La sua fissazione sulla soluzione dei due Stati l’ha tagliata fuori dai cambiamenti avvenuti nella politica israeliana e statunitense. L’UE ha il potere di agire, ma ne ha anche la volontà?
di Robert Swift
+972 magazine, 8 marzo 2020
Se si domandasse a un politico o a un diplomatico europeo un parere sul conflitto israelo-palestinese, non passerebbe molto tempo prima che tirasse fuori le stanche parole della “soluzione a due Stati”.
Nella sua e-mail a +972, un portavoce UE che ha rifiutato un’intervista per questo articolo ha scritto: «La UE ribadisce il proprio impegno per la soluzione negoziata a due Stati, sulla base delle linee del 1967… con lo Stato di Israele da una parte e un indipendente … Stato di Palestina dall’altra, i quali vivono uno accanto all’altro in pace, sicurezza e mutuo riconoscimento». Questa risposta sarebbe stata probabilmente la stessa che avremmo ottenuto vent’anni orsono.
La politica europea in relazione al conflitto è rimasta sorprendentemente statica dall’inizio del “processo di pace” di Oslo negli anni Novanta. E questo nonostante in Israele e Palestina sia radicalmente mutata la situazione sul terreno e il contesto diplomatico.
Dall’epoca in cui la soluzione a due Stati pareva più fattibile, la politica israeliana si è spostata verso destra, come dimostrano le elezioni della scorsa settimana. Gli Stati Uniti, principale sostenitore di Israele, con l’amministrazione Trump hanno infranto senza alcun timore tutte le norme internazionali relative al conflitto; il presidente Donald Trump è evidentemente orgoglioso di gettare alle ortiche ogni regola anche per quanto concerne la politica mediorientale. All’inizio del 53° anno di occupazione senza fine, cresce il numero di quei Palestinesi che mettono ormai in dubbio la fattibilità di un accordo di pace basato sui confini del 1967.
L’Unione Europea afferma che alla base della propria politica estera ci sono diritti umani, democrazia e diritto internazionale; perché allora non modifica il suo approccio alla questione, alla luce di questi sviluppi significativi?
Secondo quanto dichiara il funzionario del Mashrek [l’insieme dei paesi arabi più orientali, n.d.tr.] Miguel Rodriguez Vidosa della EuroMed Rights, una rete di ONG impegnate per i diritti umani nella regione euro-mediterranea, «l’UE è ancora intrappolata nella propria fissazione sul paradigma dei due Stati». E aggiunge che, di fatto, i parametri di questo paradigma «subordinano il rispetto delle norme internazionali e dei diritti umani ai negoziati diretti, al processo di pace e al bilateralismo tra le due parti in causa».
La devozione per la soluzione a due Stati ha portato al distacco della politica europea dalle nuove realtà politiche che contrastano tale soluzione. A partire dal 2009 Israele è stato governato consecutivamente da tre coalizioni di destra guidate dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha fatto del prevenire l’avvento di uno Stato palestinese la pietra miliare della politica israeliana.
Anche se ora il potere di Netanyahu è messo in discussione dopo che la coalizione, alle elezioni della scorsa settimana, ha perso la maggioranza, il suo principale rivale Benny Gantz appartiene alla destra politica e non alla sinistra forte di un tempo. A ulteriore dimostrazione della virata a destra è il fatto che l’annessione di ampie zone della Cisgiordania, idea un tempo marginale, sia diventata la principale politica promossa sia dal governo israeliano, sia dalla sua principale opposizione. Parimenti, prosegue ininterrottamente la fusione tra l’economia israeliana e i progetti di insediamento e di infrastrutture in corso nella Cisgiordania occupata.
Gli Stati Uniti nel frattempo, secondo l’immagine riferita a +972 da un diplomatico europeo, «hanno spostato completamente i pali della porta dal campo di calcio», eppure il copione dell’UE è rimasto lo stesso. Persino di fronte al riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale di Israele da parte degli USA, di fronte al loro avallo della sovranità israeliana sulle alture del Golan e alla loro sospensione dei finanziamenti alle istituzioni palestinesi, l’Unione Europea ha dichiarato che avrebbe atteso di conoscere i termini dell’iniziativa di pace guidata dal consigliere speciale statunitense Jared Kushner.
Ora che “l’Affare del Secolo” è stato reso pubblico, l’UE ha rinviato a dopo le elezioni israeliane ogni ulteriore discussione relativa alla risposta politica concreta da dare a tali fatti. Per il momento l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea Josep Borrell si è limitato a esprimere preoccupazione per il fatto che il piano degli Stati Uniti «si discosti dai parametri concordati a livello internazionale» in merito alla soluzione dei due Stati.
A sentirli in privato, diversi governi dell’UE sono molto insoddisfatti dell’accordo di Trump, ma non intendono dichiarare pubblicamente le loro obiezioni, come ha riferito a +972 il diplomatico dell’UE. Gli Stati membri sono particolarmente allarmati dalle crescenti richieste di immediata annessione da parte di molti politici israeliani; sempre secondo il diplomatico, questo spiegherebbe, in parte, il tono di Borrell nel dichiarare che tale atto israeliano di annessione non rimarrebbe “incontrastato”.
A oggi, tuttavia, non è chiaro cosa comporti questo “contrasto”. Di fatto, nonostante i ripetuti avvertimenti dell’UE, Israele ha consolidato la propria sovranità su entrambi i lati della Linea Verde confinando i Palestinesi in una serie di cantoni – o forse sarebbe più appropriato dire, di bantustan – posti sotto il dominio israeliano.
Come afferma Vidosa, la fissazione sul paradigma dei due Stati «ha di fatto impedito agli Europei di affrontare l’effettiva situazione sul terreno, caratterizzata dalla realtà di un unico Stato di discriminazione istituzionale e annessione di fatto del territorio palestinese».
“Aspettiamo e vediamo”
Sembra sorprendente che l’UE non sia in grado di modificare la propria opinione, o sia riluttante a farlo. Di certo non è il potere a mancarle: in quanto primo partner commerciale di Israele, essa detiene un notevole peso, se scegliesse di metterlo in gioco.
Rappresentando un terzo del commercio di Israele, quello della UE è un mercato di esportazione essenziale per le merci israeliane; tra il 2011 e il 2016 sono stati venduti all’Europa prodotti per un valore di 15 miliardi di dollari. Inoltre, quasi la metà di tutte le importazioni in Israele provengono dall’Europa, partner fondamentale nel campo della ricerca, con molte aziende israeliane ad alta tecnologia che chiedono e ricevono finanziamenti nel contesto del programma quadro dell’UE per la ricerca e l’innovazione “Horizon 2020”.
Entrambi i partner beneficiano di questo commercio, ma se le relazioni economiche si inasprissero, Israele, partner minore, avrebbe più da perdere che non l’Unione Europea. Secondo l’affermazione del diplomatico europeo, l’apprensione mostrata dal ministero degli Esteri israeliano di fronte alle critiche pubbliche dei funzionari UE indica che i leader israeliani si avvedono di questa dinamica di potere e la trattano con cautela.
L’intransigenza europea in sé non ha tanto a che fare con la mancanza di opzioni politiche quanto piuttosto con i vincoli e le carenze del proprio modello decisionale basato sul consenso. In questo caso, il sistema paga la scissione tra quegli Stati che sono costantemente critici nei confronti della politica israeliana – come Svezia, Spagna e Irlanda – e quelli che non sono disposti a criticarla pubblicamente in maniera dura – come Germania, Ungheria e Repubblica Ceca.
Invece di prendere una decisione, l’Europa adotta la politica “aspettiamo e vediamo” – cosa che, secondo Said Mahmoudi, professore di diritto internazionale all’Università di Stoccolma, equivale alla “sottomissione totale” alle azioni statunitensi e israeliane. «Sperano nella fine dell’era di Trump, e che sia possibile mantenere lo status quo fino a quando un presidente [statunitense] più moderato non prenderà il potere … sperano che Netanyahu sarà sostituito da un politico più moderato …che sia disposto a negoziare in altri termini», aggiunge Mahmoudi.
Ma questa strategia ha i suoi limiti. Da un lato presuppone che la situazione in Israele e in Palestina possa con il tempo diventare più favorevole alla costruzione della pace, nonostante si sia verificato il contrario. Dall’altro lato i politici che non si impegnano per migliorare la situazione rischiano di ritrovarsi in condizioni ancora meno favorevoli.
Come sostiene il diplomatico dell’UE, «se [Trump] venisse rieletto, potrebbe essere necessario ripensare tutto», inclusa la questione del perché l’Europa stia inviando denaro per sostenere la creazione di uno Stato palestinese senza assicurarsi che tale Stato esisterà davvero.
Il fatto è ancor più sconcertante se si considera che diversi stati dell’UE stanno intervenendo attivamente nell’arena diplomatica al fine di mantenere lo status quo, in aperto contrasto con il loro dichiarato obiettivo di arrivare alla creazione di uno Stato palestinese.
Il mese scorso Austria, Repubblica Ceca, Germania e Ungheria (insieme a Brasile e Uganda) hanno presentato alla Corte Penale Internazionale (ICC) pareri in cui sostengono che la Corte non ha la giurisdizione per aprire inchieste relative ai crimini di guerra commessi nei Territori Occupati perché la Palestina, non essendo uno Stato, non può rimettere la propria sovranità nelle mani del tribunale per le indagini.
La contraddizione tra desiderare che esista uno Stato palestinese mentre allo stesso tempo lo si mina alle fondamenta rimane irrisolta. Per ora, tuttavia, i membri dell’UE concordano sul fatto che il perseguimento della soluzione a due Stati sia l’alternativa migliore fra le varie opzioni: non ritengono degne di considerazione né quella del singolo Stato di apartheid né quella dello status quo.
Secondo il diplomatico dell’UE, inoltre, sono molti coloro che in Israele e in Palestina, insieme alla maggior parte della comunità internazionale, continuano a ritenere che la soluzione a due Stati comporti la migliore speranza di pace. Tuttavia, aggiunge, «non si tratta di una negazione della realtà, ma potrebbe essere una pia illusione».
Tale calcolo, aggiunge il diplomatico, potrebbe cambiare se Israele annettesse gran parte della Cisgiordania o se costruisse ulteriori insediamenti, in particolare intorno a Gerusalemme, incrementando il regime di legale discriminazione su milioni di Palestinesi.
Robert Swift è un giornalista e scrittore scozzese freelance, con base a Gerusalemme. Centro del suo lavoro sono tecnologia, politica mediorientale, sicurezza e affari militari.
https://www.972mag.com/europe-deal-of-century-two-states/
Traduzione di Cristina Alziati – Assopace Palestina