ARCHEOLOGIA E POLITICA. Il caso di Silwan a Gerusalemme

di  redazione | 20 Gen 2022 | CulturaDocumentiIn evidenzaMedioriente

Pagine Esteri, 20 gennaio 2022 (le foto sono di COSPE ONLUS)

Le attività archeologiche condotte da EL’AD a Silwan sono molteplici ed includono anche gli scavi archeologici portati avanti nel sottosuolo, in particolar modo sotto la strada principale di Wadi Hilweh, arteria principale utilizzata sia dai palestinesi sia dai coloni israeliani per accedere al quartiere di Silwan.

LA STRADA DEI PELLEGRINI: QUANDO GLI SCAVI ARCHEOLOGICI METTONO A RISCHIO LA VITA DEI PALESTINESI

Gli scavi si sviluppano su tutta la collina, partendo dalle mura della città vecchia, proseguendo fino alla vallata di Silwan e percorrendo quella che EL’AD chiama la “Strada dei pellegrini”, di epoca romana costruita durante il periodo del Secondo Tempio.  Gli scavi, iniziati nel 2019, hanno anche avuto il sostegno dell’ex Ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, che ha presenziato all’inaugurazione degli scavi.

Come sostenuto, tuttavia, da Emek Shaveh, un’organizzazione israeliana impegnata sul tema della depoliticizzazione dell’archeologia, non vi è alcuna evidenza storica che tale strada sia effettivamente la strada che veniva utilizzata dai pellegrini ebrei per recarsi al Tempio.

Se da una parte è quantomeno parziale la narrazione che viene data da EL’AD a proposito di questo luogo, dall’altra vi è anche un problema metodologico circa la tecnica orizzontale degli scavi utilizzata da EL’AD. Tale metodologia, infatti, viene rifiutata dalla comunità internazionale degli archeologi, in quanto gli scavi dovrebbero essere condotti in verticale.

Ma la vera problematica collegata agli scavi realizzati da EL’AD riguarda soprattutto il loro impatto sulla vita degli abitanti palestinesi di Silwan. Le case palestinesi, situate lungo il percorso degli scavi, infatti, hanno subito importanti danni da quando i lavori archeologici sono iniziati.

Secondo un’indagine condotta da Emek Shaveh, circa 38 strutture sulla linea degli scavi sono state danneggiate in diversa misura.

In realtà, gli scavi condotti da EL’AD si diramano dal percorso principale, andando a creare una rete di tunnel che si sviluppa anche in altri rioni di Silwan. Fahkri, infatti, ci spiega: “questi tunnel sono anche esplorativi, in quanto EL’AD sta scavando in tutta la zona alla ricerca di resti archeologici che possano essere ricondotti al regno di Re Davide e che possano quindi offrire una sorta di giustificazione della presenza israeliana nel quartiere Non ci dicono che cosa sta succedendo sotto le nostre case, sappiamo solamente che stanno scavando e che le nostre case stanno subendo danni molto gravi”.

La casa della famiglia Hamdan di Wadi Hilweh è una delle case che hanno subito e continuano a subire danni a causa degli scavi sotterranei.

“Quando EL’AD ha iniziato a scavare sotto di noi, sentivamo chiaramente i lavori, che duravano fino alle undici di sera. La nostra casa tremava, ma non sapevamo che cosa effettivamente stesse succedendo. Ci hanno solamente detto di lasciare la nostra casa perché era pericoloso continuare a viverci e ce ne siamo andati per un anno. Ma dopo un anno siamo tornati, perché non potevamo permetterci di pagare l’affitto di un’altra casa. Se non potremo più vivere nella nostra casa costruiremo una tenda, ma continueremo a vivere qui, non abbiamo altra scelta”.

I palestinesi di Wadi Hilweh, infatti, non sono stati avvertiti dalle autorità israeliane o da EL’AD circa l’inizio degli scavi e circa il motivo di tale attività, come raccontano anche altri proprietari che hanno registrato danni alle proprie abitazioni.

“E’ da tre anni che stanno scavando. All’inizio ho sentito che qualcosa stava succedendo sotto la mia casa, si sentivano i rumori e la casa tremava. Poi hanno iniziato ad apparire le prime crepe, che sono sempre più aumentate”.

Per Fakhri l’obiettivo di questi scavi è chiaro:

“Vogliono farci andare via! La municipalità di Gerusalemme ci ha detto solamente di lasciare le case perché sono pericolanti e le persone se ne sono andate per un periodo, ma abbiamo chiesto alla municipalità: perché non fermate il motivo per cui tutto ciò sta accadendo?”

“DOV’É IL DIRITTO INTERNAZIONALE?”

È questa la domanda che Fakhri ci fa e a cui sembra difficile dare una risposta.

“Ci dicono che quello che sta succedendo a Silwan è contro il diritto internazionale ed un crimine di guerra. Ma sono solo parole vuote. Nessuno fa nulla”.

A Silwan lo Stato d’Israele non utilizza solamente l’archeologia come strumento di occupazione e colonizzazione della popolazione e del territorio palestinese. Il quartiere, infatti, oltre ad avere un’alta presenza di coloni che vivono nelle abitazioni occupate, è anche sottoposto a un forte controllo da parte della polizia israeliana che protegge la presenza illegale dei coloni, provvedendo anche ad arresti indiscriminati dei cittadini palestinesi quando si verificano situazioni di tensione.

In contemporanea, le demolizioni nei rioni di Silwan continuano senza sosta. A giugno 2021 lo Stato israeliano ha ordinato a 119 famiglie di Al Bustan, tra cui quella di Fakhri, di demolire le proprie case entro 21 giorni o di pagare le spese di demolizione. Al loro posto, le autorità israeliane, in collaborazione con EL’AD, hanno intenzione di costruire un parco tematico chiamato il Giardino di Re Davide, per rafforzare anche in altri rioni di Silwan la connessione tra gli ebrei e il quartiere, sostenendo che in passato quell’area fosse il giardino dei re israeliti.

“Noi paghiamo le tasse alla municipalità di Gerusalemme, ma, a differenza dei coloni, a noi non vengono garantiti i servizi.  Ci sono pochissime scuole e aree per i bambini.

Non possiamo costruire o avere i permessi per costruire, ci vogliono solamente far andare via. Anche noi vogliamo avere dei giardini a Silwan, ma vicino alle nostre case, non sulle macerie delle case in cui viviamo con le nostre famiglie!”.

SCHEDA

IL DIRITTO INTERNAZIONALE E LA TUTELA DEI BENI CULTURALI NEI TERRITORI PALESTINESI OCCUPATI

Sebbene Israele dichiari di aver proceduto ad un’annessione de jure di Gerusalemme Est, tale atto unilaterale non trova riconoscimento nel diritto internazionale, così che il regime giuridico applicabile a tale territorio deve essere il “diritto dell’occupazione”: Gerusalemme Est deve considerarsi un territorio occupato . Conseguentemente, il quadro normativo di riferimento delle azioni compiute da Israele nel quartiere gerusalemita di Silwan sarà quello dello ius in bello, e non, invece, il diritto interno israeliano che presupporrebbe la legittima appartenenza di Gerusalemme Est allo Stato d’Israele.

Il controllo esercitato da Israele sul territorio e sulle attività archeologiche del quartiere di Silwan si traduce nell’appropriazione di fatto dei siti archeologici in un territorio occupato e viola molteplici norme del diritto internazionale.

Il diritto internazionale dei conflitti armati, infatti, include una serie di norme tanto di natura consuetudinaria che pattizia, volte a tutelare i beni culturali durante un conflitto armato, inclusi quelli di un territorio sotto occupazione militare come è il caso dei Territori palestinesi.

In primo luogo, l’appropriazione di Israele dei siti archeologici di Silwan e la loro gestione unilaterale risulta incompatibile in radice con una delle caratteristiche principali dell’istituto dell’occupazione bellica: la sua temporaneità.

L’occupazione, infatti, non conferisce alcun titolo sopra i territori occupati in favore della potenza occupante, che deve solamente amministrare temporaneamente i territori occupati. La ratio del diritto dell’occupazione, infatti, è quella di regolare la situazione contingente di un conflitto armato che, tuttavia, deve essere temporanea per tre ragioni: permettere agli abitanti del territorio occupato di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione, ricostituire l’ordine generale del sistema internazionale, ed infine mantenere la primazia del diritto, distinguendo tra la regola, ossia il principio di uguaglianza fra gli stati, e l’eccezione, ossia l’occupazione .

La protezione dei beni culturali durante una situazione di occupazione bellica si basa in primo luogo sull’articolo 56 dei Regolamenti dell’Aja del 1907 che esplicitamente proibisce ogni sequestro, distruzione o danneggiamento intenzionale dei monumenti storici e stabilisce che tali beni debbano essere trattati come fossero proprietà privata . La ratio di tale norma è quella di preservare il patrimonio culturale e religioso del territorio occupato dagli effetti dell’occupazione.

Tale disposizione è molto importante, in quanto l’articolo 46 dei Regolamenti dell’Aja del 1907 vieta l’espropriazione della terra e la confisca della proprietà privata se non in rare eccezioni .

La Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e il suo relativo protocollo predispone, inoltre, un corpus di regole che mirano, da una parte, ad assicurare una protezione generale dei beni culturali durante le ostilità (quali il divieto di attacchi contro i beni culturali e il loro utilizzo a fini bellici) e, dall’altra, a tutelare l’integrità del patrimonio culturale di un territorio occupato.

L’articolo 5 della Convenzione dell’Aja obbliga l’occupante a collaborare con le autorità dello Stato occupato alla salvaguardia ed alla conservazione dei beni culturali del territorio occupato. Inoltre, il diritto consuetudinario obbliga la potenza occupante a supportare le autorità nazionali del territorio occupato a tutelare e preservare i beni culturali . Tale collaborazione e sostegno alle autorità palestinesi risultano essere totalmente assenti a Gerusalemme Est, dove l’autorità amministrativa è quella dello Stato d’Israele.

L’articolo 9 del II Protocollo del 1999 alla Convenzione dell’Aja, inoltre, vieta qualsiasi trasferimento illecito di proprietà dei beni ed obbliga gli Stati parte a prevenire e reprimere gli scavi archeologici non autorizzati e concordati con le autorità locali .

Sebbene molti Stati non siano parte della Convenzione del 1954 e dei due relativi protocolli addizionali, la dottrina, in base ad un’analisi della prassi statale, ammette il valore consuetudinario del divieto di requisizione dei beni culturali e dell’obbligo di prevenire furti e saccheggi . Tale obbligo, inoltre, discende in via generale anche dall’articolo 43 del Regolamento dell’Aja del 1907 cui è generalmente riconosciuta natura di norma consuetudinaria e che stabilisce il dovere della potenza occupante di mantenere l’ordine pubblico.

Il cambiamento effettuato da Israele al quadro normativo applicabile su Gerusalemme Est a seguito dell’annessione di tale zona è poi in aperta violazione all’articolo 43 dei Regolamenti dell’Aja, che vieta la modifica della legislazione in vigore nel territorio occupato a meno che non sia strettamente necessario, e all’articolo 27 della IV Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, che prevede l’obbligo di garantire per le “persone protette” il rispetto delle loro consuetudini e dei loro costumi.

L’appropriazione dei siti archeologici, inoltre, può avere un impatto duraturo sul territorio occupato e sulle “persone protette”, sia secondo una prospettiva culturale, sociale e storica, sia fisicamente per l’accesso a siti archeologici e parchi .

La politica di Israele in riferimento ai siti archeologici a Silwan, mirando a rafforzare il legame dei cittadini israeliani con Gerusalemme Est, escludendo altresì l’accesso ai palestinesi, nega di fatto ai palestinesi il diritto di partecipare alla vita pubblica e a godere dei loro diritti culturali, protetti anche dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Viene leso, nello specifico, il diritto a prendere parte alla vita culturale del paese, così come stabilito dall’articolo 15 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, a cui dal 1991 Israele ha aderito, e di conseguenza è tenuto a rispettarne le norme anche nei Territori palestinesi occupati . Pagine Esteri

Puoi leggere la prima parte al link seguente https://pagineesteri.it/2022/01/20/apertura/archeologia-e-politica-il-caso-di-silwan-a-gerusalemme-1/

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