Haaretz, 9 luglio 2020
Il 1° luglio è passato senza l’annessione, così come i giorni seguenti. Forse stiamo assistendo all’evaporazione della politica più audace della destra per il conflitto israelo-palestinese, una politica che i maggiori sostenitori di Israele hanno avvisato che lo trasformerà in uno stato di apartheid. La rimozione dell’annessione dall’agenda elimina anche il pericolo dell’apartheid?
Sfortunatamente la risposta è no. Negli ultimi mesi ho studiato la questione a fondo e, in un parere legale da me redatto per il gruppo per i diritti Yesh Din, sono giunto a una demoralizzante conclusione sulla rilevanza di questo termine per descrivere il tipo di controllo esercitato da Israele in Cisgiordania. Sì, anche senza annessione.
La parola “apartheid” è usata in vari modi in differenti contesti; il significato del termine in un dibattito pubblico non è identico al suo significato nelle scienze politiche, storiche e legislative.
Nella sfera legale “apartheid” è un termine che indica un tipo di regime e un crimine internazionale. Una volta ideologia di un regime in un tempo e luogo specifici del XX secolo, apartheid è ora un termine per un reato internazionale che costituisce un crimine contro l’umanità. Il crimine di apartheid è definito in due convenzioni internazionali; una è lo Statuto di Roma, che codifica le attività della Corte Penale Internazionale dell’Aia.
Benché l’origine dell’apartheid sia storicamente legata al regime razzista del Sudafrica, è ora un concetto giuridico indipendente con una sua vita propria che può esistere senza essere basato su un’ideologia razzista. Il crimine di apartheid è definito come “atti inumani… commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altro o altri gruppi, ed al fine di perpetuare tale regime”.
In altre parole, apartheid è un regime che, usando tutti gli strumenti a sua disposizione –legge, politica, pratica– crea la superiorità di un gruppo e impone l’inferiorità a un altro, generalmente manifestata in discriminazioni istituzionali riguardanti i diritti e le risorse. Contrarimente al credo popolare, nel diritto internazionale un gruppo razziale è definito secondo classificazioni socio-politiche non biologico-genetiche, quindi la definizione comprende l’origine nazionale o etnica. Non basta imporre inferiorità a tale gruppo; una condizione per commettere il crimine è che la superiorità non sia temporanea ma intesa a essere permanente.
Quindi il diritto internazionale criminalizza “gli atti inumani” commessi contro il gruppo inferiore allo scopo di preservare su di esso il controllo del gruppo superiore. Si dovrebbero spegnere le luci, tapparsi le orecchie e chiudere le imposte per sottrarsi alla conclusione che il regime israeliano in Cisgiordania è un regime di apartheid e che l’annessione non farebbe che approfondirlo ed espanderlo.
Statistiche scioccanti
Nei passati 53 anni Israele ha tenuto la Cisgiordania in un’occupazione militare. Ogni occupazione, inclusa quella israeliana, è per sua natura un sistema di controllo forzato delle persone i cui diritti civili sono sospesi, non hanno diritto di voto, di essere elette e rappresentate in istituzioni in cui il loro futuro viene determinato.
Ma Israele ha scelto di colonizzare il territorio con i suoi cittadini; in cinque decenni e mezzo centinaia di migliaia di loro vi si sono stabiliti. Si è pertanto creata una situazione nella quale due gruppi vivono sotto lo stesso regime, uno con diritti e privilegi, potere politico e rappresentanza, e l’altro senza alcuna presenza politica nelle istituzioni che lo governano.
Il risultato è esattamente quello che il divieto di costruire insediamenti edilizi intendeva prevenire, dirottare tutte le risorse del territorio al gruppo occupante a spese della comunità occupata. Quindi, negli anni, il 99,76% delle terre pubbliche allocate dall’Amministrazione Civile di Israele in Cisgiordania è servito agli scopi israeliani, con meno di un quarto dell’1% destinato all’uso palestinese. Questa scioccante statistica è ancora più sconvolgente se si considera che, allo stesso tempo, Israele ha espropriato le comunità palestinesi di oltre un milione di dunam (centomila ettari) di terre che erano in loro uso e destinate al loro sviluppo.
Dal 1967 sono stati costruite 130 colonie (e circa altri 100 avamposti) in Cisgiordania e, a parte un quartiere per i Beduini, che furono sfrattati con la forza dall’area di Mishor Adumim, e la città di Rawabi, che Israele ha consentito all’Autorità Palestinese di costruire, non sono state create nuove località per i Palestinesi. Le comunità palestinesi in aree scarsamente popolate, su cui Israele ha messo sopra gli occhi, sono diventate il bersaglio di una politica di sradicamento portata avanti con la mancata concessione di permessi di costruzione e le frequenti demolizioni (soprattutto nelle colline a sud di Hebron, nella Valle del Giordano e nell’area di Gerusalemme).
Gli Israeliani usufruiscono di generose quote di acqua, di franchigie per estrarre risorse naturali e di accesso a sorgenti naturali, siti archeologici e riserve naturali. Insieme a tutto questo, Israele ha creato un doppio sistema giuridico nel quale una legge si applica a un Palestinese e un’altra a un Israeliano. Gli Israeliani godono di benefici e protezioni di gran parte del moderno diritto israeliano, mentre i Palestinesi lottano sotto il peso di oppressive ingiunzioni militari.
Molti atti inumani
Quindi i Palestinesi non hanno il diritto di manifestare, ma i coloni sì. Quindi un Israeliano che si trova nei guai con la legge sarà processato in un tribunale civile dove il suo diritto a un giusto processo è garantito, mentre il suo vicino Palestinese accusato dello stesso crimine sarà processato in un tribunale militare, dove i procedimenti non sono ancora condotti nella sua lingua. Quindi un Israeliano è libero di viaggiare all’estero, mentre un Palestinese necessita di un permesso dell’esercito.
Complessivamente le azioni di Israele in Cisgiordania dal 1967 forniscono una solida evidenza dell’intenzione di perpetuare il controllo israeliano sul territorio e quindi sulla popolazione che vi risiede. Se questo dovesse essere provato in un tribunale, sarebbe considerato un caso facile.
E se le azioni di Israele non fossero state sufficienti, negli ultimi anni si sono aggiunte le parole. La politica ufficiale di impegno per l’annessione, uscita allo scoperto dopo il trasferimento di Donald Trump alla Casa Bianca, manda in pezzi l’alibi che fino al 2015 fu brandito dai governi israeliani per confutare l’accusa di apartheid: Non abbiamo intenzione o desiderio di regnare sui Palestinesi, la situazione è temporanea.
Questa è sempre stata l’affermazione: non appena ci sarà un partner, negozieremo, raggiungeremo un accordo e daremo l’addio ai Palestinesi. Giusto? Sbagliato. Una volta che Israele ha iniziato ufficialmente l’impegno per l’annessione –ossia per perpetuare il suo dominio tramite la forza– ha perso questo misero alibi, che in ogni caso difficilmente potrebbe coprire tutte le sue azioni.
Apartheid fu reso un crimine così da difendere il cuore della moralità umana così come definita dopo la Seconda Guerra Mondiale, la nozione della nostra comune umanità. Un regime che nega e sovverte questa idea è un regime illegittimo che deve essere condotto alla sua fine.
Non tutti noi Israeliani siamo colpevoli del crimine di apartheid, ma siamo tutti responsabili di esso ed è nostro dovere fermare questo crimine commesso in nostro nome; dobbiamo farlo per il nostro bene, per il bene delle future generazioni e per il bene di un futuro basato sull’idea ebraica fondamentale che ogni essere umano è creato a immagine di Dio.
Michael Sfard, avvocato per i diritti umani, è il consulente legale del gruppo per i diritti Yesh Din.
Traduzione di Elisabetta Valento – AssopacePalestina