Gli attacchi ad Al-Aqsa: come Israele sta gettando i semi di una nuova rivolta

di David Hearst,

Middle East Eye, 11 maggio 2021.  

Una nuova generazione di Palestinesi sta sorgendo sotto il naso di Netanyahu e sta dicendo “quando è troppo è troppo”

Le proteste di al-Aqsa attirano Cristiani e Musulmani, laici e religiosi, nazionalisti e islamisti. Provengono da Haifa, da Giaffa e da Gerusalemme. (AFP)

Dieci anni fa, son passato per una stradina piastrellata nel quartiere di Sheikh Jarrah e sono arrivato in una stanza dove una donna anziana era seduta in mezzo a una pila di scatole e di valigie piene.

La prima cosa che ho notato di Rifqa al-Kurd è stata l’intensità bruciante dei suoi occhi. Mi ha detto che teneva i bagagli pronti perché si aspettava che la polizia l’avrebbe buttata fuori di casa e che i coloni vi si sarebbero trasferiti da un momento all’altro. Quando sarebbe successo, ha spiegato, non voleva che i suoi vestiti fossero gettati in strada. Da qui le valigie pronte.

Non sarebbe stata la prima volta, perché era già stata sfrattata nel 1948 dalla sua casa ad Haifa. Cosa la teneva lì, seduta tra i suoi palchi? Ha risposto con una sola parola: “Sumud”, che si traduce approssimativamente come ‘fermezza’.

Rifqa è morta l’anno scorso, ancora nella casa che le era stata data dal governo giordano e dall’UNWRA. Suo figlio Nabil mi ha spiegato che i coloni si sono trasferiti in un’aggiunta della casa da lui costruita, che le autorità municipali hanno definito illegale.

Nabil, un ora po’ invecchiato, ha preso il posto di sua madre mettendosi di picchetto davanti alla loro casa, il numero 13, vicino a un muro con scritto in arabo “Non ce ne andremo”. Sua figlia e la nipote di Rifqa, Mona al-Kurd, hanno filmato un video che da allora è diventato virale in cui si vedono coloni ebrei con forti accenti di Brooklyn che irrompono in casa sua: “Se non ti rubo la casa, qualcun altro te la ruberà” dice uno di loro.

Tutt’altro che finito

Quando ho incontrato la famiglia al-Kurd e ho scritto di Rifqa, nessuno ha prestato la minima attenzione a lei o a Sheikh Jarrah. Ho dovuto spiegare al mio editore dove fosse Sheikh Jarrah, ma non credo che l’abbia capito. La primavera araba era l’unica cosa di cui si parlava, e ai Palestinesi fu detto, non per la prima volta, che il loro conflitto era ormai roba vecchia.

Oggi, Sheikh Jarrah è oggetto di dichiarazioni dell’ONU, del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e di politici di ogni tendenza in Gran Bretagna. Ci sono dimostrazioni in corso a Downing Street, a Chicago e a Berlino. E Mona al-Kurd ha un pubblico online in tutto il mondo. Quindi, posso personalmente attestare un fatto che ho appurato negli ultimi giorni di caos a Sheikh Jarrah, alla Moschea di Al-Aqsa e alla Porta di Damasco: Israele non ha affatto chiuso i conti con il conflitto palestinese.

L’anno scorso, la destra religiosa nazionale di Israele ha proclamato di aver vinto questo conflitto e ha detto che, se volevano fare la cosa giusta, i Palestinesi sarebbero dovuti uscire sventolando una bandiera bianca. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha trasformato l’apertura dell’ambasciata americana in una cosa che era per metà un servizio evangelico, e per metà una parata della vittoria. “Che giornata gloriosa per Israele. Siamo a Gerusalemme e siamo qui per restare”, ha proclamato Jared Kushner alla cerimonia di apertura. A Gaza lo stesso giorno, mentre Kushner faceva la sua tirata, più di 50 persone venivano uccise dalle forze israeliane.

Poi sono arrivati ​​i cosiddetti accordi di Abramo, quando gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno normalizzato le relazioni con Israele.

In un editoriale sul New York Times e in risposta al defunto capo negoziatore palestinese Saeb Erekat, l’allora ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon scrisse: “Cosa ci sarebbe di sbagliato se i Palestinesi si arrendessero? … Un suicidio nazionale dell’attuale ethos politico e culturale palestinese è precisamente ciò che ci vuole per la pace “.

Rifqa al-Kurd con sua nipote Mona al-Kurd nella loro casa a Sheikh Jarrah (foto gentilmente fornita)

Ma se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu pensava di poter seppellire lo stato palestinese trattando con lo stato degli Emirati o del Bahrein, togliendo il Sudan dalla lista dei terroristi o facendo in modo che Washington riconoscesse la sovranità marocchina sul Sahara occidentale, ora deve rendersi conto di quanto poco ciò significava, quanto poco valessero in realtà  le sue risorse arabe appena acquisite.

Quando è troppo è troppo

Questi leader arabi non hanno credibilità con il proprio popolo, ancor meno con i Palestinesi. Aver pensato il contrario è stata la grande illusione di Netanyahu. Una nuova generazione di Palestinesi sta sorgendo sotto il suo naso, che nessuna quantità di acqua puzzola, gas lacrimogeni e granate sonore fermerà. C’è una Mona al-Kurd ad ogni angolo di strada.

Come sono arrivati ​​qui questi giovani? Chi li ha cresciuti? Chi li ha incitati?

I soldati che li arrestano di notte; i tribunali che hanno deciso che i coloni sono i veri proprietari delle loro case, o che emettono ordini di demolizione; l’autorità comunale che li esegue; La City of David Foundation, El Ad, che promuove rivendicazioni territoriali attraverso l’archeologia e gli alloggi per i coloni di Silwan; le folle di giovani ebrei di estrema destra che gridano: “Morte agli Arabi“; o il vice sindaco della città di Arieh King, che ha detto a un attivista palestinese che era un peccato che non gli avessero sparato in testa.

Questa educazione all’odio è il risultato di uno sforzo veramente multidisciplinare da parte di diverse istituzioni israeliane a tutti i livelli. È andato avanti per tutta la vita di questi giovani. Ora questa generazione sta dicendo: “Quando è troppo è troppo”. Per loro, non ha importanza quante volte la polizia israeliana abbia lanciato granate sonore contro infermieri che curano i feriti, contro i fedeli all’interno della moschea di Al-Aqsa o contro donne e bambini nelle strade della Città Vecchia.

Torneranno notte dopo notte ad Al-Aqsa. Anche senza scagliare una pietra, la loro presenza dimostra che Gerusalemme Est è sotto occupazione e lo sarà sempre fino a quando non sarà liberata dal controllo israeliano. Ma verranno lanciate anche pietre e molto altro ancora. Ci sono state grandi manifestazioni in Cisgiordania e una raffica di razzi sparati da Gaza. Martedì, 25 Palestinesi, tra cui nove bambini, sono stati uccisi in attacchi aerei israeliani contro l’enclave di Gaza. Sono morte anche due donne israeliane.

Se il presidente palestinese Mahmoud Abbas parla e si comporta come un coniglio sotto i fari abbaglianti, di fronte a un popolo su cui ha perso ogni autorità, lo stesso non vale per i Palestinesi in Cisgiordania e Gaza.

Non importa quante volte la polizia israeliana ripulirà la moschea –e ora lo ha fatto tre volte– si riempirà ancora di fedeli palestinesi (Reuters)

Caratteristiche della protesta

Ci sono tre caratteristiche che aggiungono forza a questa protesta e che dovrebbero allarmare i capi della sicurezza israeliana. La prima è che, dopo l’ultima ondata di normalizzazioni con Israele, nessun Palestinese si illude che uno stato arabo arriverà in suo soccorso, nemmeno a parole.

Questo non era il caso delle precedenti Intifade. Non ci sono più intermediari onesti. I Palestinesi sanno che stanno bene anche da soli, e che possono fare affidamento solo sulle proprie risorse.

La seconda caratteristica è che, a differenza delle precedenti rivolte, tutti i Palestinesi sono coinvolti. Quelli di Gerusalemme, della Cisgiordania, di Gaza e della diaspora. Le proteste di al-Aqsa attirano Cristiani e Musulmani, laici e religiosi, nazionalisti e islamisti. Provengono da Haifa, da Giaffa e da Gerusalemme. Se gli autobus che li trasportano vengono fermati in autostrada, i Palestinesi di Gerusalemme vengono a prenderli con le loro auto. Hanno uno status diverso secondo la legge israeliana: alcuni hanno passaporto e cittadinanza israeliana, altri hanno il permesso di soggiorno a Gerusalemme. Ma ora Israele ha vanificato tutto il lavoro che  aveva messo nella sua strategia del divide et impera. Li ha uniti tutti.

Tutti sentono lo stesso fuoco ed esprimono la stessa passione. Tutti si definiscono Palestinesi. Ognuno di loro sa qual è la posta in gioco.

La terza e cruciale differenza è che questo movimento è centrato su Al-Aqsa e Gerusalemme. La polizia israeliana potrà ripulire la moschea quante volte vuole –e ora lo ha fatto tre volte– essa si riempirà di fedeli palestinesi ancor più determinati a proteggerla perché si sentono nei panni di coloro che sono stati feriti o arrestati.

Una nuova rivolta

Scegliere Gerusalemme come luogo per dichiarare, l’anno scorso, la fine del conflitto è stato l’errore più fondamentale che Netanyahu e i coloni potevano fare. Ovviamente possono usare, e hanno usato, il massimo della forza, ma impareranno a mettere in dubbio l’utilità di farlo.

Ponendo Gerusalemme Est al centro della prossima serie di colonie e dichiarandolo apertamente e sfacciatamente, hanno acceso un incendio che può solo crescere in tutto il mondo musulmano. Ed è un incendio che non possono controllare. Nessuno lo ha espresso in modo più fiero ed eloquente di quanto ha fatto Um Samir Abdellatif, un anziano residente di una delle 28 case minacciate di sfratto a Sheikh Jarrah.

In un’intervista di lunedì con Al Jazeera, Um Samir ha detto di sapere che il mondo arabo non può fare nulla per loro. “Ma noi non ci appoggiamo a nessuno, perché resisteremo, con le nostre stesse mani, all’occupazione. A Dio piacendo, continueremo a resistere fino all’ultimo momento della nostra vita.”

“Il mio cuore si infiamma di fronte all’ipocrisia della loro affermazione che queste terre sono loro. Mentre sanno, fino all’ultima fibra del loro essere, che quello che dicono è una bugia. Questo è il sionismo, non ha nulla a che fare con l’ebraismo. La gente dice che combattiamo contro l’ebraismo, ma non è così, noi abbiamo sempre buoni rapporti con Cristiani ed Ebrei, siamo sempre stati in pace gli uni con gli altri. Ma rifiutiamo l’occupazione, la rifiutiamo, la rifiutiamo totalmente”.

Così vengono gettati i semi di una nuova rivolta.

David Hearst è co-fondatore e redattore capo di Middle East Eye. È commentatore e relatore della regione e analista dell’Arabia Saudita. Era il principale scrittore straniero del Guardian ed è stato corrispondente in Russia, Europa e Belfast. È entrato a far parte del Guardian da The Scotsman, dove era corrispondente per l’istruzione.

https://www.middleeasteye.net/opinion/israel-palestine-aqsa-sheikh-jarrah-sowing-new-uprising

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

.

Lascia un commento