Perché vado alla marcia di Gaza.

Un contributo alla riflessione e al dibattito sulla mobilitazione palestinese, la cosiddetta Marcia del Ritorno, attraverso le parole di Fadi Abu Shammalah, direttore esecutivo dell’Unione Generale dei Centri Culturali a Gaza e coproduttore del documentario “Naila e la Rivolta.”

Perché vado alla marcia di Gaza.

Di Fadi Abu Shammalah

The New York Times, 27 aprile 2018

Dimostranti palestinesi su un’altura durante gli scontri con l’esercito israeliano, venerdì scorso ad est di Gaza City. Gli abitanti da Gaza stanno mettendo in atto una serie di proteste chiamate la grande Marcia del Ritorno. Mohammed Abed/Agence France Press-Getty Image

Khan Younis, Striscia di Gaza. Il 30 marzo, di primo mattino, mio figlio Ali di 7 anni ha visto che mi stavo preparando ad uscire di casa, cosa insolita nella nostra routine del venerdì.

“Dove vai, papà?”

“Vado al confine, per partecipare alla Grande Marcia del Ritorno.”

La Grande Marcia del Ritorno è il nome che è stato dato ai 45 giorni di protesta lungo il confine tra Gaza e Israele. La protesta è iniziata il 30 marzo (Giorno della Terra, che commemora l’uccisione, all’interno di Israele, di sei Palestinesi che nel 1976 protestavano contro la confisca di terre) e finirà il 15 maggio, nel 70° anniversario della Nakba, il trasferimento forzato in massa di Palestinesi durante la guerra del 1948 che portò alla creazione dello stato di Israele.

“Posso venire con te?” ha chiesto Ali. Gli ho detto che era troppo pericoloso. Stando agli avvertimenti dei militari israeliani, c’era un forte rischio che anche manifestanti disarmati potessero essere colpiti dai cecchini israeliani. “Ma perché ci vai se potresti essere ucciso?”, insisteva Ali.

La sua domanda ha continuato a tornarmi alla mente mentre andavo all’accampamento vicino al confine orientale di Khan Younis, la città a sud di Gaza dove vivo. Ed ha continuato a tornarmi in mente anche il venerdì successivo, mentre continuavo a partecipare alle attività della Marcia; e continuo a pensarci anche adesso.

Io amo la vita. Sono il padre di tre preziosi ragazzi (Ali ha un fratello di 4 anni, Karam, e un fratellino appena nato che si chiama Adam), e sono sposato con una donna che considero la compagna della mia vita. E i miei timori erano giustificati: 39 manifestanti sono stati uccisi dall’inizio della Marcia, molti dei quali per gli spari dei cecchini, tra cui un ragazzo di 15 anni la settimana scorsa e altri due ragazzi il 6 aprile. Israele si rifiuta di restituire i corpi di due degli uccisi.

Migliaia di altri sono stati feriti. Anche i giornalisti sono stati presi di mira: 13 di loro sono stati colpiti dall’inizio delle proteste, tra cui Yasser Murtaja, un fotografo di 30 anni, e Ahmed Abu Hussein, di 25 anni, che è morto mercoledì per le ferite riportate.

E allora perché sono disposto a rischiare la vita partecipando alla Grande Marcia del Ritorno?

Soccorsi a un dimostrante palestinese ferito. Mohammed Saber/European Pressphoto Agency, via Shutterstock

Ci sono molte risposte alla domanda di Ali. Io credo profondamente alla tattica adottata dalla Marcia: un’azione di massa disarmata, diretta e guidata dai cittadini. Sono anche rimasto impressionato da come questa azione ha saputo unificare il popolo palestinese che è così politicamente frammentato nella Striscia di Gaza. E poi la Marcia è un modo efficace per sottolineare le insostenibili condizioni di vita dei residenti nella Striscia di Gaza: quattro ore di elettricità al giorno, l’affronto di vedere la nostra economia e i nostri confini posti sotto assedio, la paura di avere la casa bombardata.

Ma la ragione di fondo della mia partecipazione è che, negli anni avvenire, voglio poter guardare negli occhi Ali, Karam e Adam e dir loro: “Vostro padre ha partecipato a questa storica lotta nonviolenta per la nostra patria.”

Il racconto che i media occidentali hanno fatto della Grande Marcia del Ritorno si è concentrato soprattutto sulle immagini di giovani che lanciano sassi e bruciano copertoni. L’esercito israeliano descrive la protesta come una provocazione violenta da parte di Hamas, una versione che molti analisti hanno accettato a occhi chiusi. Queste descrizioni sono in totale contraddizione con la mia esperienza sul terreno.

Rappresentanti dell’Unione Generale dei Centri Culturali, la ONG di cui sono direttore esecutivo, hanno partecipato alle riunioni in cui si pianificava la Marcian e che includevano l’apporto di ogni settore della società politica e civile di Gaza. Al confine, poi, non ho visto nemmeno una bandiera di Hamas o di Fatah, né manifesti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), tutte cose che erano ben evidenti in quasi ogni altra manifestazione a cui ho assistito. Qui abbiamo dispiegato una sola bandiera: la bandiera palestinese.

È vero, anche membri di Hamas hanno partecipato, poiché fanno parte della comunità palestinese: Ma questa stessa partecipazione indica, forse, che stanno allentando la loro insistenza a liberare la Palestina con azioni militari e magari cominciano ad adottare la protesta civile disarmata. Ma la Grande Marcia del Ritorno non è un’azione di Hamas. È di tutti noi.

E la nostra azione è stata ben più che copertoni bruciati o ragazzi che lanciavano sassi a soldati piazzati a centinaia di metri di distanza. La resistenza negli accampamenti è stata bella e creativa. Ho ballato la dabke, la danza nazionale palestinese, con altri giovani. Ho assaggiato specialità culinarie tradizionali preparate sul posto, come il msakhan (pollo arrosto con cipolle, sumac e pinoli) e il maftool (un piatto di cuscus). Ho cantato canzoni tradizionali con gli altri dimostranti e ho ascoltato gli anziani che raccontavano le storie della loro vita prima del 1948 nei villaggi dove erano nati. Qualche venerdì si sono alzati aquiloni e in altri si sono issate bandiere su pali alti 25 metri in modo che fossero ben visibili dall’altra parte del confine.

Tutto questo avveniva sotto la mira dei cecchini israeliani appostati a circa 700 metri di distanza. Eravamo tesi, avevamo paura –io mi sono trovato accanto a persone colpite dalle pallottole e dai gas– ma eravamo pieni di gioia. I canti, le danze, i racconti, le bandiere, gli aquiloni e il cibo sono qualcosa di più di semplici simboli di un’eredità culturale. Dimostrano infatti –con chiarezza, a alta voce, in modo vibrante e pacifico– che esistiamo, che resteremo, che siamo esseri umani con la nostra dignità, e che abbiamo il diritto di tornare alle nostre case. Ho nostalgia di tornare a dormire sotto gli ulivi di Bayt Daras, il mio villaggio nativo. Voglio mostrare ad Ali, Karam e Adam la moschea in cui pregava mio padre. Voglio vivere in pace nella mia casa natale insieme a tutti i miei vicini, siano essi musulmani, cristiani, ebrei o atei.

La gente di Gaza ha vissuto una tragedia dopo l’altra: ondate di trasferimenti forzati di massa, la vita in squallidi campi rifugiati, un’economia prigioniera, accesso limitato alle aree di pesca, un assedio soffocante e tre guerre negli ultimi nove anni. Israele credeva che, una volta estinta la generazione che aveva sofferto la Nakba, i giovani avrebbero abbandonato il sogno di tornare. Io credo che questo sia uno dei motivi per cui Israele tiene Gaza sull’orlo del collasso umanitario: se le nostre vite sono ridotte a una lotta quotidiana per il cibo, l’acqua, le medicine e l’elettricità, non potremo avere aspirazioni più ambiziose. La Marcia sta invece dimostrando che la mia generazione non intende abbandonare i sogni del nostro popolo.

La Grande Marcia del Ritorno ha rinfocolato il mio ottimismo, ma so anche essere realista. La Marcia, da sola, non porrà fine all’assedio e all’occupazione, non rimedierà all’enorme squilibrio di potenza che esiste tra Israele e i Palestinesi e non raddrizzerà le ingiustizie della storia. Il nostro lavoro deve continuare fino al momento in cui tutti gli abitanti della regione possano condividere eguali diritti. Ma non posso fare a meno di sentirmi ammirato e fiero della mia gente, vedendola unita sotto una bandiera, quasi unanime ad accettare i metodi pacifici per reclamare i nostri diritti e insistere sulla nostra essenza umana.

Ogni venerdì fino al 15 maggio, continuerò ad andare agli accampamenti. Ci andrò per mandare un messaggio alla comunità internazionale sulle condizioni devastanti in cui sono costretto a crescere i miei figli. Ci andrò per poter vedere le nostre terre e i nostri alberi dall’altra parte del confine militarizzato, mentre i soldati israeliani mi sorvegliano del mirino dei loro fucili.

Se Ali mi chiederà perché continuo ad andare alla Grande Marcia del Ritorno, gli dirò così: “Amo la mia vita, ma amo ancora di più te, Karam e Adam. Se rischiare la mia vita vuol dire che tu e i tuoi fratelli avrete una possibilità di crescere, di avere un futuro dignitoso, di vivere in pace con tutti i vostri vicini, nel vostro paese libero, allora questo è un rischio che mi devo prendere.”

Fadi Abu Shammalah

https://www.nytimes.com/2018/04/27/opinion/march-gaza-friday-palestinian.html?rref=collection/sectioncollection/opinion-contributors&action=click&contentCollection=contributors&region=stream&module=stream_unit&version=latest&contentPlacement=4&pgtype=sectionfront

Traduzione di Donato Cioli

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