di: Kamel Hawwash,
Middle East Monitor, 9 aprile 2021.
Una foto scattata il 4 marzo 2021 mostra il cosiddetto complesso italiano a Gaza che è stato gravemente danneggiato dagli attacchi aerei israeliani durante la guerra del 2014. [MOHAMMED ABED / AFP tramite Getty Images]
Il 5 febbraio i Palestinesi hanno intravisto un’uscita in fondo al tunnel e, in lontananza, un barlume di luce per la giustizia. La Prima Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale (CPI) “ha stabilito, a maggioranza, che la giurisdizione territoriale della Corte in Palestina, uno Stato parte dello Statuto di Roma della CPI, si estende ai territori occupati da Israele nel 1967″. Ora la CPI dispone della giurisdizione per indagare sui crimini che i Palestinesi sostengono siano stati perpetrati da Israele in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza. La procuratrice della Corte, Fatou Bensouda, aveva precedentemente richiesto indagini, affermando che c’erano “elementi ragionevoli per ritenere” che si fossero verificati crimini di guerra.
Le reazioni sia in Palestina che in Israele sono state quelle previste. I Palestinesi hanno accolto con favore la decisione, così come ha fatto il ministro della Giustizia palestinese, Mohammed Al-Shalaldeh, che ha definito “storica” la decisione della CPI.
“La decisione della CPI è storica e segna l’avvio immediato di indagini sulle gravi violazioni nei territori occupati palestinesi”, ha detto Al-Shalaldeh. Ha aggiunto che sono tre i fascicoli prioritari per il tribunale: la guerra israeliana a Gaza nel 2014, gli insediamenti israeliani e i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha stigmatizzato la decisione in una dichiarazione scritta. “Oggi la Corte Penale Internazionale ha dimostrato ancora una volta di essere un organo politico e non un’istituzione giudiziaria”, ha detto Netanyahu. “In questa sentenza, il tribunale ha violato il diritto delle democrazie di difendersi dal terrorismo e ha fatto il gioco di coloro che minano gli sforzi finalizzati ad allargare il cerchio della pace”, ha aggiunto.
Chi si aspettava che, una volta insediata la nuova amministrazione Biden, ci sarebbe stato un cambiamento della posizione americana, è stato prontamente deluso. Durante una telefonata con Netanyahu, la vicepresidente americana Kamala Harris gli ha confermato che gli Stati Uniti si oppongono alle indagini condotte dalla CPI su possibili crimini di guerra nei territori palestinesi.
Ciò ha fatto seguito a un annuncio del Segretario di Stato americano Antony Blinken in cui si dice che Washington “si oppone fermamente ed è profondamente delusa” dalla decisione della CPI. Blinken ha aggiunto: “Israele non fa parte della Corte Penale Internazionale e non ha acconsentito alla giurisdizione della Corte. Abbiamo serie preoccupazioni riguardo ai tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione su personale israeliano”, ha sostenuto Blinken in una dichiarazione.
Israele sarebbe risultata un po’confusa ma certamente delusa dal fatto che la stessa amministrazione americana abbia recentemente revocato le sanzioni inflitte al personale della CPI dal predecessore di Biden, Trump, nel dicembre 2020. Il team di Blinken ha dichiarato: “Questa decisione riflette la nostra valutazione che le misure adottate erano inappropriate e inefficaci.” L’amministrazione continua “a essere fortemente in disaccordo con le azioni della CPI relative alla situazione in Afghanistan e Palestina” e continua ad opporsi agli “sforzi della CPI per affermare la giurisdizione sul personale di Stati non-Parte, come gli Stati Uniti e Israele”.
Gli Stati Uniti hanno preso questa decisione [di revocare le sanzioni al personale CPI] nonostante le inchieste che potrebbero riguardare il personale militare statunitense per crimini commessi in Afghanistan. Ci si sarebbe potuti aspettare che Israele facesse lo stesso, che accettasse il fatto che la Corte Penale Internazionale è un tribunale indipendente e che la Procuratrice si è consultata scrupolosamente prima di stabilire che il tribunale aveva giurisdizione sui Territori palestinesi occupati e ha affermato che avrebbe indagato sui crimini commessi da qualsiasi gruppo, compresi quelli palestinesi, andando a ritroso fino al 2014. Tuttavia, coloro che hanno familiarità con l’atteggiamento di Israele nei confronti dei necessari controlli esterni non saranno rimasti sorpresi dal suo rifiuto formale della decisione della CPI di indagare sui crimini dei suoi leader.
Israele è chiaramente preoccupato per la decisione della CPI. A seguito di una riunione dei suoi vertici, ha deciso di inviare una lettera al tribunale per comunicare il proprio rifiuto a collaborare. Alla riunione erano presenti, tra gli altri, il Primo Ministro, il Ministro degli Esteri, il Ministro della Difesa, il Ministro degli Affari strategici, il Ministro dell’Istruzione, il Ministro dell’acqua, il Procuratore generale, il capo del Consiglio di sicurezza nazionale e il Difensore capo dell’esercito.
Israele non collaborerà con le indagini della Corte Penale Internazionale per presunti crimini di guerra e, in linea con la sua consueta posizione, sosterrà che la Corte non ha giurisdizione per aprire l’indagine. Durante l’incontro, Netanyahu ha affermato che “mentre i soldati dell’esercito israeliano combattono con estrema moralità contro i terroristi che commettono crimini di guerra ogni giorno, il tribunale dell’Aia ha deciso di denunciare Israele”. “Non c’è altra parola per questo che ‘ipocrisia’. Un organismo istituito per lottare a favore dei diritti umani si è trasformato in un ente ostile che difende chi calpesta i diritti umani”.
Nella comunicazione da inviare alla CPI, Israele sosterrà di avere una propria “magistratura indipendente” in grado di processare i soldati che commettono crimini di guerra.
I Palestinesi chiedono di dissentire da tale affermazione poiché le indagini condotte da Israele sui suoi stessi crimini non hanno reso giustizia. Prendiamo l’esempio dell’inchiesta sull’uccisione, nel 2018, di Razan Al-Najjar, paramedica palestinese di 21 anni, avvenuta in prossimità della recinzione di Gaza. Un’inchiesta israeliana ha affermato che: “durante un primo esame dell’incidente avvenuto il 1° giugno 2018, in cui è stata uccisa una donna palestinese di 22 anni, è stato riscontrato che sono stati pochi i proiettili sparati durante l’episodio e che nessun colpo è stato deliberatamente o direttamente indirizzato contro di lei”. Commentando l’indagine, l’organizzazione Al-Haq per i diritti umani ha dichiarato: “L’esame preliminare, concluso frettolosamente, evidenzia l’incapacità di Israele di condurre un’indagine indipendente, efficace e imparziale su presunti crimini di guerra”. Ha inoltre affermato: “L’esercito israeliano, di fatto, opera impunemente. Tra il 2005 e il 2009, su 800 denunce di crimini di guerra presentate, solo 49 indagini hanno portato al rinvio a giudizio.”
Non si può, quindi, fare affidamento sul fatto che Israele conduca le proprie indagini in modo imparziale e questo è il motivo per cui è necessaria un’indagine esterna. Inoltre, Israele ha la consuetudine, che risale a decenni fa, di negare l’accesso a team d’inchiesta internazionali imparziali per condurre indagini su potenziali crimini di guerra.
Nel 2002 fu negato l’accesso al campo profughi di Jenin al team di Amnesty International, incaricato di indagare su potenziali crimini commessi dalle truppe israeliane nel campo stesso. Il professor Derrick Pounder, che faceva parte del team di tre persone inviato per indagare sulle violazioni dei diritti umani, dichiarò: “Il rifiuto di consentirci di condurre o anche solo di aiutare altri a condurre tali indagini è molto serio e solleva domande sulle motivazioni delle autorità”.
Nel 2009 Israele ha negato i visti al team guidato dal giudice Goldstone, che doveva indagare su possibili crimini commessi durante la guerra di Gaza del 2008/9, costringendoli a entrare a Gaza attraverso l’Egitto. Il suo rapporto, alla fine, ha evidenziato che i gruppi armati israeliani e palestinesi erano colpevoli di crimini di guerra. Il rapporto faceva anche riferimento al fatto che ad Amnesty International, Human Rights Watch e B’Tselem era stato negato l’ingresso per svolgere le loro indagini a Gaza.
Nel 2014 Israele ha nuovamente negato l’accesso a team incaricati di indagare su potenziali violazioni dei diritti umani. Il reparto investigativo dell’UNHRC ha scoperto che sia i gruppi armati israeliani che quelli palestinesi avevano commesso crimini di guerra.
Israele ha, inoltre, impedito l’accesso a Richard Falk e Michael Link, relatori speciali delle Nazioni Unite per i territori palestinesi.
Israele ha qualcosa da nascondere? Sì, certo. Le sue violazioni dei diritti umani riempirebbero pagine e pagine di qualsiasi blocco di appunti. Che si tratti dei crimini di guerra durante i ripetuti attacchi contro la popolazione palestinese indifesa e intrappolata a Gaza, o della sua impresa di insediamento illegale, o del trasferimento della sua popolazione in aree occupate illegalmente, o del trasferimento di prigionieri palestinesi dai territori occupati al proprio territorio. E cosa dire delle demolizioni di case e degli sfratti di famiglie?
Con questi scottanti precedenti, giustizia chiede che le violazioni israeliane siano esaminate e che Israele se ne assuma la responsabilità. I suoi leader devono rispondere di persona per i loro presunti crimini di guerra e devono comparire al tribunale dell’Aia. Altrimenti, continueranno a commettere crimini, sicuri di non doverne rispondere. La ruota della giustizia deve muoversi più rapidamente, e a quel punto i criminali di guerra israeliani non potranno più dormire sonni tranquilli, credendo di poter semplicemente alzarsi la mattina e commettere impunemente altri crimini.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor
Traduzione di Daniela Marrapese – AssoPacePalestina
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