Shlomi Eldar
Al-Monitor, 6 luglio 2018
In seguito alle proteste di cinque stati europei, la Corte Suprema israeliana ha ordinato di sospendere la demolizione del villaggio beduino di Khan al-Ahmar in Cisgiordania e l’espulsione delle 32 famiglie che vi abitano. Il provvedimento provvisorio emesso il 5 luglio dalla giudice Anat Baron dà tempo allo stato fino all’11 luglio per rispondere alla petizione dei residenti contro la distruzione delle loro case e il loro ricollocamento in un’area vicina la villaggio di Abu Dis a est di Gerusalemme.
L’interessamento internazionale per il loro piccolo villaggio e la campagna mediatica svolta da Germania, Francia, Spagna, Italia e Gran Bretagna è stato probabilmente ciò che ha dato ai residenti di Khan al-Ahmar il coraggio di perseverare nella loro lotta decennale e di presentare un’altra istanza all’alta corte, dopo essere stati ripetutamente respinti.
Fin dal 2009, i residenti di Khan al-Ahmar hanno fatto appello più volte alla corte nel tentativo di portare lo stato a una trattativa ed evitare la distruzione del villaggio. Ancora il 24 maggio, l’alta corte israeliana –la stessa che ha bloccato l’ordine di demolizione questa settimana– aveva respinto l’ennesimo ricorso e aveva dato all’esercito il via libera per radere al suolo il villaggio nel giro di un mese. I giudici Noam Sohlberg, Yael Willner e Anat Baron (la stessa che ha ora sospeso la demolizione) avevano sentenziato che non c’era alcuna base giuridica per modificare la decisione emessa nel 2017 dal ministro della difesa Avigdor Liberman che contemplava la demolizione dei villaggi di Khan al-Ahmar e Susya che si trovano in quella parte della Cisgiordania controllata da Israele e designata come Area C.
I 170 residenti di Khan al-Ahmar appartengono alla tribù Jahalin. Nel 1952 furono espulsi dalle loro terre che si trovavano nel territorio dello stato Israeliano vicino al sito archeologico meridionale di Tel Arad, che lo stato trasformò in un’area di esercitazioni a fuoco per l’esercito. Vagarono in giro per qualche tempo, finché raggiunsero le colline di Gerusalemme, allora sotto il controllo della Giordania, dove si stabilirono. Con la guerra dello Yom Kippur, Israele acquisì quell’area e insediò la colonia di Kfar Adumim e la zona industriale di Mishor Adumim sulla terra in cui vivevano i nomadi, che si trovarono così incastrati tra la colonia e la zona industriale. Vivono ora vicino al Mar Morto e il loro villaggio è diviso in due dalla trafficata strada Gerusalemme-Gerico.
Le organizzazioni per i diritti umani sostengono che Israele vuole espellere i residenti per espandere le vicine colonie israeliane, dividere in due la Cisgiordania e annettere de facto porzioni dell’Area C svuotate della popolazione palestinese.
L’Amministrazione Civile israeliana ha rifiutato per anni l’autorizzazione a costruire edifici permanenti a Khan al-Ahmar, nemmeno per una scuola, e non ha lasciato altra scelta ai residenti che quella di costruire senza permessi. E questa infrazione è diventata la base legale per il decreto di espulsione che si son visti arrivare. Secondo l’organizzazione per i diritti umani B’Tselem, tra il 2006 e il 2018, Israele ha demolito 26 abitazioni, lasciando senza tetto 132 persone, tra cui 77 bambini e adolescenti. Grazie a finanziamenti dall’Italia, dal Belgio e dall’Unione Europea, l’ONG italiana Vento di Terra ha costruito una scuola per i bambini del villaggio utilizzando fango e vecchi copertoni.
Dopo la sentenza di maggio della Corte Suprema, l’Amministrazione Civile ha accelerato i preparativi per la demolizione. L’unica cosa che potevano fare le organizzazioni per i diritti umani era quella di suscitare pubbliche dimostrazioni all’interno di Israele contro questa ingiustizia. B’Tselem ha sostenuto che radere al suolo le case del villaggio viola la legge internazionale e costituisce un crimine di guerra. Ma la sua incessante campagna e le molte petizioni legali non hanno ottenuto alcun risultato. Il 4 luglio, dipendenti dell’Amministrazione Civile accompagnati dalla polizia e da pesanti macchinari hanno smantellato una parte del guardrail che separa le case del villaggio dalla strada trafficata ed hanno cominciato a preparare una strada di accesso al villaggio che potesse permettere all’esercito israeliano di eseguire l’espulsione e la demolizione.
Quando si è capito che tutte le azioni di protesta erano fallite e che la demolizione era inevitabile, gli oppositori hanno fatto ricorso a quella che era diventata un’opzione di ultima istanza e il tallone d’Achille per le organizzazioni israeliane dei diritti umani: mobilitare la pressione internazionale su Israele.
Il maggior contenzioso tra Israele e le organizzazioni per i diritti umani attive nel paese sta proprio nel fatto che queste ultime mobilitano l’aiuto di paesi esteri –per lo più stati europei favorevoli ai Palestinesi– per far pressioni sul governo e imporre sanzioni ad Israele. Queste attività producono un forte risentimento in Israele, e non solo da parte della destra politica che vede queste organizzazioni come dei “nemici di Israele” che danneggiano l’immagine dello stato all’estero.
Alon Liel, ex-ambasciatore di Israele in Sud Africa ed ex-direttore del ministero degli esteri israeliano, si dice abbia rilasciato questa dichiarazione ai rappresentanti di Breakig the Silence, un’organizzazione anti-occupazione: “Le sanzioni contro il Sud Africa furono imposte appena l’opinione pubblica capì che in Sud Africa il nero è come il bianco e il bianco è come il nero. Voi siete l’avanguardia che dice al mondo che l’occupazione è insopportabile per noi così come è insopportabile per loro.”
Questa sua dichiarazione scatenò una tempesta di controversie e mise in luce il vicolo cieco che si presenta alle organizzazioni israeliane per i diritti umani: da una parte pensano che l’opinione pubblica israeliana sia diventata indifferente di fronte alle violazioni dei diritti umani nei territori occupati e che d’altra parte non si possa produrre nessun cambiamento nell’attuale stato delle cose, sotto il potere di un forte governo di destra.
I parlamentari della destra politica nella Knesset hanno presentato negli ultimi anni una serie di disegni di legge tendenti a restringere l’attività dei gruppi per i diritti umani e a limitare le sovvenzioni che possono ricevere da governi e organizzazioni straniere. Tra queste proposte c’è una legge sul finanziamento delle ONG e la cosiddetta legge trasparenza promossa dal ministro della giustizia Ayelet Shaked del partito di destra HaBayit HaYehudi (Casa Ebraica).
Il caso di Khan al-Ahmar dimostra che le organizzazioni per i diritti umani hanno ragione. L’aiuto esterno è probabilmente l’unica risorsa rimasta a coloro che cercano di realizzare un cambiamento. I residenti del villaggio hanno fatto campagne pubbliche e campagne legali fin dal 2009, ma la minaccia di demolizione ed espulsione è rimasta tal quale. Nel momento in cui cinque paesi europei hanno minacciato a Israele una condanna internazionale e delle sanzioni, tutto si è fermato. Persino la Corte Suprema ha ribaltato le sue decisioni.
Traduzione di Donato Cioli