Riuscirà l’industria cinematografica israeliana a normalizzare l’apartheid?

Set 13, 2022 | Notizie

di Noam Sheizaf,

+972 Magazine, 13 settembre 2022. 

Foto illustrativa di polizia israeliana che spinge un fotoreporter in Cisgiordania. (Oren Ziv/Activestills)

Negli ultimi anni, lo sforzo di Israele di cancellare la Linea Verde e di normalizzare il suo controllo sulla Cisgiordania occupata è andato a tutta velocità. Come parte del suo progetto di rebranding, il nord della Cisgiordania è stato commercializzato come la Toscana israeliana, ricca di micro-cantine e bed and breakfast; i bambini delle scuole sono stati portati in visita alla Grotta dei Patriarchi e all’insediamento ebraico di Hebron; Habima, il teatro nazionale israeliano, sta allestendo spettacoli in sale di nuova costruzione negli insediamenti; e l’Università di Ariel, nel cuore della Cisgiordania, è stata accettata nel Comitato israeliano dei capi universitari.

Il mese scorso, il Ministero dell’Istruzione ha persino proibito al Comune di Tel Aviv di utilizzare mappe scolastiche che mostrano il confine tra “Giudea e Samaria” (il nome biblico utilizzato per descrivere la Cisgiordania nel discorso israeliano moderno) e il resto dello Stato.

Naturalmente, questi sforzi sono diretti ai cittadini israeliani, mentre escludono i residenti palestinesi della Cisgiordania. È come se le strade e le autostrade su cui viaggiano gli israeliani in Cisgiordania, che aggirano le città e i villaggi palestinesi, fossero diventate una metafora di qualcosa di più grande: la capacità di mantenere una società prosperosa ignorando milioni di persone – soggette a un regime militare – che sono tenute senza diritti dietro muri e recinzioni in una realtà simile a una prigione. La natura civile di questo sforzo dimostra come il cancro dell’occupazione si sia diffuso in ogni angolo della società; nessuno è immune.

Alcuni momenti sono particolarmente grotteschi. Alcuni mesi fa, i capi dell’industria cinematografica israeliana si sono recati in Cisgiordania per il primo Samaria Film Festival. Il Ministro della Cultura israeliano Hili Tropper, un ex membro del Partito Laburista che ha cambiato casacca allineandosi col Ministro della Difesa Benny Gantz, ha annunciato sul palco che il festival per soli ebrei rappresentava il pluralismo della società israeliana. Nel frattempo, Moshe Edri, uno dei nomi più importanti dell’industria cinematografica israeliana, ha promesso di portare i Premi Ophir – gli Oscar israeliani – in Cisgiordania.

La star della serata è stato il capo del Consiglio Regionale della Samaria, Yossi Dagan. Dagan, un politico con ottimi legami con la destra evangelica negli Stati Uniti, ha trascorso gli ultimi anni a guidare la normalizzazione culturale ed economica dell’occupazione. Tre anni fa, ha convinto il governo guidato dal Likud a lanciare il Samaria Film Fund, che finanzia e promuove le produzioni cinematografiche in Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono nell’area è vietato fare domanda al fondo, poiché solo i cittadini israeliani possono ricevere finanziamenti dalle casse del governo. Durante un incontro Zoom tenuto dal Forum Israeliano dei Documentaristi (di cui faccio parte), il fondo è stato presentato, tra l’altro, come una potenziale fonte di sovvenzioni.

In seguito a questi sviluppi, un gruppo di registi ha distribuito una lettera in cui si impegna a non prendere denaro dal Samaria Film Fund, né a partecipare a eventi o attività diretti alla normalizzazione dell’occupazione. “Il Samaria Fund [è] parte integrante dei meccanismi dell’apartheid”, si legge nella lettera. “Nell’attuale realtà dell’occupazione e di uno srisciante processo di annessione, bisogna stabilire un confine.”

La lettera iniziale ha raccolto 140 firme, tra cui quelle di alcuni dei più famosi registi israeliani, come Ari Folman (Valzer con Bashir), Rachel Leah Jones (Advocate), Guy Davidi (Five Broken Cameras), Nadav Lapid (Il ginocchio di Ahed), Keren Yedaya (Or) ed Eran Kolirin (Band’s Visit). Da allora, il numero è cresciuto fino a quasi 400. L’intera lettera e l’elenco dei firmatari si può trovare a questo link.

Dagan, che è anche a capo del Samaria Film Fund, ha accusato i firmatari di razzismo nei confronti di “mezzo milione di israeliani che vivono in Giudea e Samaria”. Diverse decine di membri dell’industria cinematografica e televisiva hanno firmato una contro-petizione. Il Ministro della Cultura Tropper ha risposto alla lettera protestando per la commistione tra politica e arte. “Il Samaria Film Fund opera secondo le leggi dello Stato”, ha dichiarato Tropper.

Tropper ha ragione. In Israele, l’occupazione è “normale”, “non politica” e ha a che fare con “i diritti di mezzo milione di ebrei”. Nel frattempo, qualsiasi opposizione ad essa è considerata nel migliore dei casi politica e nel peggiore razzista (o, se diretta dall’estero, antisemita). Lottare contro questo inquadramento distorto è uno dei compiti più urgenti in Israele. La lettera dei registi ha registrato un breve successo quando improvvisamente il mondo culturale israeliano è stato costretto a discutere dell’occupazione.

La cultura è politica, e lo è sempre stata. In una realtà di controllo militare permanente su milioni di persone, gli israeliani (insieme a tutti coloro che si impegnano nella società israeliana) devono confrontarsi con i modi in cui ognuno di noi è complice dell’occupazione – così come con le molte opportunità che la nostra posizione privilegiata ci offre per resistere. La mia speranza è che la lettera dei registi sia più un inizio di qualcosa di nuovo che una fine.

Noam Sheizaf è un membro del gruppo che ha redatto la lettera dei registi. Il suo nuovo documentario, “H2: The Occupation Lab”, è stato presentato in anteprima al Docaviv International Documentary Film Festival 2022.

https://www.972mag.com/edition/israel-film-occupation-apartheid/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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