Come Israele manipola la lotta contro l’antisemitismo.

Ciò che interessa il governo israeliano e molti dei suoi sostenitori non è il contrasto, assolutamente giustificato, all’antisemitismo; lo dimostra il flirt di Benjamin Netanyahu con alcune forze di estrema destra in Europa. Si tratta innanzitutto di portare su un’altra strada questa lotta, per screditare ogni atto di solidarietà con i Palestinesi, come provato dal dibattito sulla definizione di “antisemitismo”

Dominique Vidal e Bertrand Heilbronn

Orient XXI, 12 febbraio 2019.

Benjamin Netanyahu alla commemorazione del rastrellamento del ‘Vel d’hiv’, 16 luglio 2017. Erez Lichfeld/Yad Vashem

Il 6 dicembre 2018 il Consiglio di Giustizia e Affari interni dell’Unione Europea approvava, senza alcun dibattito, una dichiarazione sulla lotta contro l’antisemitismo e la protezione delle comunità ebraiche in Europa. Lodevole intenzione, salvo che l’articolo 2 di questa dichiarazione invita gli Stati membri ad adottare la definizione di antisemitismo elaborata dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA). Durante la presidenza austriaca dell’UE da luglio a dicembre 2018, Israele e la potente lobby pro-israeliana si sono attivate nel più gran segreto e non hanno risparmiato alcuno sforzo per ottenere questo risultato. Qual è dunque questa “definizione IHRA” che Israele e i suoi sostenitori incondizionati vogliono imporre?

Nel 2015, all’indomani dell’offensiva mortale israeliana contro la popolazione di Gaza, condannata massicciamente dall’opinione pubblica mondiale, la lobby israeliana rilancia un’offensiva fallita all’inizio degli anni 2000, volta a promuovere una definizione che includa tutte le critiche all’antisemitismo avanzate da Israele. Il suo obiettivo: l’IHRA, un organismo intergovernativo che raggruppa 31 Stati, in seno al quale la lobby pro-israeliana dispone di un intermediario. Nel maggio 2016 l’IHRA ha adottato la sua “definizione” di antisemitismo:

L’antisemitismo è una certa percezione degli Ebrei che si può esprimere con l’odio verso gli Ebrei. Le manifestazioni retoriche e fisiche dell’antisemitismo sono dirette contro delle persone ebree o non ebree e/o loro proprietà, contro le istituzioni della comunità ebraica o i luoghi di culto.

Presentata come “non vincolante sul piano giuridico”, la definizione è assolutamente vuota di contenuti, limitandosi a precisare che l’antisemitismo “è una certa percezione degli Ebrei, che si può esprimere come odio verso gli Ebrei”. Non è però così innocente. Perché il comunicato stampa del maggio 2016 aggiunge: “Per guidare l’IHRA nel suo lavoro, gli esempi seguenti possono servire da illustrazione”. Mai adottati dall’IHRA, detti esempi servono per lo più a identificare ogni critica a Israele come antisemitismo:

  • Le manifestazioni (d’antisemitismo) possono includere il prendere di mira lo Stato d’Israele” precisando più avanti che “la critica a Israele simile a quella che può essere fatta a un altro Paese non può essere considerata come antisemita”. Ma che cosa vuol dire simile?: quando le realtà sono specifiche, oppure nel caso di associazioni dedicate alla difesa dei diritti del popolo palestinese?
  • Accusare i cittadini ebrei di essere più leali verso Israele (…) che agli interessi della loro nazione”. “I cittadini” o “dei cittadini”? Non si avrebbe più dunque il diritto di dire che il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF) è diventato un annesso dell’Ambasciata di Israele?
  • Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, pretendendo per esempio che l’esistenza dello Stato d’Israele è una impresa razzista”. La nuova legge fondamentale d’Israele riserva il diritto all’autodeterminazione al solo “popolo ebraico”. Non avremo più dunque il diritto di combatterla?
  • Fare prova di un doppio standard nell’esigere da parte [dello Stato di Israele] un comportamento che non è atteso né preteso da alcun altro paese democratico”. Le situazioni possono essere differenti, quale sarebbe il criterio?

Uno strumento di propaganda e d’intimidazione

Dunque, ecco una definizione assolutamente insufficiente, ma“non vincolante sul piano giuridico”, sebbene associata a esempi molto contestabili, che tuttavia non sono stati adottati dall’IHRA. Visto da una certa distanza, tutto ciò non ha alcun senso e non sarebbe forse così grave, se non fosse che non siamo dinanzi a uno strumento di coercizione giuridica ma a uno strumento di propaganda e intimidazione. Quello che importa, per i sostenitori senza se e senza ma della politica israeliana, non è avere ragione sul piano giuridico, ma importa instillare il dubbio e la paura di essere trattati da antisemiti, di provocare delle discussioni senza fine, di bloccare tutte le iniziative e di rovinare la reputazione di chiunque non si piegasse a questo condizionamento.

L’esempio del Regno Unito, che ha adottato la definizione IHRA fin dalla fine del 2016, lo dimostra. Sulla base di una semplice dichiarazione governativa, la lobby ha fatto pressione affinché il maggior numero possibile di Università, di municipalità e di partiti politici adottassero anche loro questa definizione. E le conseguenze non si sono fatte attendere. Numerose riunioni pubbliche sono state annullate nelle Università, un professore è stato oggetto di un’inchiesta senza alcun fondamento, un esponente del partito laburista è stato escluso dal partito. L’associazione britannica Free Speech on Israel ha individuato e documentato otto casi particolarmente caratteristici per l’anno 2017.

La campagna più scandalosa della lobby pro-israeliana in Inghilterra è stata diretta contro Jeremy Corbyn: di fronte alle accuse infondate di antisemitismo di cui il leader laburista è stato fatto oggetto, la pressione per l’adozione della “definizione IHRA” e degli esempi ad essa associati è stata tale che il comitato esecutivo del Partito Laburista ha alla fine ceduto.

Ad oggi, otto Stati europei hanno adottato la “definizione IHRA” di antisemitismo: la Romania, l’Austria, la Germania, la Bulgaria, la Slovacchia, l’Italia, il Regno Unito, oltre che, fuori dalla UE, la Macedonia del Nord. I danni, già visibili in Regno Unito e in Germania, si verificheranno presto anche negli altri Paesi elencati.

Una strategia di impunità

Questa operazione non è la prima sostenuta dal CRIF. Essa fa seguito al tentativo incompiuto di criminalizzazione della campagna Boycott-Disinvestment-Sanction (BDS). Perché nessuna legge vieta in Francia di boicottare uno Stato la cui politica viola nello stesso tempo il diritto internazionale e i diritti umani. Altrimenti, infatti, le organizzazioni di boicottaggio del regime di apartheid sudafricano sarebbero state incriminate; eppure, nessuna lo fu all’epoca.

Su centinaia di azioni di boicottaggio avvenute in Francia, sono molto rare quelle che sono state condannate. Una di queste, a Colmar, è stata confermata da una sentenza della Corte di Cassazione, ma la Corte Europea dei Diritti Umani potrebbe sempre annullarla. Tanto più che, da parte sua, l’Alto Rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, ha chiaramente precisato: “L’Unione Europea prende ferma posizione per la protezione della libertà d’espressione e della liberta di associazione, in coerenza con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che è applicabile al territorio degli Stati membri dell’UE, ivi compreso quanto riguarda le azioni BDS”.

In queste campagne contro il BDS come per l’adozione della “definizione” de l’IHRA, l’obiettivo è fin troppo evidente: si tratta di far tacere ogni critica alla politica israeliana. Il fatto è che i dirigenti israeliani restano profondamente isolati, specialmente in seno all’ONU. Lo Stato di Palestina è entrato a far parte dell’UNESCO (2011), poi dell’Assemblea Generale dell’ONU (2012), e anche della Corte Penale Internazionale (CPI) nel 2015. Un esempio simbolico: al momento dell’ultimo voto dell’Assemblea Generale sul “diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, ivi compreso il suo diritto ad uno Stato indipendente” il 17 dicembre 2018, 172 Stati hanno votato a favore e 6 contro (tra cui Israele, Stati Uniti e Canada, oltre alle Isole Marshall, gli Stati Federati di Micronesia e la Repubblica di Nauru).

Ed è improbabile che questo isolamento possa ridursi. La destra e l’estrema destra al potere a Tel Aviv sono infatti coinvolte in un inquietante processo di radicalizzazione. Approfittando del sostegno dell’amministrazione Trump e della loro alleanza con l’Arabia Saudita contro l’Iran, esse vogliono passare dalla colonizzazione, che accelerano, e all’annessione, che molte leggi stanno preparando. Ad un certo momento, se sono confermate il 9 aprile prossimo, esse seppelliranno completante la soluzione detta “dei due Stati” a vantaggio di uno stato unico, ove i Palestinesi, annessi con le loro terre, non avranno nessun diritto politico, a cominciare dal diritto di voto. La legge fondamentale approvata il 19 luglio 2018 alla Knesset è il simbolo ufficiale dell’apartheid all’israeliana. La legge del 1992 definisce Israele come uno “Stato ebraico e democratico”: la nuova legge si intitola “Stato-nazione del popolo ebraico”. E precisa: “Il diritto ad esercitare l’autodeterminazione nazionale in seno allo Stato d’Israele appartiene al solo popolo ebraico”. In breve, la legge nega esplicitamente la Dichiarazione d’indipendenza che, il 14 maggio 1948, prometteva che il nuovo Stato “assicurerà una completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi cittadini, senza distinzione di credo, razza o sesso”.

Le alleanze che Benjamin Netanyahu stringe con populisti e neofascisti, soprattutto in Europa, sono altrettanto scioccanti. Come accettare che un primo ministro di questo paese, che si appella cosi spesso alla Shoah per giustificare la sua politica, flirti con dei dirigenti che fanno l’elogio di collaboratori dei nazisti, come ad esempio Victor Orban, o che vorrebbero vietare che se ne parli, come Jaroslaw Kazcynski, o che si richiamano con parole appena velate al fascismo, come Matteo Salvini?

Non c’è dubbio che questa fuga in avanti scavi un po’ più a fondo il fossato tra Israele e l’opinione pubblica mondiale. Prova ne sono gli ultimi sondaggi realizzati in Francia. Secondo un’inchiesta dell’IFOP (Istituto Francese di Opinione Pubblica), il 57% degli intervistati ha una “cattiva immagine di Israele”, il 69% una “cattiva immagine del sionismo” e il 71% pensa che “Israele ha una pesante responsabilità nell’assenza di negoziati con i Palestinesi”. E non ci si dica che sono tutti antisemiti! Sotto il titolo “Un antisionismo che non si trasforma in antisemitismo,” un’altra inchiesta, realizzata dall’IPSOS mostra che le persone più critiche nei confronti della politica di Israele sono anche le più solidali verso gli Ebrei colpiti dall’antisemitismo.

Una ragione in più perché la Francia resista al ricatto all’antisemitismo. Quando si critica l’UE non bisogna infatti dimenticare che i veri responsabili sono gli Stati, in particolare all’interno del Consiglio Europeo. I rappresentanti francesi vi erano perfettamente informati e consapevoli. La Commissione Nazionale consultiva dei diritti dell’Uomo (CNCDH) era stata particolarmente chiara nel suo rapporto annuale sul razzismo, pubblicato nel maggio 2018. Era contraria all’adozione della definizione dell’IHRA per due ragioni: definire ciascun tipo di razzismo è contrario alla tradizione giuridica francese e, pur restando vigilanti, bisogna guardarsi bene da ogni strumentalizzazione della lotta contro l’antisemitismo.

Ciononostante, l’articolo 2 della dichiarazione del Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE è stato approvato. Val la pena, a questo punto, ricordare la sua formulazione completa:

INVITA GLI STATI MEMBRI che non l’abbiano ancora fatto ad approvare la definizione operativa, giuridicamente non vincolante, dell’antisemitismo utilizzata dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA), come strumento d’orientamento utile in materia di formazione e di educazione, in particolare per le forze dell’ordine nel quadro dei loro sforzi per individuare e indagare nella maniera più efficiente e incisiva gli attacchi antisemiti.

Ammiriamo, en passant, l’invito fatto agli Stati membri a formare la loro polizia su dei testi che sono al di fuori della legge. Dato che di regola le dichiarazioni del Consiglio vengono adottate all’unanimità e col consenso generale, come hanno potuto lasciar passare tutto questo i rappresentanti del governo francese? È forse un effetto dell’incontro accordato al CRIF (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia) dal Ministro della Giustizia Nicole Belloubet, qualche giorno prima della decisione?

Il consenso è stato ottenuto dopo che era stato ritirato il riferimento ai famosi “esempi”. Effettivamente, l’articolo 2 non fa riferimento agli esempi. Ma non dice neanche che questi sono esclusi; alcuni responsabili della Commissione Europea sono immediatamente entrati nel varco che in questo modo si è aperto. Alla fine, l’Ambasciatore francese presso l’UE ha ricordato ufficialmente nel comitato dei rappresentanti permanenti che il consenso sull’articolo 2 non comprendeva gli esempi. È stata una precisazione utile, di cui le autorità francesi hanno preso atto e che l’AFPS (Associazione di Solidarietà Franco-Palestinese) ha divulgato, ma che non è stata ancora confermata in una comunicazione ufficiale delle stesse autorità francesi.

La strumentalizzazione della lotta contro l’antisemitismo al servizio dell’impunità di uno Stato terzo che viola tutti i giorni il diritto internazionale è una questione gravissima che può minare profondamente la nostra democrazia. Di fronte a ciò, la posizione dell’esecutivo francese è ancora vaga e non permette di combattere in modo serio questo pericolo: nel luglio 2017 Emmanuel Macron ha avallato di fronte a Benjamin Netanyahu l’amalgama gravissimo tra antisemitismo e antisionismo. Non lo ha poi ripetuto, ma non è ugualmente più ritornato sui suoi passi. Più di recente, il CRIF a ufficialmente richiesto al governo francese di legiferare contro il boicottaggio e di adottare la definizione IHRA di antisemitismo. Il governo non ha dato seguito, ma non ha neppure manifestate ufficialmente il suo rifiuto. È l’ora di dire chiaramente che la Francia non accetta che lo Stato d’Israele intervenga nei suoi affari interni.

Dominique Vidal, Giornalista e storico, autore di Antisionisme = antisémitisme ? (Libertalia, febbraio 2018).

Bertrand Heilbronn, Presidente dell’Associazione di Solidarietà Franco-Palestinese.

Traduzione di Lucilla Romaniello

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