno (piccolo, 1 dunum e mezzo) e in cooperativa coltivano le erbe necessarie: timo, origano e salvia. Nessun problema di mercato, ma altre questioni “calde”. Un insediamento ebraico vicino attira mano d’opera maschile per l’edilizia e le giovani più istruite cominciano ad andare a fare lavori agricoli “dagli ebrei”. Colpite da uno stigma etico/politico queste donne rispondono cifre alla mano: “loro” pagano 90 shekel al giorno per un orario dalle 7 alle 2 mentre i contadini palestinesi pagano meno e per un orario più lungo.

Le donne meno giovani (sopra i 40 anni, a volte madri o zie delle altre) stanno sul campo della cooperativa dello zaatar : “E’ la nostra libertà”, dicono, tutto il guadagno è reinvestito nella cooperativa”. Gli uomini (i mariti) hanno atteggiamenti ambivalenti: “Bene se vai nella cooperativa di sole donne, altrimenti non ti farei uscire di casa”, oppure “perchè non vai a lavorare per un’ impresa privata che guadagneresti di più?”. Ci sono fratelli e figli che si offrono di sostituire le donne nella cooperativa per “farle stare a casa”. Altre donne del villaggio criticano quelle che vanno fuori casa. Il personaggio principale qui è Iman, 32 anni, istruita, alfabetizzatrice volontaria, a capo della cooperativa dello zaatar. Vuole mettere insieme la libertà economica con quella culturale e sociale. Lei dice ”stare insieme e produrre sono cose che non si devono separare, altrimenti tanto vale andare dagli ebrei”. Non è sposata e ha stabilito rigide condizioni per accettare un eventuale marito.

l consigliere del Village Council propone di intestare le terre abbandonate alle donne. La motivazione è ambigua:“Questo attirerà investimenti dei donors”, però è accolta con grande favore anche se molte sottovoce commentano che è una “sbruffonata”. Per andare alla cooperativa dello zaatar le donne si alzano alle 4 del mattino: cibo da preparare, lavoro sul campo di casa (ortaggi, cactus, banane) cura di bambini e anziani e poi la cooperativa. L’orario degli uomini è di circa la metà del loro, ma la cosa è vista come una scelta di “libertà” che diventa un valore aggiunto. Andare fuori e/ma guadagnare di meno: due pesi diversi su due piatti della bilancia del proprio tempo di vita.

Khitam Hamayel è diventata “responsabile” di tutto ciò (e di molto altro ancora) come responsabile del dipartimento di genere del ministero dell’agricoltura del governo della West Bank. Ha dovuto impersonare l’autorità istituzionale in questo sempre più aggrovigliato insieme di esperienze che erano superifcialmente unificate da due elementi: l’essere donne e l’essersi organizzate in autonomia, e, in più, essere capaci di dare importanza e visibilità alle donne delle zone rurali. Non ci stupiamo se questo è diventato, forse senza che loro stesse se ne rendessero conto, un elemento di potere tale da scatenare competizione, con gli esiti di cui si è detto. Potere delle donne e anche sulle donne. Per ora, pare che non abbia funzionato la capacità di farsi rappresentare da altre e di rappresentare altre.

Ma può darsi che la storia non sia finita qui.

Sawsan Saleh – 69 anni – Association of Women’s Action for Training and Rehabilitation – Ramallah

Conosco Ruba Saleh da molti anni. Adesso vive a Bruxelles con il marito italiano che lavora al Parlamento Europeo. Mi ha sempre parlato di sua madre come di una infaticabile attivista. Per questo siamo curiose di conoscerla e intervistarla

Breve profilo

Sawsan Saleh, Association of Women’s Action for Training and Rehabilitation – Ramallah

In famiglia siamo 8 tra fratelli e sorelle e abbiamo sempre vissuto in un ambiente di attivismo. Siamo entrati nel FPLP . Io ricevevo messaggi e mi sentivo un pò “usata” dai compagni. Poi ci si è divisi, è nato il Fronte democratico, per disaccordi sugli attacchi aerei e le azioni di Leila Khaled.

Sono stata accusata dal giudice israeliano di essere una staffetta di collegamento e ho passato del tempo in carcere. Un mio fratello ha passato nel carcere di Ashkelon 17 anni. Io sono stata agli arresti domiciliari e impedita di andare nella scuola pubblica. Vivevamo a Nablus, dove ci hanno distrutto la casa.

Poi mentre andavo verso Amman, al ponte di Allenby, mi hanno ritirato i documenti. Ho frequentato l’Università in Giordania e ho avuto il passaporto giordano.

Mio marito, che ho sposato a 21 anni, era anche lui un combattente. Ho avuto un figlio in Amman e poi siamo andati in Siria (1976) e 2 figlie sono nate a Damasco. Dal 1996 sono tornata in Palestina e da allora sono stata attivista nella General Federation of Palestinian Women.

Ho lavorato nei campi profughi e mi sono molto interessata alla conservazione del patrimonio culturale, per questo nell’OLP ero nel comitato culturale e ho sempre tenuto rapporti sia con l’UNESCO che con l’ISESCO che è il corrispondente islamico.

Già nel 1994 era nata l’associazione per l’attività e partecipazione politica delle donne, quindi andavo molto in giro e ci si organizzava tra donne nei vari luoghi, compresi i campi profughi.

Data la difficile situazione economica abbiamo cominciato a costruire cooperative di donne (n.d.r. ne parla più sopra Khitam). Una per il tabacco a Jenin, un’ altra per le erbe aromatiche (menta salvia zafferano) e per fare sapone, che adesso commerciamo anche con l’aiuto di Ong italiane con esperienza. Per guadagnare qualcosa si fa di tutto: una faceva persino le kippah, con mia grande sorpresa!

Qual’è oggi la situazione delle donne in Palestina?

Il sistema patriarcale è molto pesante, con governo e fondamentalisti si va indietro. Anche quelli di Fatah sono molto conservatori e ogni venerdì in moschea si parla contro le donne. Poi vediamo che le studentesse nelle elezioni universitarie votano per Hamas: è soprattutto un voto contro Fatah.

C’è bisogno di incontrarsi vedersi parlare, mentre oggi l’informazione passa prevalentemente attraverso i social.

La nostra generazione vedeva un futuro, coltivava la speranza…Oggi la nuova generazione deve trovare nuove forme di coinvolgimento nella lotta nazionale. Molti in cerca di sicurezze si rifugiano nella religione. Hanno perfino protestato contro di noi perché abbiamo lottato per cambiare la legge sui diritti delle donne.

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