I rifugiati palestinesi una volta riempivano le università nel mondo arabo e stimolavano l’economia del Golfo Persico, come risultato di una rivoluzione nell’istruzione largamente dovuta all’UNRWA. Quali lezioni possiamo trarre oggi da quell’epoca, ora che il destino dell’agenzia è pericolosamente in bilico?
Maya Rosenfeld
Haaretz, 24 novembre 2018
Negli anni novanta, ho svolto uno studio sul terreno nel campo profughi Deheisheh adiacente a Betlemme. Nel campo si vedevano due tipi di case, l’una accanto all’altra. C’erano piccole strutture che erano state costruite negli anni cinquanta dall’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente, a cui erano state aggiunte una o due stanze nel corso degli anni; e c’erano nuove case spaziose di due o tre piani. Le case piccole appartenevano a famiglie di lavoratori che erano impiegati in Israele, gli uomini nelle costruzioni e le donne nelle pulizie. Le case grandi erano abitate da famiglie i cui figli e le cui figlie erano stati insegnanti in Arabia Saudita.
Insegnanti palestinesi nel regno del deserto? Proprio così. Alla fine degli anni sessanta, per esempio, quasi il 60% delle insegnanti nel sistema educativo saudita erano palestinesi. Erano diventate insegnanti grazie all’impegno dell’UNRWA, che avviò una rivoluzione dell’istruzione tra i rifugiati palestinesi, una rivoluzione ante litteram nel mondo arabo. Oggi, con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump che minaccia di cancellare l’UNRWA ritirandone i finanziamenti, val la pena mettere in risalto la straordinaria storia dell’agenzia che ha cambiato la vita di centinaia di migliaia di Palestinesi. Il futuro dell’UNRWA costituirà un banco di prova per l’impegno della comunità internazionale riguardo alla causa palestinese. Un esame critico degli sviluppi cruciali nel passato dell’agenzia potrebbe anche fornire in anticipo qualche idea prima dell’imminente decisione.
Arginare il comunismo
L’UNRWA è stata fondata nel dicembre 1949, a fronte dell’incapacità delle Nazioni Unite di applicare la Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale, che richiedeva il ritorno dei profughi del 1948 alle loro case appena fosse possibile. La risoluzione comunemente conosciuta come “il diritto al ritorno” era basata sulle raccomandazioni del mediatore ONU per la Palestina, il diplomatico svedese conte Folke Bernadotte, che fu inviato nella regione al culmine della guerra del 1948, per cercare di fermare il peggioramento della situazione e promuovere un accordo di pace.
I rifugiati non erano citati esplicitamente nel suo mandato di nomina. Tuttavia, quando si rese conto del numero dei rifugiati e delle loro difficoltà, concluse che una soluzione a quel problema era un prerequisito per un accordo. La questione dei profughi diventò il centro della sua missione. Bernadotte attribuiva la responsabilità della sorte dei rifugiati alle Nazioni Unite perché, a suo parere, la guerra non sarebbe scoppiata se non ci fosse stato il piano di partizione approvato dall’Assemblea Generale nel novembre 1947 (la Risoluzione 181, che richiedeva la divisione della Palestina in due stati). Di conseguenza, credeva che le Nazioni Unite avessero l’obbligo di agire per il rimpatrio dei profughi e di fornire loro aiuti umanitari per tutto il tempo in cui fossero stati tenuti fuori dalla Palestina.
Le raccomandazioni di Bernadotte –che fu ucciso dagli assassini della milizia clandestina Lehi (conosciuta anche come la Banda Stern) il 17 settembre 1948, il giorno dopo aver presentato un rapporto sullo stato di avanzamento della sua missione– furono adottate dalle Nazioni Unite quasi alla lettera e divennero la base per la posizione ufficiale della comunità internazionale riguardo ai rifugiati palestinesi. Tuttavia, sin dall’inizio fu evidente un divario, che sarebbe successivamente cresciuto, fra la posizione dichiarata e la capacità e la volontà di realizzarla. Il rifiuto di Israele di permettere il ritorno di un “numero significativo” di profughi, come richiesto dalla Commissione di Conciliazione delle Nazioni Unite –creata in base alla Risoluzione 194– obbligò l’organismo internazionale ad adottare l’opzione dell’aiuto umanitario. Così fu creata l’UNRWA, per alleviare “le condizioni di fame e di sofferenza [tra i rifugiati palestinesi]” e fu definita come un’agenzia per l’aiuto temporaneo, le cui attività non erano in conflitto con la Risoluzione 194.
A quel tempo, il numero totale dei rifugiati, secondo la Missione per l’Analisi Economica delle Nazioni Unite, era stimato intorno ai 726.000, di cui circa 200.000 nella Striscia di Gaza, 350.000 in Cisgiordania e circa 180.000 in Libano e Siria (molti erano arrivati inizialmente in Libano ed erano successivamente emigrati in Siria). Come per molte delle agenzie di sostegno delle Nazioni Unite, le operazioni dell’UNRWA dovevano essere finanziate da contributi volontari raccolti anno per anno e non attraverso un budget annuale permanente –un meccanismo che avrebbe ostacolato le sue capacità operative nel corso degli anni. Curiosamente, furono gli Stati Uniti a sostenere ardentemente la creazione dell’agenzia e ne divennero il principale finanziatore: i decisori politici a Washington cercarono quindi di assegnare all’agenzia un ruolo di contrasto contro l’avanzata del comunismo in Medioriente. (Si pensava che un rifugiato che non soffrisse i morsi della fame, sarebbe stato meno probabilmente preda del cosiddetto pericolo rosso.)
Nei primi anni, l’UNRWA si focalizzò nel fornire aiuto umanitario di emergenza, destinando quasi tutte le sue risorse a questo scopo. L’agenzia creò decine di campi profughi nei principali paesi della diaspora palestinese –in Giordania (su entrambe le sponde del fiume Giordano), nella Striscia di Gaza (allora sotto il controllo egiziano), in Libano e in Siria– dove il 40% di tutti i rifugiati, la grande maggioranza dei quali contadini, risiedettero durante i primi dieci anni. L’UNRWA fornì tende e successivamente spartani alloggi per le famiglie, costruì e gestì cliniche e scuole in ogni campo e comunità e distribuì razioni mensili di cibo (farina e materie prime essenziali) a tutti i profughi registrati, inclusi quelli che vivevano nelle città, oltre agli integratori alimentari e al latte per le donne incinte o che allattavano, per i neonati e i bambini.
Questo aiuto fu sufficiente per assicurare la sopravvivenza dei profughi, ma non sufficiente per metterli nella condizione di camminare con le loro gambe. Solo una piccola minoranza, principalmente quella che aveva dei mezzi e una professione, fu in grado di trovare un impiego negli stati arabi, che erano allora sottosviluppati dal punto di vista industriale e istituzionale. La grande maggioranza rimase disoccupata e condizionata dalla disponibilità di lavori occasionali.
Comunque, mentre le donazioni annuali all’UNRWA da parte della comunità internazionale rimasero troppo basse per provocare un cambiamento sostanziale della condizione dei profughi, nessuna azione fu presa durante gli anni cinquanta per promuovere l’attuazione della Risoluzione 194. Il doppio standard delle Nazioni Unite non fu certamente abbandonato riguardo ai rifugiati: sfiducia e anche ostilità nei confronti dell’istituzione internazionale erano comuni in quei giorni. Più sorprendente fu la crescente critica espressa tra le fila degli alti gradi dell’UNRWA per l’ingiustizia perpetrata ai danni dei profughi.
Uno dei funzionari che ebbe il coraggio di trasformare le parole in azioni fu il Dott. John Davis, un diplomatico americano che guidò l’UNRWA dal 1959 al 1963 e che decise di spostare l’attività centrale dell’agenzia dal soccorso all’istruzione. L’unico modo per aiutare i rifugiati, pensava, era di fare in modo che i loro figli e le loro figlie ricevessero l’istruzione e la formazione necessarie per avere successo nel moderno mercato del lavoro.
Il raggiungimento di questo obiettivo comportò una rivoluzione totale. L’UNRWA estese il proprio sistema di istruzione di base da sei anni di scuola a nove, una mossa che richiese la creazione di scuole medie separate per ragazzi e ragazze in tutte le comunità di rifugiati (scuole miste in genere furono create solo in comunità molto piccole). Contemporaneamente, furono istituite quattro facoltà per la formazione dei docenti (due a Ramallah e le altre ad Amman e Tiro), oltre a cinque centri di formazione professionale e tecnica (a Damasco, Gaza, Ramallah, Amman e Tiro). Dato che gli stati donatori non aumentarono i loro finanziamenti, l’agenzia fu obbligata a coprire le spese del nuovo progetto mediante una riallocazione delle risorse: le spese per l’istruzione (e la salute) furono costantemente incrementate a spese delle prestazioni sociali. Al culmine di questo processo, la distribuzione delle razioni di cibo fu abolita (con l’eccezione di gravi casi di disagio sociale) e i finanziamenti per l’istruzione crebbero fino al 50%-60% del bilancio annuale.
I risultati furono subito evidenti. Entro la fine degli anni sessanta, il settore scuola media dell’UNRWA produsse circa 80.000 diplomati che avevano nove anni di scolarizzazione. E se, nel 1960, solo il 9% degli studenti delle scuole medie erano ragazze, alla fine del decennio questa cifra era cresciuta fino al 42% e alla fine il divario fu interamente colmato. I diplomati alla scuola media continuarono alle scuole superiori governative e la maggior parte di coloro che si immatricolarono frequentarono università del mondo arabo o si iscrissero agli istituti dell’UNRWA per la formazione di insegnanti. In un decennio dalla trasformazione spinta da Davis, l’UNRWA riuscì a promuovere un cambiamento su vasta scala nella qualità dell’istruzione dei figli dei profughi contadini; quasi tutti rappresentavano la prima generazione di persone istruite nella loro famiglia.
Allo stesso tempo, il sistema educativo dell’agenzia divenne di fatto autarchico (autosufficiente), poiché le facoltà per i docenti fornivano gli insegnanti per le scuole. L’espansione del sistema e la crescente autonomia hanno contribuito alla “palestinizzazione” della agenzia, che si manifestò non solo con la crescita costante del numero di profughi che furono impiegati dall’UNRWA, ma anche con la graduale integrazione di professionisti in un ventaglio di posizioni dirigenziali al suo interno. Con l’eccezione delle più alte cariche, che continuarono ad essere appannaggio di funzionari internazionali, l’UNRWA divenne un’agenzia che da una parte era al servizio dei profughi e dall’altra era gestita e mantenuta dagli stessi.
In anticipo sui tempi
La rivoluzione dell’UNRWA nel sistema scolastico era in anticipo sui tempi. Negli anni 1960, il fatto che le scuole statali avessero un insegnamento primario esteso e generalizzato era ancora di là da venire nei paesi arabi, compresi quelli che ospitavano rifugiati palestinesi. Inoltre, il sistema educativo del mondo arabo presentava due punti deboli. Uno era la disparità tra le aree urbane e le aree rurali, ciò che lasciava la maggior parte dei contadini (che erano la maggioranza della popolazione araba) ai margini dell’educazione. L’altro era il divario di genere: ben poche bambine andavano a scuola. Grazie all’UNRWA, i figli dei rifugiati palestinesi ottennero un netto vantaggio educativo rispetto ai loro coetanei rurali del mondo arabo. Questo ebbe un diretto riscontro nell’alto numero di rifugiati palestinesi nelle scuole superiori di tutto il mondo arabo intorno alla metà degli anni ’60. In una ricerca pubblicata nel 1972, Nabil Shaath, uno studioso palestinese che avrebbe poi ricoperto cariche importanti in Fatah e nell’OLP, calcolava che nel 1966 il numero totale di studenti palestinesi fosse intorno ai 30.000.
Nel 1969, la percentuale di studenti palestinesi di livello superiore rispetto alla popolazione era più vicina a quella di un tipico paese europeo che non a quella di un paese arabo. Secondo l’annuario statistico dell’UNESCO (l’organizzazione ONU per l’educazione e la scienza), 11,4 Palestinesi su 1000 erano studenti, più che in Inghilterra (10,8), Grecia (9,76) o Germania (8,3), e di gran lunga di più che in Egitto (7,1) o in Siria (6,8). Un altro elemento che contribuiva a questo andamento era il fatto che i regimi radicali arabi (specialmente l’Egitto di Gamal Abdel Nasser) permettevano agli studenti palestinesi di frequentare gratuitamente le università statali, al pari dei loro colleghi egiziani.
La prospettiva più allettante del vantaggio educativo sta nei risultati che può ottenere. L’offerta di lavoro nei paesi arabi ebbe un incremento grazie ad un aumentato fabbisogno di forza lavoro a livello professionale. Ciò avvenne dapprima in Giordania, dove la spinta verso la modernizzazione venne alimentata dalla forte immigrazione palestinese a seguito della guerra del 1948, e poi –più decisamente– negli stati petroliferi del Golfo, particolarmente il Kuwait e l’Arabia Saudita, dove mancavano le risorse umane per sviluppare l’emergente industria petrolifera.
La crescita accelerata delle economie petrolifere negli anni 1960 e ’70 si basava totalmente sul lavoro dei migranti, provenienti per lo più da altri paesi arabi, sia per quanto riguardava l’estrazione del petrolio e la creazione e il mantenimento delle relative infrastrutture, sia riguardo alle operazioni burocratiche, il settore pubblico e la comunità degli affari. Il vantaggio educativo dei rifugiati palestinesi permise loro di piazzarsi ai primi posti tra i migranti professionalizzati nel Golfo. La maggior parte trovò impiego nell’insegnamento, ma altri furono assunti come contabili, ingegneri, amministratori e simili, tanto che la loro presenza in termini percentuali (e talvolta in termini assoluti) superava in certi settori quella di ogni altra nazionalità.
Come lavoratori migranti, i rifugiati palestinesi non godevano dei diritti civili e sociali, e la loro permanenza negli stati del Golfo era limitata alla scadenza del loro permesso di lavoro. Vivevano per lo più in modo molto frugale e spedivano quasi tutto il loro guadagno alle famiglie rimaste a casa. Questo, di conseguenza, permetteva alle famiglie di migliorare il loro livello di vita e di mantenere i figli alle scuole di istruzione superiore. Il vantaggio educativo creato dall’UNRWA diveniva così un motore di ascesa socio-economica.
Gli effetti di questo processo erano ancora visibili nel 1992, l’anno in cui cominciai nel campo profughi Deheisheh il lavoro sul terreno per la mia tesi di dottorato. A quell’epoca, il flusso migratorio di insegnanti, sia uomini che donne, da Deheisheh al Golfo era ormai un lontano ricordo, dato che, dopo aver toccato l’apice negli anni ‘70 e inizio ’80, la richiesta di forza lavoro era drasticamente diminuita. Ciononostante, era ancora evidente la differenza nelle condizioni di vita tra le famiglie i cui figli avevano lavorato in Arabia Saudita e quelle che si erano mantenute col lavoro manuale in Israele. Più di una ventina d’anni di lavori giornalieri in Israele non erano bastati a colmare il divario con le famiglie di insegnanti emigrati.
In realtà, in quel periodo, precedente alla creazione dell’Autorità Palestinese e del suo settore pubblico, le possibilità di impiego per i Palestinesi con formazione universitaria o professionale erano fortemente tenute a freno dal governo militare israeliano. Tuttavia l’UNRWA forniva ancora al suo interno una rete di salvataggio per i rifugiati, anche se era ben lontana dal soddisfare i loro bisogni. Nel 1994 l’agenzia era ancora il maggior datore di lavoro per operatori professionali e semi-professionali (escludendo i lavoratori alla giornata), e c’era una forte competizione per i posti nelle scuole, nelle cliniche e nei centri-comunità dell’agenzia.
Non meno importante fu il contributo dato dall’UNRWA per la trasformazione dello status sociale delle donne. Fino alla seconda metà degli anni 1960, i residenti di Deheisheh non erano tanto entusiasti di mandare le loro figlie alle scuole superiori, e la maggior parte delle bambine del campo completavano solo la scuola primaria. Il cambiamento avvenne grazie alle prime ragazze che avevano completato la scuola superiore, avevano ottenuto un diploma alla scuola per insegnanti di Ramallah e avevano poi trovato un lavoro e cominciato a guadagnare (in questi casi, erano quasi sempre sostenute da un fratello, un padre o uno zio comunista, che fornivano il necessario aiuto maschile contro gli scettici).
Le prime insegnanti divennero ben presto il principale sostegno per le rispettive famiglie, permettendo loro di svincolarsi dal sistema di pura sopravvivenza entro cui erano state intrappolate fin dal tempo della Nakba. Già negli anni 1970, gli studi superiori erano diventati un fatto normale per le donne che, dopo il diploma, venivano avviate per lo più verso impieghi pratici, soprattutto l’insegnamento e poi anche l’infermieristica. Con l’espansione dell’onda migratoria verso il Golfo Persico, anche giovani donne non sposate cominciarono a lavorare come insegnanti in Arabia Saudita, quasi sempre accompagnate da un parente, spesso un anziano genitore. Venivano assunte con contratti annuali nelle scuole femminili del regno saudita, per lo più in sedi sperdute, e sopportavano dure condizioni di lavoro per spedire i loro stipendi alle famiglie rimaste nel campo profughi, trattenendo appena le spese essenziali per sopravvivere.
L’istruzione, lo stipendio e il ruolo di sostegno per le famiglie non furono sufficienti per porre fine alla legge patriarcale a cui le donne erano sottoposte, ma certamente la allentarono. Per lo più, queste donne sposavano uomini con una simile base educativa e lavorativa, crescevano famiglie molto più piccole che nelle precedenti generazioni, e seguivano uno stile di vita molto diverso da quello delle loro madri.
È indiscutibile che l’UNRWA abbia svolto un ruolo decisivo nella trasformazione educativa, occupazionale e sociale della seconda e terza generazione di rifugiati. Fatte le dovute riserve (che non sono né poche né trascurabili) possiamo paragonare il ruolo trasformatore che l’agenzia ha svolto per i rifugiati rurali al ruolo di uno stato moderno. Tuttavia, il fatto che l’UNRWA sia riuscita a rappresentare un contrappeso alle sofferenze, privazioni e discriminazioni connesse con la condizione di rifugiati, non ha certo risolto il problema dei rifugiati e non ne ha neanche avvicinato la soluzione. La ragione sta semplicemente nel fatto che il problema dei rifugiati palestinesi non è una questione a sé stante, ma fa parte di un problema politico-nazionale e di un lungo conflitto, la cui soluzione non è mai stata tra le possibilità e l’autorità dell’UNRWA.
Inoltre, il carattere permanente del conflitto israelo-palestinese e, in particolare, la successiva evoluzione dei rapporti di potere tra i suoi attori principali, hanno avuto conseguenze negative sia per i rifugiati che per l’UNRWA. L’escalation da parte di Israele nell’uso della forza militare per raggiungere i suoi fini politici ha esposto le comunità di rifugiati (prima in Libano e poi nei territori occupati) a nuovi attacchi e disastri che richiedevano un ampio intervento umanitario. L’UNRWA è stata costretta, a più riprese, a riprendere il suo ruolo di aiuto di emergenza. Questa dinamica ha raggiunto il suo massimo nei 18 anni successivi al fallimento del processo di Oslo e allo scoppio della seconda intifada. In risposta alla rivolta, Israele ha preso misure volte a produrre il collasso dell’Autorità Palestinese e a pregiudicare la fattibilità di uno stato palestinese indipendente. Questo avveniva mediante estese distruzioni di infrastrutture, di aree coltivate e zone residenziali, mediante la frammentazione della Cisgiordania in piccoli territori non contigui, imponendo restrizioni sulla mobilità e chiudendo la Striscia di Gaza entro un assedio che la separa dalla Cisgiordania.
Nel giro di pochi mesi, alla fine del 2000, queste misure hanno causato un rapido peggioramento del tenore di vita e di tutti gli indici socio-economici dei territori. Il colpo più serio l’ha subito la Striscia, dove la disoccupazione e la povertà hanno raggiunto livelli senza precedenti. Ne è seguita ben presto una crisi umanitaria che ha reso necessario l’intervento internazionale. L’UNRWA, grazie alla sua esperienza e competenza, è diventata l’attore principale nel mantenimento di un apparato per convogliare verso i territori occupati un aiuto di emergenza che, istituito nel 2001, è ancora attivo.
Il bilancio dell’agenzia è ora suddiviso in due diverse categorie, regolare e di emergenza, e la sua raccolta fondi annuale è suddivisa allo stesso modo. L’aiuto di emergenza è rimasto sostanzialmente molto simile al soccorso prestato nei primi dieci anni del problema rifugiati e nei precedenti periodi di crisi. Permette a chi ne usufruisce di sopravvivere, ma non di uscire dalla povertà. Solo un aumento dell’occupazione potrebbe rovesciare questa realtà, ma fintanto che Israele persisterà nella sua politica, la probabilità che i disoccupati possano tornare ai loro posti di lavoro è assai scarsa, così come è improbabile che possano trovare impieghi alternativi.
Si può solo concludere che il mantenimento dell’apparato di emergenza dell’UNRWA ha, tutto sommato, sostituito l’intervento internazionale che avrebbe dovuto porre fine all’occupazione israeliana e realizzare l’indipendenza palestinese, obiettivi che –almeno a parole– godono del consenso universale. Quel che è peggio, la persistenza di Israele nell’applicare le sue politiche per tanti anni gli ha permesso di rafforzare il controllo sulle terre della Cisgiordania e di compromettere ulteriormente ogni speranza per una Palestina che avesse continuità territoriale e sostenibilità economica.
È proprio questo abbandono da parte della comunità internazionale che permette al presidente Trump di farsi avanti e cercar di cambiare le regole del gioco: visto il disimpegno de facto rispetto alla promessa di risolvere il problema palestinese, perché non trascurarlo completamente? Resta da vedere se i leader europei si opporranno alla sfida lanciata da Trump con il suo brutale attacco all’UNRWA. Se ne saranno capaci, sarà allora necessario un piano di emergenza davvero efficace, un piano che permetta infine ai Palestinesi di scrollarsi dal giogo dell’occupazione israeliana e di intraprendere una nuova fase della loro storia. Con i finanziamenti adeguati, l’UNRWA potrebbe certamente giocare un ruolo chiave nel facilitare questa impresa.
La dott. Maya Rosenfeld si occupa di sociologia e antropologia. La sua ricerca si incentra sulla società palestinese e sulla politica nei territori palestinesi occupati.
Traduzione di Gianluca Ramunno e Donato Cioli