AssopacePalestina ringrazia Rania Hammad per la recensione del filmdoc di Marwah J’bar Tibi che abbiamo proiettato alla Casa Internazionale della donna a Roma alla presenza della regista, un ringraziamento particolare ad Al Jazeera per la produzione del film e la per la gentile concessione.
Luisa Morgantini
di Rania Hammad
Il film “Bride Dress”, 2019, della regista palestinese Marwah Jbara Tibi appena proiettato a Roma, alla
Casa Internazionale delle Donne, e promosso da Assopace Palestina e il gruppo “Ya Amar, per la
rigenerazione del patrimonio culturale palestinese in Italia”, è stato accolto con entusiasmo ed ha
ottenuto un enorme successo.
Il film è stato molto apprezzato, non solo per la sua bellezza cinematografica che permette allo
spettatore di entrare nella realtà e nei personaggi grazie alla spontaneità delle scene quotidiane, ma
per la sua attualità (vista la nuova legge israeliana sul ricongiungimento familiare-
https://ilmanifesto.it/sposi-palestinesi-e-israeliani-separati-per-legge/). Coinvolgente il suo messaggio
di speranza che vede l’amore trionfare sull’apartheid. Il film mostra ciò che più contraddistingue il
popolo palestinese, e cioè la sua resilienza (sumud) di popolo che rimane unito nonostante le divisioni
imposte dai muri, dai posti di blocco e dalle leggi, in una terra dove si resiste e si vince, nell’ amore e
nella vita.
Il film ha ottenuto importanti riconoscimenti ed è stato premiato come miglior documentario
lungometraggio dal Festival del Film sui Diritti Umani di Rabat, e dal Florence Film Festival.
La regista palestinese, con cittadinanza israeliana, è stata ospite in numerosi festival internazionali e
anche il suo film “Abbas 36” ha suscitato grande interesse. Ha vinto come miglior documentario al
festival internazionale del cinema d’arte di Berlino e d è stato premiato al Toronto International
Women’s Festival.
Colpisce la sua capacità di valorizzare il ruolo delle donne nella società palestinese, mostrandole forti
e determinate, protagoniste del proprio destino.
Nei suoi film e documentari presenta in modo efficace la difficile vita dei palestinesi che vivono in
Cisgiordania, Gerusalemme Est e a Gaza ma anche quella dei palestinesi del 1948, quelli che Israele
chiama Arabi di Israele, che mantengono tuttavia radicata la loro identità palestinese all’interno dello
Stato israeliano nonostante siano discriminati in quanto non ebrei e trattati come cittadini di seconda
categoria.
In “Bride Dress” Marwah Jbara Tibi riprende le sue protagoniste mentre ripetono e sottolineano che il
popolo palestinese è uno solo, anche se diviso geograficamente dentro e fuori la Palestina, da linee
tracciate nella sabbia, nonché da leggi discriminatorie. Rimangono uniti come popolo e non
permettono a nulla di affievolire o indebolire la loro dignità e indistruttibile identità nazionale.
La storia parla di due donne alle prese con i preparativi dei loro matrimoni, momenti allegri e di festa,
di rituali e tradizioni, con l’addio al nubilato e la serata dell’henne’, la preparazione della cena con
lunghe ore e mani instancabili a riempire foglie di vite: la condivisione tra donne che cucinano insieme
e chiacchierano della normalità dei progetti di vita di una coppia innamorata e delle anormalità vissute
dai palestinesi sotto l’occupazione e l’apartheid.
Ciò che accomuna le due donne, è la scelta dello stesso vestito, noleggiato in un negozio di abiti
tradizionali, il Palestinian Heritage Center della nota Maha Sacca a Betlemme, e la drammaticità della
loro situazione. Nessuna delle due infatti ha diritto ad avere un matrimonio sereno, privo degli ostacoli
causati dalla occupazione e relativi soprusi, invece che in piena libertà e con spensieratezza. Il film
racconta come le storie di due donne si somigliano a causa del crudele impatto dell’occupazione
israeliana sulle loro vite, che nega loro la serenità nel più importante passo della loro vita.
A guardare il film ci si immedesima nelle grandi emozioni e sentimenti degli sposi e delle famiglie,
tipici di un matrimonio. Si lascia la propria culla e il calore della propria famiglia per unirsi ad un’altra
persona e crearne una nuova. Come sempre l’euforia si mescola al senso di nostalgia nel lasciare la
propria casa. Ma per i/le palestinesi a queste emozioni si aggiungono quelle di un senso più ampio di
incertezza e instabilità dovute alla condizione di esseri umani sotto la continua minaccia di una
ingiusta occupazione.
Una sposa si ritrova a celebrare la sua festa da sola, con il fidanzato che la guarda nello schermo di
un cellulare all’interno di un carcere israeliano. Non è un criminale, ma un prigioniero politico in una
terra che usa la detenzione amministrativa per schiacciare la lotta per i diritti umani.
L’altra sposa vive con ansia e preoccupazione il suo momento di gioia perché il suo futuro marito
potrebbe non essere presente al suo stesso matrimonio! Israele infatti non gli concede il permesso di
andare da Alkhalil (Hebron) a Nassra (Nazareth), cioè dalla Cisgiordania occupata alla città
palestinese dentro Israele.
Qui sta il cuore del dramma: un popolo diviso dalla creazione dello Stato di Israele, dove l’amore
viene ostacolato dalle leggi che non permettono ad un palestinese di spostarsi all’interno della sua
stessa nazione. Alla fine, lo sposo entra illegalmente e passa il posto di blocco israeliano dentro al
baule dell’automobile insieme ad un paio di amici. La sua famiglia però non c’è: sarebbe stato per
loro troppo rischioso. E così per questa coppia di innamorati l’apartheid significa fare due matrimoni,
uno con la famiglia di lei senza la famiglia di lui e l’altro viceversa. Momento emblematico della
situazione, raccontato con ironia e intelligenza.
Il messaggio finale è il trionfo dell’amore e il sentimento di unità di popolo. Un popolo unico, che con
sorridente ed efficace determinazione affronta i muri, i checkpoints e le leggi razziste pur di realizzare
il proprio sogno individuale e collettivo.
Rania Hammad e fondatrice del progetto ‘Ya Amar’ per la rigenerazione del patrimonio culturale
palestinese.